Attualità
Lavoro femminile è sinonimo di precarietà
Solo poco più di un contratto a tempo indeterminato su dieci attivato a favore delle donne nel primo semestre 2021
Scelgono la maternità sempre più tardi (in Italia l’età media al parto delle donne raggiunge i 32,4 anni) e fanno sempre meno figli (1,25 il numero medio di figli per donna). Devono spesso rinunciare a lavorare a causa degli impegni familiari (il 42,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni con figli, risulta non occupata), con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali, oppure laddove il lavoro sia stato conservato, molte volte si tratta di un contratto part-time (per il 39,2% delle donne con due o più figli minorenni). Nel solo 2020 sono state più di 30 mila le donne con figli che hanno rassegnato le dimissioni, spesso per motivi familiari anche perché non supportate da servizi sul territorio, carenti o troppo costosi, come gli asili nido (nell’anno educativo 2019-2020 solo il 14,7% del totale dei bambini 0-2 anni ha avuto accesso al servizio finanziato dai Comuni), e solo poco più di un contratto a tempo indeterminato su dieci tra quelli attivati nel primo semestre 2021, è a favore delle donne. È la preoccupante fotografia che emerge dal 7° Rapporto di Save the Children “Le Equilibriste: la maternità in Italia 2022”, alla vigilia della Festa della mamma, che vede le madri alla continua ricerca di un equilibrio tra vita familiare e lavorativa, spesso senza supporto e con un carico di cura importante, aggravato negli ultimi anni a causa della pandemia.
Lo scenario delineato dai dati indica un mancato sostegno pubblico alle mamme che affonda le sue radici nelle pesanti disparità di genere in Italia, che prescindono dalla decisione delle donne di avere dei figli. Per le diplomate, ad esempio, i salari sono sistematicamente inferiori e il divario di genere tende ad aumentare nel tempo. Il reddito mensile lordo medio stimato per i ragazzi nell’anno del diploma ammontava a 557 euro, mentre per le ragazze a 415. Nell’anno successivo, in cui i lavori cominciano ad essere più stabili, sale a 921 euro per gli uomini, mentre per le donne è di soli 716 euro. Alle soglie dei 30 anni, gli uomini mostrano una traiettoria salariale ancora in crescita; quella femminile, per contro, si appiattisce. Facilmente comprensibile come il reddito della donna all’interno di una famiglia – essendo il più basso – sia sacrificabile, generando un circolo vizioso che favorisce l’esclusione femminile dal mercato del lavoro.
Anche la lieve ripresa economica dello scorso anno è caratterizzata da ingiustizie di genere: delle 267.775 trasformazioni contrattuali a tempo indeterminato del primo semestre 2021, solo il 38% riguarda donne. Se si guarda il numero totale di attivazioni contrattuali (sul totale di tutte le attivazioni) nel 1° semestre per le donne (poco più di 1,3 milioni), la maggior parte (38,1%) è a tempo determinato; seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, solo per ultimo, l’indeterminato (14,5%). Per contro, degli oltre 2 milioni di contratti attivati per gli uomini, quasi la metà (il 44,4%) è a tempo determinato, subito seguito dall’indeterminato (il 18%). La sintesi della condizione professionale delle donne nel mercato del lavoro, che tuttora persiste in Italia, si potrebbe riassumere nella frase “Le ultime ad entrare, le prime ad uscire”, come sottolineato dal Cnel. Le donne, quindi, a differenza degli uomini, sono ancora in notevole svantaggio quando, nei loro orizzonti di vita prende corpo la decisone di avere un figlio. E questo avviene non solo sul versante occupazionale, ma anche su quello retributivo, tanto che ormai questa condizione viene definita “motherhood penalty” (o “child penalty gap”).
