Attualità
Vincere la mafia è un’impresa
Aprirsi a una nuova attività, con un passato così scomodo alle spalle, è tutt’altro che semplice. Spesso sui capitali confiscati – oltre 12 mila dagli anni ‘80 a oggi – gravano fattori ambientali, ipoteche e ingenti spese di ristrutturazione. Eppure alcune cooperative ce la stanno facendo. In attesa di beneficiare di maggiori agevolazioni e tutoraggio manageriale

Valgono oltre due milioni di euro le ville, le auto e i motocicli – alcuni d’epoca – sequestrati a inizio marzo dalla Guardia di Finanzia alla cosca Giampà di Lamezia Terme (Cz). E ammontano a 15 milioni di euro complessivi le varie società e imprese, tra cui un agriturismo di lusso, messi sotto sigilli dalle Fiamme Gialle a inizio anno. Un’operazione che ha interessato cinque imprenditori del capoluogo siciliano, tratti in arresto nell’aprile 2009. Lo stato dell’arte delle confischeIntanto, tra indagini e controlli, sono già passati quattro anni. Chissà quanto tempo ci vorrà prima che ne vengano autorizzate le confische definitive. Solo successivamente a tale provvedimento, infatti, il capitale mafioso viene devoluto allo Stato che deve destinarlo entro e non oltre tre mesi. «Negli ultimi 30 anni sono stati quasi 13 mila i beni mobili e immobili sequestrati e confiscati. Tra il sequestro e la confisca intercorrono anche cinque, sette o dieci anni», spiega a Business People Dario Caputo, dirigente ufficio Macroarea 2 (Regioni del Nord e del Centro- Italia, Campania e Sardegna) Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc). Una struttura sotto la vigilanza del ministro dell’Interno, istituita solo da poco, nel 2010. Non più di 30 dipendenti fissi, sotto la direzione del Prefetto Giuseppe Caruso, immersi in un calderone magmatico di dati, burocrazia e numerosi problemi gestionali. Lotta alla mafia, il riutilizzo sociale dei beni confiscati«Consideri che sull’80% di quei beni si rilevano delle criticità», prosegue Caputo. Certo, dopo svariati anni delle coltivazioni agricole vanno recuperate, degli edifici possono diventare inagibili e i vecchi macchinari aziendali andrebbero ripuliti e oliati, o meglio ancora innovati. Fattori, questi, che complicano le stime a valore dell’ingente patrimonio sottratto alle cosche, e che oscillerebbe in una forbice compresa tra i 20 e i 40 miliardi di euro. Come fa presente Caputo, un tasto dolente è poi rappresentato dai «gravami ipotecari iscritti sulle confische, che ne bloccano la destinazione e hanno pesanti ricadute sulla collettività». Nell’ultima relazione dell’Anbsc si valutava che il capitale totale opponibile, senza considerare i debiti verso lo Stato, ammontasse a 228 milioni di euro, a cui andavano sommati interessi pari a circa 122 milioni. Cifre da capogiro, pesanti come macigni su un Paese in profondo rosso. «Tra le varie aree che necessitano di nuove disposizioni in materia», sottolinea Caputo, rivolgendo così un pensiero al nuovo esecutivo, «bisognerebbe innanzitutto impedire il fatto che lo Stato sia costretto a pagare degli interessi su mutui concessi a immobili di questo genere».
