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Un uomo tosto
Determinazione, personalità, grinta, leadership. Capacità di gestione dello stress, del gruppo, dei talenti. Il calcio come grande metafora della vita aziendale nella testimonianza esclusiva di Marcello Lippi, il “mister” campione del mondo
Il compito di un allenatore di calcio, come di un capo azienda, è quello di ottenere i risultati attesi utilizzando al meglio le risorse umane a sua disposizione. Questo avviene attraverso una giusta motivazione di tutti i componenti del gruppo, tenendo conto dei diversi talenti, delle diverse aspirazioni. Cosa ci dice della motivazione?Le faccio degli esempi concreti. Nel 1994 per la prima volta andai alla Juventus. Dopo alcuni mesi di lavoro attento, tenace, ci rendemmo conto che stavamo diventando una squadra forte, con grandi potenzialità tecniche, caratteriali, di organizzazione di gioco. Allora dissi ai giocatori: «Ragazzi, è la prima volta che alleno una grande squadra, non ho mai vinto niente, ho fatto delle esperienze significative ma non ho mai stretto nelle mie mani qualcosa di importante. Davanti a noi c’è una tavola imbandita con un sacco di roba da mangiare: lo scudetto, la coppa Italia, la coppa Uefa, la supercoppa. Però non siamo soli a tavola, tutti hanno fame. Mangerà di più chi avrà più fame. Nemmeno voi avete mai vinto niente di importante nella vostra carriera, per cui avete una grande fame». Questa fu la prima motivazione al gruppo.
Poi però le situazioni cambiano. A partire dall’anno successivo quella Juve vinse per quattro anni di seguito. Non potevo più giocarmi la metafora della tavola imbandita, perché avevamo già mangiato a sufficienza (scudetto, coppa Italia, supercoppa e finale Uefa). Ci volevano motivazioni diverse, l’intelligenza di capire che gli avversari non stanno a guardare te che vinci sempre, si organizzano per vincere anche loro. Non bastava più il cento per cento di impegno dell’anno precedente, ci voleva ancora di più e dovevamo dimostrare una grande forza interiore. Da parte mia era necessaria una grinta eccezionale per motivare un gruppo di lavoro che stava primeggiando da tanto tempo. Ogni anno cambiavamo due-tre giocatori di qualità, sostituiti da giocatori altrettanto bravi. Forse la gente non si rendeva conto di quanto fossero più importanti quelli che restavano, lo zoccolo duro: i Ferrara, i Peruzzi, i Tacchinardi, i Di Livio. Erano quelli ai quali chiedevo aiuto all’inizio di ogni anno: «Fate capire ai nuovi cosa significa giocare nella Juventus, una squadra dove contano i particolari e dove si devono vincere anche le amichevoli». Ricordo appunto Di Livio, uno che aveva vinto due o tre scudetti, la coppa dei campioni, la coppa intercontinentale, prendere per il braccio e scuotere i compagni nuovi che non riuscivano a seguire un esercizio proposto dal preparatore atletico: «Porca p…, qua non si ferma nessuno, datti da fare, muoviti». Questo era l’esempio forte, la motivazione importante che il gruppo riusciva a dare ai nuovi, anno dopo anno.
Quali sono stati i suoi maestri di gestione del gruppo?Sul piano psicologico senz’altro Fulvio Bernardini (1.1.1906 – 13.1.1984, calciatore e allenatore, ndr), grande personalità e uomo colto. A quei tempi era uno dei pochi laureati che giravano nel mondo del calcio. Imponeva la sua personalità senza annullare quella degli altri.
Come si fa a motivare insieme i grandi talenti e quelli che hanno meno talento?Il denominatore comune è sempre l’intelligenza. Quando si ha a disposizione un gruppo di persone intelligenti è tutto molto più facile. E qui si arriva diritti al tema della leadership della squadra. Questa non la decide l’allenatore, è un qualcosa che nasce quotidianamente nel rapporto di lavoro cob i giocatori. Non è detto che debba per forza diventare leader quello che ha più personalità, o quello che parla di più o il più autoritario. Ci sono dei leader silenziosi come Peruzzi che non parla molto, ma prima di prendere una decisione i ragazzi guardavano verso di lui e Angelo, magari solo con la mimica facciale, suggeriva la decisione. Anche Vialli era così. A me piaceva fare non una grande tavolata unica, ma tavoli da quattro/cinque persone, che ruotavano ogni settimana perché i ragazzi socializzassero tra di loro. A fine pranzo nessuno si alzava prima che tutti avessero finito di mangiare. Allora tutti guardavano Vialli e Gianluca, battendo le mani ritmicamente sul tavolo, dava il via libera. Stupidaggini, certo, ma sono pur sempre piccoli riti di gruppo che denotano la leadership!