Secondo il Rapporto “Le Equilibriste”, il 42,6% delle donne con figli nella fascia d’età 25-54, infatti, risulta non occupata, con uno divario rispetto agli uomini di più di 30 punti percentuali. Il dato cambia notevolmente a seconda delle aree del Paese, arrivando a sfiorare il picco del 62,6% nel Mezzogiorno, seguito dal 35,8% al Centro e da un 29,8% al Nord. Inoltre, mentre il tasso di occupazione dei padri tende a crescere all’aumentare del numero di figli minorenni presenti nel nucleo, per contro, quello delle madri tende a diminuire. A fronte del 61% di madri con un figlio minorenne occupate (tre donne su cinque), gli uomini nella stessa condizione che hanno un lavoro sono l’88,6%. Il divario aumenta quando, entrambi i generi hanno due o più figli minorenni (donne occupate 54,5% a fronte dell’89,1% degli uomini), con una differenza di 34,6 punti.
Come sottolineano molte delle indagini pubblicate sia in Italia che all’estero, le conseguenze della recessione causata dal Covid-19 hanno colpito soprattutto le donne: anche se i dati da Paese a Paese si differenziano, in media le stime internazionali indicano che le ore lavorate e i tassi di occupazione femminile siano diminuiti a un ritmo maggiore rispetto a quelli maschili. Anche i dati sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri di bambini/e di 0-3 parlano chiaro: su 42.377 casi nel 2020, il 77,4% riguarda donne. Le lavoratrici madri rappresentano il 77,2% (30.911) del complesso delle dimissioni volontarie, a fronte delle 9.110 dei padri. Sul totale delle motivazioni indicate nelle convalide, quella più frequentemente segnalata continua ad essere la difficoltà di conciliazione della vita professionale con le esigenze di cura dei figli.
“La crisi da Covid-19 è stata un acceleratore di disuguaglianze sociali, economiche, educative. In Italia le donne, e le mamme in particolare, hanno pagato un prezzo altissimo. La recessione conseguente alla pandemia è stata giustamente definita una ‘shecession’, i dati ci dimostrano che è ancor di più una ‘momcession’. Anche la ripresa dell’occupazione del 2021 è connotata in larga parte dalla precarietà delle donne e delle mamme nel mondo del lavoro. Servono misure efficaci, organiche e ben mirate che consentano di bilanciare le esigenze dell’essere madri e quelle dell’accesso e della permanenza nel mondo del lavoro”, ha commentato Antonella Inverno, responsabile Politiche per l’infanzia di Save the Children. Mentre Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children, aggiunge: “Gli SDGs dedicano l’obiettivo 5 alla parità di genere e il “traguardo” 5.4 dell’Agenda 2030 è focalizzato proprio sul tema della conciliazione e della condivisione. Per centrare questo traguardo, occorre incentivare il ruolo degli uomini nel lavoro di cura, anche introducendo un congedo di paternità obbligatorio significativamente più lungo dei dieci giorni previsti dalla legge di bilancio 2022 e dai provvedimenti collegati. Le riforme in atto, come il Family Act o la legge sulla parità salariale, sono passi avanti, ma occorre completare il quadro con investimenti consistenti: dal sostegno al reddito, alle politiche fiscali, all’offerta di un’infrastruttura di servizi, alla qualità del sistema scolastico, alle misure di conciliazione, tutto influisce sul benessere del nucleo familiare e anche sul tasso di fertilità che sta segnando picchi drammatici ormai in Italia. È necessario poi che i decreti attuativi del Family Act, scongiurino il rischio che tutto si risolva in misure transitorie o che non affrontano il problema in maniera strutturale senza il necessario rafforzamento dei servizi extrascolastici e di sostegno alla genitorialità”.