DOVE SI CONCENTRA L’IMPRENDITORIA MAFIOSA. «Nel 52,3% dei casi si tratta di abitazioni e terreni; il 39% circa è costituito da vetture, gioielli e denaro e, infine, l’8,7% è rappresentato da aziende e titoli societari. Sommando tutto quanto, il “tesoretto” sottratto dal 1983 al 2011 alle organizzazioni criminali sale a 20 mila unità», commenta Marco Dugato, Adjunct Professor of Crime Statistics Transcrime, centro interuniversitario di ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dell’Università degli Studi di Trento. Di recente il team di cui fa parte ha concluso un rapporto sugli investimenti delle mafie nella Penisola, condotto con una precisa metodologia scientifica. Attraverso un’analisi sistematica del database dei beni confiscati in Italia, per esempio, «la ricerca ha permesso la mappatura del territorio nazionale in base a diversi parametri, come l’indice di presenza mafiosa (Ipm) fotografando i territori dove le mafie sono più attive». Sicilia, Campania e Calabria in primis, specie per quanto riguarda i terreni agricoli. I settori economici più gettonati? Quelli a bassa tecnologia, con intensità di manodopera e frequenti rapporti con le amministrazioni locali. «Spiccano il commercio all’ingrosso e al dettaglio (29,4%), le costruzioni (28,8%), ma anche alberghi e ristoranti (10,5%) e attività immobiliari (8,9%)», aggiunge Dugato. Quando poi tali imprese, dopo decenni, passano sotto una diversa, e legale, gestione, spesso si assiste a un nuovo bagno di sangue. Delle circa 1.700 aziende confiscate e date in gestione dallo Stato dal 1982 al 2012, infatti, solo 57 risultano attive sul mercato, appena 67 hanno dei dipendenti. Eppure ci sono casi che hanno saputo distinguersi in questo panorama desolante. Società che, dopo iniziali boicottaggi e atti intimidatori, hanno ripreso a produrre e dare occupazione. E nuovi business avviati da cooperative a cui i Comuni hanno affidato edifici e terreni. «Si tratta di ricchezza pulita, con una forte ricaduta territoriale, che ha innescato un circolo economico virtuoso in via di continua e rapida espansione», scrive la giornalista Ina Modica nel suo recente libro Speranze nate libere, che presenta una fotografia dettagliata dell’attuale panorama nazionale sui beni confiscati e illustra alcuni casi eccellenti, in particolare siciliani.
LA SECONDA VITA DI CALCESTRUZZI ERICINA. Proprio dalla Trinacria arriva un modello imprenditoriale, storia di grande tenacia e resistenza. Quella della Calcestruzzi Ericina Libera, impresa edile di Trapani. Oggi conta 14 dipendenti e un fatturato di oltre 1 milione di euro nel 2012. Niente male per un’azienda ufficialmente rinata solo nel giugno 2011, e operante in un mercato, quello edilizio, fortemente colpito dalla crisi. «Ma ora stiamo scontando effetti congiunturali, che riguardano un po’ tutti nel comparto. Per fortuna nulla a che vedere con quanto è successo nel 2001», spiega il presidente Giacomo Messina. Si riferisce a quando, in seguito all’arresto del boss Vincenzo Virga e alla confisca dell’impresa, «la mafia iniziò a fare pressioni sugli abituali clienti, perdemmo oltre il 50% degli incarichi… L’obiettivo dei clan era farci fallire per poter ricomprare la Calcestruzzi a prezzi stracciati». Fu da lì, tuttavia, che arrivò la spinta perché sei ex dipendenti formassero l’attuale cooperativa. Fondamentali, nel tempo, sono stati gli appoggi del prefetto di Trapani Fulvio Sodano, dell’associazione Libera di Don Luigi Ciotti, delle amministrazioni locali e di Banca Unipol. Soggetti imprescindibili per far ripartire e innovare gli impianti, nel 2008-2009, per un investimento complessivo da tre milioni di euro. Inoltre, «per aver accesso agli 1,13 milioni di euro nell’ambito del Programma operativo regionale (POR) Sicilia (in attuazione delle strategie di intervento delineate dal Piano di Sviluppo del Mezzogiorno, ndr)», aggiunge Messina, «la Calcestruzzi avrebbe dovuto aumentare il capitale sociale. La strategia dell’amministrazione giudiziaria, devo dire lodevole, è stata allora quella di far inserire, nella compagine societaria, un’altra impresa confiscata, l’Immobiliare Strasburgo di Palermo». L’azienda trapanese ha raggiunto anche un altro importante traguardo: «Accanto alla produzione di calcestruzzo, che rimane attività primaria, come seconda filiera produttiva abbiamo sviluppato il recupero degli “sfabbricidi”, gli scarti edilizi, altrimenti destinati alla discarica o, peggio ancora, abbandonati nell’ambiente», conclude Messina.
