Sostenibilità
Sostenibilità digitale: la chiave per la trasformazione delle imprese
Nel percorso che unisce sostenibilità e imprese, le realtà italiane (e non solo) sono in grande ritardo. Per fortuna le nuove tecnologie sono in grado di accelerare di molto il cambiamento. Basta usarle nel modo giusto…
Gli italiani amano la sostenibilità. A noi piace davvero tanto essere sostenibili… ma con le emissioni degli altri. Facciamo molta fatica a collegare la visione ideologica del concetto di sostenibilità con le conseguenze pratiche dei nostri comportamenti. È senza dubbio un problema culturale, quindi indotto ma ormai integrato nel nostro modo di pensare e agire. E questo è la radice di molti mali che affliggono anche il nostro tessuto imprenditoriale-economico.
Sostenibilità digitale: tra le imprese confusione e scarsa visione strategica
Le nostre aziende infatti sono amministrate da manager che, ancora oggi che il tema è all’ordine del giorno, hanno un concetto della sostenibilità simile a quello dei normali cittadini, ovvero molto confuso e con una scarsa visione strategica. Viene spesso fatta coincidere con i temi dell’ambientalismo, dell’ecologia, quando si tratta di un tema ben più complesso e articolato, strettamente collegato all’aspetto sociale e a quello economico. È quello che sottolineano con forza i 17 obiettivi dell’Agenda 2030, ovvero la necessità di correlare ambiente, società ed economia. E lo strumento migliore che abbiamo per poter affrontare questa grande sfida è lo sviluppo tecnologico, il digitale. «È il concetto stesso di sostenibilità digitale», sostiene Stefano Epifani, presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale e autore del libro Sostenibilità Digitale: perché la tecnologia non può fare a meno della trasformazione digitale (Digital Transformation Institute, 2020).
«La domanda che dobbiamo farci è: come possiamo usare la tecnologia per ridurre i consumi, per aumentare l’integrazione, per combattere le differenze di genere, per raggiungere insomma gli obiettivi dell’Agenda 2030? Quindi usare la tecnologia come motore di processi di sviluppo sostenibile-economico e sociale? Qui si apre il tema di come rendere la tecnologia stessa sostenibile. Purtroppo, sembra che gli sforzi maggiori si stiano facendo in questo senso: si pensa magari a come rendere carbon neutral il data center aziendale, perdendo di vista i veri obiettivi strategici. Quando si parla di tecnologia se ne parla come qualcosa da gestire perché sia a emissioni zero, in modo che non faccia danni. Ma qualsiasi cosa si faccia ha un suo impatto, quindi da questo punto di vista è una partita persa. Il ragionamento invece deve essere un altro: costruiamo sistemi tecnologici che permettano di realizzare ecosistemi che, non solo non facciano danni, ma arrivino a produrre un miglioramento concreto sulla società, sull’ambiente e sull’economia».
Transizione energetica irrealizzabile senza il digitale
Parlare di transizione energetica, per esempio, significa parlare di qualcosa che senza il digitale non è realizzabile. Tutto il sistema andrebbe infatti gestito su una infrastruttura smart-grid che di fatto tratterebbe l’infrastruttura elettrica come fosse un’infrastruttura informatica. Si chiama transizione energetica, ma in realtà si tratta di transizione digitale nelle sue applicazioni sul fronte energetico. Lo stesso discorso vale per l’economia circolare, per l’agricoltura di precisione, il sistema sanitario, o qualsiasi altra applicazione che voglia orientarsi alla sostenibilità: sotto c’è sempre e comunque un’innovazione tecnologica. «Allo stesso tempo però dobbiamo definire modelli di digitalizzazione che siano compatibili con dei criteri di sostenibilità», chiosa Epifani. «Non possiamo concedere, per esempio, tutti i nostri dati sanitari a una piattaforma qualsiasi senza preoccuparci di come li gestirà, perché c’è un rischio di violazione dei diritti umani. Abbiamo due elementi: la sostenibilità come criterio di indirizzo della tecnologia, e la tecnologia come motore di sviluppo della sostenibilità. Per questo si parla di una dimensione sistemica. La digitalizzazione è una sorta di catalizzatore che semplifica la gestione di un sistema complesso per natura».
Sostenibilità digitale: i dati dell’Osservatorio nazionale
La fotografia scattata dalla Fondazione, con il suo Osservatorio Nazionale, lanciato nell’aprile del 2022, non è particolarmente lusinghiera. Gli italiani vogliono la sostenibilità, ma non conoscono, o comunque non usano, gli strumenti necessari per raggiungerla. Sarebbe senz’altro utile una spinta dal basso, ma istituzioni e mondo del lavoro sono richiamati a importanti responsabilità. L’errore principale, delle imprese così come dei grandi enti pubblici o privati, è quello di considerare la sostenibilità come un elemento on-top alle attività aziendali, una tematica “aggiunta” e non integrata al proprio modello di business. Si è spinto molto sulle logiche Esg (Environmental, Social, Governance) come criteri di misurazione della sostenibilità di un’azienda, ignorando il fatto che si trattasse prettamente di un indicatore di tipo finanziario.
Questo ha finito per creare un’astrazione fra gli obiettivi che un’azienda doveva raggiungere per essere compatibile con i criteri Esg, e quello che invece è la sostenibilità in concreto, in sostanza. Con il risultato che imprese con modelli di business insostenibili hanno però politiche ESG di prim’ordine, mentre aziende indiscutibilmente più sostenibili risultano penalizzate. È fondamentale comprendere come la sostenibilità intercetti il proprio modello di business. Finché verrà considerata come “altro” rispetto a questo, rimarrà sempre un orpello costoso e sostanzialmente inutile.
Aziende e sostenibilità digitale: i casi Enel e Philip Morris
«Ci sono aziende in cui la sostenibilità è intrinseca nel business model», continua Epifani. «Fra i partner della Fondazione c’è per esempio Enel, che sta ripensando il proprio modello in modo da renderlo sustainable by default. Si sono posti la domanda: “Come possiamo continuare a fare fatturato creando benessere per ambiente e società?”, e poi hanno legato la loro attività attorno a obiettivi che sono molto specifici, come l’abbattimento delle emissioni o il miglioramento delle condizioni di lavoro, indici effettivamente misurabili. Essendo legati al mercato dell’energia, diciamo che a loro è venuto quasi naturale evolversi in questo senso. Ma non mancano i casi di studio interessanti su aziende di altri settori, il più clamoroso è forse quello di Philip Morris che, anche se al momento si tratta ancora solo di dichiarazioni, da qui a 20 anni abbandonerebbe del tutto il mercato del tabacco da combustione. Da noi», prosegue Epifani, «sicuramente sono mancati interventi strutturali da parte delle istituzioni, che però per poter fare questi interventi dovrebbero capire di cosa stanno parlando. Come per le aziende, ancora più per le istituzioni questo argomento rimane misterioso. E questo è un problema sostanziale. Se vogliamo vincere questa sfida è necessario partire da politiche diffuse di sensibilizzazione, di formazione già a livello scolastico. Perché è vero che la responsabilità deve essere fatta risalire alle istituzioni, ma se la globalità dei cittadini non assume determinati comportamenti, una scelta istituzionale non sarà mai sufficiente, e noi questa partita la perderemo».
Articolo pubblicato su Business People di gennaio-febbraio 2023