Ma come si fa a trattenere un talento quando vuole andare via? Le motivazioni sono sempre e solo economiche?Bisogna vedere di che squadra fai parte. Il campione si sente veramente tale quando vince qualcosa. Se non vince, se non è determinante per il successo della sua squadra, è un campione che non diventerà mai un fuoriclasse. Il grande campione sa qual è la squadra dove si vince e se si rende conto che nella squadra dove lui è, seppure grande, non c’è comunità di intenti, coesione, complicità, voglia di fare gruppo, serietà di comportamento, vuole legittimamente andare via. La società come può convincerlo a rimanere? Non bastano 500 mila o un milione di euro in più, ma lo convince solo facendogli capire che cambieranno le cose, magari con un allenatore diverso.
Leadership, carisma, carattere e personalità. Nella prima fase dei mondiali di Germania il capo delegazione azzurro Giancarlo Abete affermò: «Marcello Lippi è dotato di anticorpi di personalità e serenità per superare certe situazioni comunque non augurabili»…La situazione in cui Abete ha detto quella frase nasceva dopo due anni di lavoro in cui io avevo cercato, insieme alle persone che lavoravano con me, di costruire un gruppo forte, nel quale tutti si sentissero importanti senza che ci fossero prime donne. La mia prima finalità non era vincere il mondiale, ma creare un gruppo che facesse ri-innamorare la gente della Nazionale. Dopo quasi due anni di sacrifici, raggiunto questo primo obiettivo, dissi ai ragazzi: «Adesso siamo una squadra vera, che crede in se stessa, nella quale tutti sono orientati verso lo stesso obiettivo». A quel punto, dopo un paio d’anni di sacrifici, non avevo la minima intenzione di farmi portare via il lavoro fatto. Con quelli che strumentalizzavano il nome di mio figlio, che da un anno e mezzo non faceva più parte della Gea, le illazioni sulle convocazioni e tutte le altre cose che sappiamo. Non avrei mai permesso che qualcuno mi facesse rinunciare al Mondiale dopo che avevo costruito una cosa così bella. Allora dissi a me stesso: «Mi faccio il mio Mondiale, incanalo tutte le mie forze per cercare di trasmettere serenità e tranquillità ai giocatori – perché non potevo permettermi di trasmettere loro tensione e nervosismo – e alla fine, qualunque sia il risultato, saluto tutti e vado a casa». La fortuna, ma anche e soprattutto la bravura del gruppo, ha fatto sì che vincessimo. Qualcuno poteva dire: «Andare a casa quando si vince è facile», e invece no, io avevo deciso prima che, comunque fosse andata, avrei lasciato.
Paolo Rossi le ha fatto un grande complimento, dicendo che l’ltalia del 1982 ha vinto il mondiale con i singoli, quella del 1996 con il gruppo.Da quando faccio l’allenatore ho sempre applicato le tecniche psicologiche necessarie per la gestione del gruppo, dal primo anno con il Pontedera in C2, poi con il Siena, la Pistoiese ecc. Bene, arrivato a 58 anni e a carriera tutt’altro che finita (perché ho voglia di continuare), vincere un Mondiale che tutti indistintamente hanno riconosciuto essere stato vinto da un gruppo, per me è una soddisfazione enorme. Rossi non poteva farmi un complimento più grande.
Nel suo lavoro la gestione dell’emergenza è pane quotidiano: cambiare la tattica durante la partita e prendere rapidamente decisioni. In campo si è soli, il tempo è poco, bisogna valutare una serie enorme di possibilità che spesso non sono oggettive… Si può avere fantasia e intuizione, ma se la squadra, il gruppo di lavoro non è preparato a queste situazioni non si può fare niente. Durante la settimana il tempo a disposizione deve servire a preparare una squadra a gestire tutte le possibili situazioni tecnico-tattiche. Ai mondiali abbiamo giocato due partite in inferiorità numerica: in queste situazioni un team deve avere una sua organizzazione, essere preparato a ogni tipo di emergenza, studiare a fondo tutte le possibili varianti. Certo I’intuizione dell’allenatore è fondamentale, ma senza questo lavoro alle spalle non sarebbe sufficiente.