Il Rapporto di Save the Children, include come ogni anno, l’Indice delle Madri che identifica le Regioni che si impegnano, di più o di meno, a sostenere la maternità in Italia. Elaborato dall’Istat per Save the Children, l’Indice valuta, attraverso 11 indicatori, la condizione delle madri in tre diverse aree: quella della cura, del lavoro e dei servizi. Secondo l’Indice, anche quest’anno, sono le regioni del Nord ad essere più mother friendly, in alcuni casi con valori molto più alti della media nazionale. Regioni queste, dove c’è una maggiore attenzione sulle condizioni socio-economiche delle donne ed è evidente uno sforzo maggiore nell’investimento sul welfare sociale. Le province autonome di Bolzano e Trento mantengono da varie edizioni, rispettivamente, la prima e la seconda posizione. Dietro le prime due, seguono l’Emilia-Romagna, il Friuli-Venezia Giulia, la Lombardia, la Toscana e la Valle d’Aosta. Al contrario, le regioni del Mezzogiorno (assieme al Lazio) si posizionano tutte al di sotto del valore di riferimento (pari a 100), evidenziando come sia più difficile per le mamme vivere in alcune di queste. Basilicata (19° posto), Calabria (20° posto), Campania (21° posto) e Sicilia (17° posto) si avvicendano da anni nelle ultime posizioni. Quest’anno si affianca loro la Puglia (18° posto), anche se, per tutte le regioni del Mezzogiorno, il trend globale sembra in sensibile miglioramento con un aumento di 4 punti negli ultimi quattro anni.
Cura Rispetto all’anno di riferimento (2018), l’area della Cura fa registrare un calo di quasi due punti a livello nazionale. Il peggioramento si rispecchia in tutte le regioni italiane, con decrementi anche molto rilevanti, come l’esempio della Lombardia con quasi 20 punti di differenza rispetto al 2018. L’area della Cura prende in esame due indicatori: il tasso di fecondità (numero di figli per donna) e la distribuzione del lavoro di cura tra i partner genitori con una occupazione. A livello regionale, si conferma lo scenario emerso nella scorsa edizione del Rapporto di Save the Children, con le province autonome di Trento e Bolzano che si attestano alle prime due posizioni, mentre nel Mezzogiorno si registrano valori molto bassi, ben al di sotto della media nazionale di 98,1, come in Basilicata e in Puglia (rispettivamente con un valore di 69,8 e 73,5).
Lavoro L’area Lavoro, dopo anni altalenanti, sembra registrare una piccola ripresa nel 2021, con un valore pari a circa 100,8. Dal punto di vista territoriale, l’indice mostra le regioni in una sostanziale situazione di stabilità. Alcune regioni rappresentano un’eccezione, come la Liguria che, dopo anni di stabilità, registra un aumento di tre punti e mezzo in più in questa edizione del rapporto di Save the Children, o l’Umbria e l’Abruzzo con un avanzamento di quattro punti, e la Basilicata con più di sette punti in avanti rispetto al 2018. Restano molto marcati i divari territoriali con una netta differenza tra Centro-Nord e Sud. Le regioni del Mezzogiorno infatti, rimangono ancora molto sotto il valore di riferimento di 100, come la Campania (69,1), la Sicilia (69,3) o la Calabria (70,9), mentre quasi tutte le altre, anche se di poco, lo superano: Lazio (101,4), Marche (110,2), Lombardia (115,6) e Piemonte (113,1).
Servizi Nel dominio Servizi, si registra un netto miglioramento. Già nella scorsa edizione dell’Indice delle Madri, si intravedevano dei valori a livello nazionale, che potevano far ben sperare per gli anni successivi, trend quindi confermato. L’indice nazionale passa da 100 a più di 107, con un miglioramento generale in quasi tutte le regioni. Il dato maggiormente significativo sembra essere il gap meno ampio tra Nord e Sud rispetto al 2018: la Sardegna (106,4), per esempio, fa registrare un’ottima performance, superiore anche al Piemonte (106,3) per aumento dell’indice. Diverse regioni del Mezzogiorno registrano valori superiori alla media italiana, a dimostrazione dello sforzo delle regioni del Sud di incentivare i servizi della prima infanzia, fondamentali per supportare la genitorialità. Regioni come la Puglia (dal 16° al 13° posto) o la stessa Sicilia che pur guadagnando una sola posizione (dal 20° posto al 19°) fa un balzo di ben 8 punti.
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