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Attualità

Unità d’Italia: ma il Sud ci ha guadagnato?

Era ricco come il nord, c’era più analfabetismo, ma le industrie siderurgiche non avevano nulla da invidiare a quelle sabaude. A 150 anni dal 1861 non c’è ancora una lettura condivisa su cosa accadde al mezzogiorno d’Italia

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Di Gustavo Cavour nessuno si è mai occupato. Tutte le attenzioni, per oltre 150 anni, sono andate all’altro conte di Cavour, quello vero, Camillo Benso, il fondatore (assieme ai Savoia) del Regno d’Italia: a lui sono stati dedicati monumenti, strade, scuole e quant’altro. Eppure una paginetta, un paragrafo, almeno due righe su un libro di storia anche il fratello le meritava perché è il precursore di un costume che avrebbe caratterizzato la vita politico-economica italiana dall’Unità a oggi. A colmare questa lacuna provvede il libro scritto da Lorenzo Del Boca in collaborazione con (udite, udite) Emanuele Filiberto di Savoia intitolato Maledetti Savoia-Savoia Benedetti (Piemme editore). Del Boca è un giornalista, saggista, scrittore; Emanuele Filiberto è l’ultimo discendente dell’ex casa regnante rientrato in Italia nel 2003 dopo l’esilio decretato in seguito al referendum del giugno 1946. I due si sono messi assieme per scrivere questo volume che ha per sottotitolo Storia e controstoria dell’unità d’Italia: il primo si è incaricato dell’accusa contro il Risorgimento e i suoi miti, l’altro della sua accorata (e interessata) difesa. Sia detto fra parentesi, l’impressione è che Del Boca abbia prestato la sua penna anche all’avvocato difensore, ma questo è un dettaglio. Dunque, in questo lungo e documentato saggio, c’è un capitolo I conti che non tornano nel bilancio dell’Italia unita nel quale si parla brevemente di questo Gustavo: «Gustavo Cavour», scrive Del Boca, «fratello del presidente del Consiglio, era uno dei maggiori azionisti della Cassa di Sconto che, con capitali inglesi, si accaparrò i lavori del canale che doveva portare acqua nella Bassa Novarese e in Lomellina per irrigare le risaie e che, non a caso, venne indicato anche sui mappali come Canale Cavour. I Cavour erano considerati abilissimi nel fare quattrini». Insomma si tratta di qualcosa molto vicino al conflitto di interessi; la famiglia Cavour, approfittando della posizione di assoluto potere del suo leader, il Conte Camillo, si faceva i suoi affari. E questo mette in discussione quel primato etico che gli storici a favore hanno sempre attribuito a governanti e amministratori del Regno di Sardegna e che avrebbe contribuito a dare loro una sorta di diritto a guidare il processo di unificazione nazionale, a “civilizzare” le altre popolazioni. In particolare quelle del Mezzogiorno, dipinte come selvagge, arretrate, dominate da una nobiltà decadente oppure da briganti. Oggi tanti altri pilastri del Risorgimento vengono messi in discussione. In coincidenza con il 150esimo anniversario della proclamazione della nascita del Regno d’Italia si fanno dibattiti televisivi, escono film, saggi, libri che rivedono il primo secolo e mezzo di storia nazionale. Tutti mettono in dubbio l’agiografia risorgimentale, il racconto di un movimento di popoli che si unirono, sotto la guida del piccolo, ma politicamente abile e combattivo Piemonte, per sottrarsi dal giogo di sovrani stranieri (l’Austria) o comunque tirannici e vagamente cialtroni (i Borboni). Non andò così. Soprattutto nel Mezzogiorno l’Unità fu qualcosa di diverso. Scrittori come Pino Aprile nel sul libro Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero Meridionali (Piemme) hanno parlato di violenze commesse dai Piemontesi che condussero una vera guerra di occupazione. Lo storico inglese Denis Mack Smith, uno dei più attenti studiosi britannici della nostra storia, ha scritto: «L’incursione del Nord sembrava una nuova invasione barbarica». Un altro storico, Pasquale Villari, annota: «La nuova classe politica non aveva nessuna esperienza amministrativa e nessuna conoscenza del Meridione. Le varie oligarchie regionali furono sostituite da famiglie rivali che erano state più rapide a cambiare casacca». E ancora, Gustavo Rinaldi, nel suo libro Il Regno delle Due Sicilie: tutta la verità: «Gli invasori occuparono tutto, ma proprio tutto, come se volessero confiscare le istituzioni dello Stato per farne cosa loro».