In quei momenti bisogna essere caldi o freddi, emotivi o razionali?Non è una questione di emotività o razionalità. È una questione di consapevolezza: io so quello che posso chiedere alla mia squadra, altrimenti non glielo chiedo. Ad esempio nella semifinale con la Germania a un certo momento, nei supplementari, ho messo quattro attaccanti, una scelta chefa sempre un’impressione positiva, perché viene interpretata come sintomo di modernità. In realtà mi ero semplicemente reso conto che la partita, a causa della stanchezza, si era un po’ spezzata. Avevo capito che i tedeschi molto difficilmente avrebbero superato la nostra difesa, che era in stato di grazia. Allora decisi di giocarmi i quattro attaccanti, sicuro com’ero della tenuta dei difensori. E in più così mi preparavo agli eventuali calci di rigore.
Quanto è importante lo staff tecnico per un allenatore?Noi viviamo nell’era della specializzazione, mentre quando ho cominciato io era l’epoca dell’allenatore tuttologo. Man mano che sali di categoria bisogna offrire ai giocatori l’eccellenza in ogni settore: il miglior preparatore, il miglior allenatore dei portieri, il miglior fisioterapista, ilmiglior recuperatore di infortunati ecc., in maniera tale che i grandi giocatori siano messi in grado di esprimersi al massimo delle proprie possibilità, senza poter invocare alibi di alcun tipo.
Le aziende fanno analisi della concorrenza. Avviene lo stesso nel calcio? Quanto tempo dedicate a studiare gli avversari?La cosa principale, prima di guardare agli altri, è organizzare il proprio team, sia dal punto di vista tecnico e tattico sia da quello psicologico. La grande squadra non gioca mai in funzione delle caratteristiche dell’avversario. Ma allo stesso tempo è necessario conoscere tutto dell’avversario, perché l’allenatore deve illustrare in dettaglio ai propri giocatori le caratteristiche della squadra che andranno a incontrare. E questo richiede tempo.
Voi avete a che fare con ragazzi, alcuni dei quali sono ricchissimi già a venticinque anni. Come “educate” alla vita questi giovani, che dopo dieci anni saranno alla fine della carriera agonistica?Il discorso è complesso. Chi scopre di avere la possibilità di fare il calciatore professionista deve dedicarsi completamente a questa attività dai 18 ai 32/33 anni circa. Questi sono gli anni nei quali un uomo costruisce il suo futuro, mentre questi ragazzi fanno solo i calciatori. Allora bisogna fargli capire che l’opportunità che hanno è eccezionale, ma allo stesso tempo essere comprensivi perché a vent’anni si può anche sbagliare, anzi bisogna sbagliare. Se non si fanno cavolate a quell’età poi non c’è più tempo per farle nella vita! Per quanto riguarda il denaro, bisogna partire dal presupposto che uno può essere maturo a vent’anni e un altro può non esserlo a cinquanta. Non è una questione di età. Anzi, spesso questi ragazzi sono più maturi dei loro coetanei. Nel calderone ci sono anche le teste di rapa, ma è la stessa percentuale che esiste in tutti gli ambienti. È chiaro che l’allenatore è importante per la loro maturazione, ma nei confronti di questi ragazzi non mi pongo mai come padre di famiglia o fratello maggiore. Loro hanno voglia di una guida forte, sicura. Non è importante se sia simpatica o antipatica.
I calciatori le danno del lei o del tu?No no, quale tu, mi danno tutti del lei. Solo quei pochi -in passato – con i quali avevo più confidenza, o con i quali magari avevo giocato insieme, mi hanno dato del tu. Ad esempio Vialli era talmente intelligente che in privato mi dava del tu e in pubblico del lei.
Quanto tempo una squadra di calcio – allenatore, staff tecnico, dirigenza – deve dedicare alla ricerca dei nuovi talenti o a far crescere quelli che si hanno in casa?Per un certo periodo si era abbandonata l’attenzione al settore giovanile semplicemente per un motivo, perché era meno costoso andare a cercare i talenti in giro per il mondo, in Africa, in Sud America, nei Paesi dell’Est, piuttosto che costruirseli in casa. Poi sono cambiate alcune leggi e ora c’è un ritorno alla valorizzazione dei settori giovanili, quanto meno in ambito regionale o interregionale. Non è il caso di andare a prendere un ragazzino di dodici-tredici anni dal Sud e portarlo al Nord; sono cose troppo forti nei confronti sia del ragazzo sia della famiglia. Oggi per fortuna tutte le squadre più importanti stanno lavorando seriamente sul settore giovanile; in alcuni casi i “vivai” sono autonomi rispetto alla società madre, proprio per favorire un maggiore ritorno economico dell’investimento.