BACCO È LIBERO. A Nord del Salento, nella provincia di Brindisi, tra Mesagne, San Pietro Vernotico e Torchiarolo, si distendono circa 70 ettari di terreni confiscati, in cui sono stati appiccati anche la scorsa estate vari incendi dolosi. La loro gestione è affidata alla cooperativa Terre di Puglia – Libera Terra, che impiega 20 persone. Oltre un milione di euro il valore complessivo della produzione nel 2012. «Annualmente vendiamo circa 100 mila bottiglie di vino pugliese, anche al di fuori dell’Italia; per esempio, nel Nord Europa, negli Stati Uniti e nel Sud Est asiatico», spiega il presidente Alessandro Leo. «Contiamo poi 80 mila bottiglie di passata di pomodoro; 8 mila sono quelle di olio pugliese ricavato da ulivi secolari della regione. E 300 mila le confezioni commercializzate di sostitutivi del pane (taralli e freselle)». La cooperativa brindisina presenta una realtà analoga a quella dello stabilimento enologico siciliano Centopassi, in memoria del giornalista Peppino Impastato, a San Giuseppe Jato (Pa). La Cantina (17 mila mq, circondata da altri 6 ettari di terreno) ha una capacità di 2.100 ettolitri e realizza 350 mila bottiglie l’anno. È gestita dalla cooperativa Placido Rizzotto, composta da 15 giovani formati e selezionati dal Consorzio Sviluppo e Legalità. Quest’ultimo, attivo dal 2000, raggruppa otto comuni della provincia proprio per consentire una migliore gestione dei beni confiscati sul territorio (700 ettari su cui lavorano circa cento persone per produrre pasta, vino, meloni, pomodori, miele, conserve e legumi).
RETI ILLECITE NON SOLO AL SUD. Negli anni, però, la Piovra ha esteso i suoi tentacoli anche a Settentrione. Specie nel Nord Ovest, in particolare in Piemonte e in Lombardia. A Chivasso (To) è situato «il più grande bene confiscato del Settentrione, con un alto valore simbolico»: la Cascina Caccia. «Proprio da lì, nel 1983, partì l’ordine della famiglia Belfiore di assassinare il procuratore torinese Bruno Caccia». A parlare è Enzo Cascini dell’associazione Acmos, a cui è stata affidata, nel 2008, la gestione della struttura (oltre mille mq di superficie). Accanto alle attività di educazione alla legalità che i cinque giovani, che in essa abitano e lavorano, portano avanti, «coltiviamo anche l’ettaro di terreno circostante. In particolare, produciamo circa una tonnellata all’anno di miele biologico, che commercializziamo a marchio Libera Terra». I proventi sono serviti a ristrutturare cascina e fienile, lasciati volutamente danneggiati dalla precedente proprietà. Nel frattempo, è stato piantumato anche un noccioleto «in attesa che sia pronto per la produzione della varietà Dop Tonda Gentile del Piemonte», aggiunge Cascini. «L’obiettivo è realizzare in futuro, nei nostri laboratori, del torrone di qualità con miele e nocciole da noi coltivati». Spostiamoci a Milano, «diventata la nuova capitale della ‘ndrangheta. In Lombardia operano 500 affiliati appartenenti ai diversi “locali” disseminati in tutta la Regione». Così inizia Le mani sulla città di Gianni Barbacetto e Davide Milosa. A novembre 2010, nel capoluogo lombardo, proprio in un immobile confiscato alla mafia calabrese è nato SpazioCangiari, prima boutique dell’omonimo brand di alta moda etica ed ecologica di proprietà del gruppo cooperativo Goel (termine che ha radici bibliche, e indica “il liberatore”, “il riscattatore”). «Siamo una realtà della Locride con 120 lavoratori dipendenti, che registra un valore aggregato di quasi 5 milioni di euro annui nella produzione, spaziando dal sociale al turismo, dall’artigianato all’agroalimentare», spiega il presidente Vincenzo Linarello. Il consorzio è impegnato da anni a combattere la mafia e a riabilitare le comunità locali, come rimarca il nome del suo fashion brand (in idioma calabrese e siciliano, “cangiari” significa “cambiare”).