LE PRINCIPALI TAPPE VERSO L’UNITÀ

1848

Prima guerra d’indipendenza. I Savoia ne escono sconfitti

1859

A distanza di oltre dieci anni dalla prima si tiene la Seconda guerra di indipendenza

1860

Da Quarto parte la spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi

1861

Viene proclamata la nascita del Regno d’Italia e si tengono le prime elezioni

1866

La Terza guerra d’indipendenza:il Veneto entra a far parte dell’Italia

1870

Annessione di Roma, proclamata capitale del Regno l’anno successivo

Insomma, il rapporto fra Nord e Sud iniziò subito male. Come d’altra parte molto incerto fu l’avvio della stessa storia unitaria. La creazione dell’Italia non fu quel movimento di masse popolari accorse sotto il tricolore che fino a qualche anno fa veniva insegnato nelle scuole. Qualche dato può illustrare la situazione. Nel 1861 si tennero le elezioni per eleggere il primo parlamento della nuova nazione. Su oltre 20 milioni di abitanti, gli aventi diritto al voto erano solo 420 mila, essendo tutti gli altri esclusi o perché minori, o donne, o analfabeti o di censo troppo basso. Alle urne, in tutto il Paese, si recarono soltanto 240 mila, dei quali 70 mila dipendenti pubblici. La composizione della Camera italiana rifletté questo suo dna originario, come scrive Ferdinando Petruccelli della Gattina nel suo I moribondi di Palazzo Carignano. «La Camera italiana si compose di 433 deputati. Ci sono due principi, 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori, 117 cavalieri. Poi 135 avvocati, 25 medici, 21 ingegneri, dieci preti (…) Inoltre quattro ammiragli, 23 generali, 13 magistrati, 52 professori o ex professori o che si danno come tali (…) C’è un Bey dell’Impero Ottomano, due ex dittatori, due ex prodittatori, 19 ex ministri, 6 o 7 milionari, 25 nobili senza titolo, quattro soli letterati e poi Verdi…il maestro Verdi». Due i primi argomenti che vennero discussi in seduta plenaria: se gli ufficiali potessero presentarsi alla Camera in divisa (prevalsero i no) e se dovesse essere corrisposta una qualche remunerazione ai membri del Parlamento; ipotesi che venne esclusa altrimenti, come si legge nel verbale di quella seduta, «il regime parlamentare si incamminerebbe per una pessima via». Questo Parlamento iniziò a legiferare su un Paese che, storicamente, aveva radici diverse, storie non coincidenti, autonomie spiccate e radicate. Attuò, sulla base del modello francese che ispirava i vincitori piemontesi, una profonda opera di centralizzazione dello Stato. Il Paese venne piemontesizzato: tramontato nel 1849, dopo la sconfitta della prima guerra di Indipendenza, il modello federalista auspicato da Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Carlo Cattaneo e tanti altri, prevalse quello, antitetico, che voleva far dipendere tutto da un centro (all’inizio Torino, poi Firenze, infine Roma). Un modello che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, parlando a Reggio Emilia il 7 gennaio scorso durante la cerimonia ufficiale di apertura delle celebrazioni dell’Unità, ha bollato come inadeguato, inadatto e da modificare: «Appare opportuno superare il vizio di origine del centralismo statale di impronta piemontese», ha dichiarato il capo dello Stato. E sono parole dette non per ragioni di opportunità politica attuale, per compiacere Umberto Bossi, la Lega Nord e il federalismo fiscale: è un richiamo a un errore storico cui, dopo 150 anni, è opportuno cercare un rimedio, un correttivo. Oggi molti, come il politologo Luca Ricolfi nel suo Sacco del Nord, dicono che il Mezzogiorno sta drenando risorse dal settentrione produttivo, trascinandolo verso una decadenza. Altri sostengono che questo fenomeno (ammesso sia vero) è un risarcimento per quanto accaduto 150 anni fa quando furono i settentrionali (o meglio i sabaudi) a saccheggiare le regioni meridionali che erano in condizioni economiche migliori rispetto al Regno Sardegna o del Lombardo Veneto. È difficile discernere le ragioni dell’uno e dell’altro visto che la materia, come ormai immancabilmente avviene in Italia, è trattata alla stregua di uno scontro fra tifoserie e ha tutte le caratteristiche degli sbraitanti talk show televisivi.