Un personaggio come lei è abituato a vivere con l’adrenalina sempre in circolo. Che cosa si prova nelle ore e nei minuti che precedono un grande incontro?È una questione soggettiva. A me ad esempio piace molto scherzare prima degli eventi. Più la partita è importante più sdrammatizzo. Il giorno prima di un grande match mi piace far capire ai ragazzi che la cosa più importante, cioè la preparazione atletica e tecnica, l’abbiamo già fatta. Se hai lavorato bene in allenamento, preparato con sicurezza gli schemi tattici, quella è la maggiore garanzia di serenità. La cosa più importante è dare ai giocatori la sensazione che hai fatto tutto quello che era necessario, per non avere rimorsi dopo. D’altra parte a vivere una finale di Champions League, o della Coppa Intercontinentale o del Campionato del Mondo un allenatore ci arriva in età matura, non certo a 35 anni, appena smesso di fare il calciatore. Comunque conta sempre molto il carattere individuale.
Le tensioni però sono anche con la proprietà, con i tifosi, con la stampa. Come si affrontano?Essendo se stessi. Io le sto raccontando le mie esperienze, e dico come mi comporto io. Non esistono regole valide per tutti. Nella vita bisogna proporsi per quello che si è, con i propri pregi e i propri difetti. Io ho sempre avuto, ad esempio, un rapporto particolare, diciamo un po’ forte con la stampa. Regolarmente mi sono arrabbiato, anche nella imminenza di eventi importanti, come ben sanno tutti i giornalisti sportivi. Ma poi per me il giorno dopo era tutto finito.
Nella sua carriera, come in quella di tanti manager, ci sono stati alti e bassi, grandi vittorie ed esoneri. Come si gestisce uno stress emotivo di questo genere?Dipende in quale momento si è della propria vita professionale. Io sono stato esonerato al secondo anno di carriera, nel Siena, credevo che mi fosse crollato il mondo addosso. Non avevo nessuna sicurezza economica, ero impaurito. L’anno dopo ho ricominciato, poi ho avuto un altro esonero in serie A, all’Inter. A un certo punto cominci a guardarti intorno e capisci che fa parte del gioco, che non c’è nessun allenatore che non sia stato esonerato. Come nell’arco di una carriera non esiste un allenatore che vince sempre e uno che perde sempre.
Terminiamo questa intervista con il concetto dal quale abbiamo iniziato, la “fame”. Lei ha vinto tutto quello che un professionista dello sport può sognare di vincere. Ha ancora fame? E se sì, dove la porterà questa fame?Mi porterà innanzi tutto a fare quello che volevo già fare due anni fa, quando lasciai la Juve, prima che mi arrivasse la proposta della Nazionale, cioè staccare la spina per qualche mese.
E poi?Poi riprendo col calcio.
Esclude attività fuori dal calcio, magari come imprenditore?Beh, imprenditore, mini-imprenditore lo sono già, come socio del Twiga con Flavio Briatore, Paolo Brosio e Daniela Santanché. Ma non sono un imprenditore della mondanità; sono un uomo di calcio e il mio contributo a questa attività è far bene il mio mestiere.
Allora il calcio. Dove?Dove ci sarà una proposta seria, bella, che mi farà prendere in considerazione tante cose, compresa la qualità della vita e magari la presenza di qualche amico. Comunque una sfida. Che non vuol dire necessariamente vincere un altro scudetto, almeno al primo colpo. Sono altri i parametri, anche se al momento non li so quantificare. Magari potrei non fare l’allenatore ma il manager. Oppure potrebbe arrivare la proposta di una squadra importante straniera e andrei a fare lì gli ultimi tre o quattro anni di carriera.
Magari Rio de Janeiro, da allenatore del Brasile…[una bella risata piena; poi si fa riflessivo] Non lo so, tutto andrebbe valutato per bene, non si può rispondere così in un attimo, bisognerebbe ragionarci su…[chissà se il prossimo carnevale di Marcello Lippi sarà quello di Viareggio, o un altro a qualche migliaio di chilometri più a Sud-Ovest…]
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