SIGILLI ALLE IMPRESE |
Il 39% delle aziende confiscate tra il 1983 e il 2011 è attribuibile a Cosa Nostra; il 23% alla Camorra; il 13% alla ‘ndrangheta; l’8% alla criminalità organizzata pugliese; il 4% alla banda della Magliana e il 13% ad altre associazioni o senza assegnazione precisa. *Fonte: Elaborazione Transcrime |
“WHITE LIST” DEI MANAGER, FORSE UN PRIMO PASSO. «Il nuovo esecutivo? Cominci a considerare il bene confiscato non un fattore straordinario, ma ordinario, concependolo una volta per tutte come mezzo di sviluppo economico e sociale per il territorio locale. E vengano sbloccati in tempi ragionevoli quei mobili e immobili congelati, che rischiano altrimenti di rimanere cattedrali nel deserto». È la richiesta di Davide Pati, responsabile beni confiscati per l’associazione Libera. Che si rivolge anche a imprenditori e aziende, «perché attuino un’opera di “tutoraggio” verso imprese e cooperative che gestiscono beni confiscati, non solo mettendo a disposizione macchinari e materie prime, ma anche, soprattutto, trasmettendo competenze. Un esempio? Un’azienda tessile storica in provincia di Siena ha offerto il suo know how per aiutare l’avvio di un maglificio a Quindici (Av), creato nella villa confiscata a un boss locale». In quest’ottica, farebbe ben sperare la “white list” di 63 manager over 50 individuati nell’ambito di un progetto promosso, tra gli altri, da Assolombarda, e formatisi presso istituti economici nazionali di eccellenza. Con un duplice scopo: rilanciare ex dirigenti messi alla porta dalla crisi e rinvigorire business sottratti alla mafia. Certo, la strada è tutta in salita, ma i modelli virtuosi citati dimostrano che le potenzialità da sviluppare ci sono tutte, e urgono interventi normativi per tutelare adeguatamente il comparto. Da sostenere, in primis, con meccanismi di accesso al credito più snello e maggiori agevolazioni fiscali per chi investe in queste realtà. «Il terreno di coltura di cosa nostra, con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette», così lo descriveva il giudice Giovanni Falcone, deve oggi rifiorire alla luce di nuove speranze economiche, oltre che sociali ed etiche. Per sprigionare quel «fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità», come auspicava, poco prima di essere assassinato, il magistrato Paolo Borsellino.
Credits Images:MODELLO VIRTUOSO. Una “buona pratica” è rappresentata dalla Cantina enologica Centopassi, in provincia di Palermo. L’azienda richiama nel nome il film diretto da Marco Tullio Giordana: Luigi Lo Cascio vestiva i panni di Peppino Impastato, ucciso nel 1978 per la denuncia antimafia da lui condotta, anche con toni irriverenti, attraverso la libera Radio Aut. La Cantina è oggi una delle realtà più produttive tra quelle nate su aree confiscate, grazie alle sue uve di alta qualità: bianche (Chardonnay, Catarratto, Grillo) e rosse (Nero d’Avola, Syrah, Merlot, Cabernet Sauvignon, Perricone)