LE PRIME ELEZIONI

20 MILIONI

Gli abitanti del neonato Regno d’Italia

420 MILA

Gli aventi diritto al voto

240 MILA

Gli italiani che si recarono alle urne

70 MILA

Coloro che tra i votanti erano dipendenti pubblici

Attingendo agli storici più seri, si può dire che l’Italia era, nel suo complesso, un paese di miserabili rispetto alle altre nazioni europee già avviate sulla strada della rivoluzione industriale. E in questo stato di sottosviluppo non c’erano differenze sostanziali tra Settentrione e Meridione. Uno dei più affidabili storici italiani del Risorgimento, Guido Pescosolido, allievo di Rosario Romeo e Renzo De Felice, scrive nel suo volume Unità nazionale e sviluppo economico: «Un divario fra Nord e Sud, soprattutto in termini di rapporti sociali, alfabetizzazione di massa e sviluppo dei trasporti interni terrestri, esisteva già al momento dell’Unità, tuttavia il grosso del dislivello tra Nord Italia e Mezzogiorno in termini di reddito pro capite e struttura industriale si formò dopo l’Unità, e segnatamente tra la fine degli anni ‘80 e lo scoppio della prima guerra mondiale. Il Mezzogiorno pagò un prezzo elevato alle scelte liberiste del 1861, ma soprattutto a quelle protezioniste del 1887 (…). Se tra le due parti del Paese si volesse stilare il bilancio tra il dare e l’avere economico e finanziario fra l’unità e la prima guerra mondiale, il saldo sarebbe nettamente a favore del Nord». I difensori delle ragioni del Sud sostengono però che la spedizione dei Mille e la successiva presa del potere da parte dei Savoia rappresentò per il Mezzogiorno una vera spoliazione: l’Unità d’Italia era costata molto cara al Regno di Sardegna le cui finanze erano dissestate, a un passo dalla bancarotta. Il conto qualcuno lo doveva pagare e, con la forza delle armi, questo pedaggio fu imposto proprio al Sud, alle terre, per così dire, liberate dal giogo dei Borboni. L’oro del Banco di Napoli, per esempio, fu introitato dal nuovo Stato unitario e andò a saldare il passivo contratto dal vecchio regno sabaudo per le sue risorgimentali imprese. Quello stesso oro, per la verità, non piacque solo ai Savoia ma, secondo alcuni storici, anche allo stesso Garibaldi che ne requisì una fetta appena sbarcato a Marsala, rilasciando regolare ricevuta. E queste scorribande impoverirono le finanze del Sud, una volta floride. Scriveva Francesco Saverio Nitti, che fu presidente del Consiglio nel 1919-20: «Le monete degli antichi Stati italiani al momento dell’annessione ammontavano a circa 669 milioni, di cui ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie». Regno che aveva un’industria tessile, ma anche siderurgica di un qualche rilievo, per nulla inferiore a quelle del Nord, Lombardo-Veneto compreso. E aveva un’agricoltura (allora settore primario in tutta la nazione) florida, esportatrice. Per contro, il Sud aveva un tasso di analfabetismo superiore a quello del Nord e alla media nazionale (78%): la Sicilia arrivava a punte del 90%, contro il 57 del Piemonte. I Savoia introdussero quasi subito l’istruzione obbligatoria, ma anche la leva, le tasse di successione e imposero al Sud un regime fiscale più oneroso rispetto a quello vigente al Nord. La serie delle recriminazioni, il conto del dare e avere potrebbero andare avanti ancora a lungo, ma senza grande costrutto. Come dice ancora Pescosolido «il Nord e il Sud prima dell’unità erano dei piccoli Paesi subordinati politicamente e marginalizzati economicamente. In entrambi i sensi cominciarono a contare qualcosa di più in Europa e nel mondo solo dopo l’unità». Oggi, al Sud come al Nord, in occasione del 150esimo anniversario molti si chiedono se l’unità nazionale sia stata davvero un’operazione storica positiva, se non sarebbe stato meglio agire diversamente. Si può rispondere con le parole che Palmiro Togliatti, per anni capo del Partito comunista italiano e (comunque la si pensi) uno dei più significativi leader politici, pronunciò l’11 marzo 1947 all’Assemblea costituente: «Nessuno lo può dire oggi se sia stato giusto organizzare l’Italia come è stata organizzata dopo il 1860 (…) Poteva essere presa un’altra strada? Non lo so. La storia è stata così e basta (…) L’unità nazionale è un bene prezioso (…) Dobbiamo stare attenti a non perderla ora questa unità».

SENZA LETTERE

78%

il tasso medio di analfabetismo alla nascita del Regno d’Italia

90%

il tasso di analfabetismo in Sicilia

57%

il tasso di analfabetismo in Piemonte