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Quel che resta di Blair

Matteo Renzi ha apertamente dichiarato di ispirarsi alla politica del New Labour dell’ex inquilino di Downing Street. Ma in cosa si sostanzia tale eredità? E quali sono i punti d’incontro dei loro percorsi?

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Anche i suoi nemici gli riconoscono un talento fuori dal comune: la grande, grandissima capacità comunicativa. Nessun altro politico delle ultime generazioni, almeno in Europa, può vantare lo stesso, innato, carisma mediatico. E la stessa capacità di dividere, soprattutto a sinistra.

Giornali e televisioni se ne sono innamorati fin dai suoi esordi, prima ancora che conquistasse la guida del partito e poi il governo. Per la sua fotogenia, per il look fresco, per i blue jeans e il giubbotto sportivo, per la bella e giovane famiglia, forse addirittura per le idee innovative e la voglia di modernizzare il Paese.

UN’EREDITA’ TRA LUCI E OMBRE

Due economisti a confronto

Oratore apprezzato che si fa capire dalla gente, uno capace finalmente di rimettere le cose a posto, secondo i fan. Uno che parla bene, ma non dice niente, secondo gli oppositori. No, non stiamo parlando di Matteo Renzi, ma di Tony Blair, l’uomo che negli anni ‘90 ha cambiato faccia al partito inglese e, forse, anche alla sinistra europea. E poi ha guidato la Gran Bretagna in un lungo periodo di benessere economico.

Bisogna ammettere che qualche somiglianza tra i due c’è. D’altronde è stato lo stesso Renzi a definirsi erede della sinistra americana e blairiana. E per ritrovare altri punti di contatto basta ricordare come Blair assunse la guida del partito laburista, esattamente vent’anni fa, nel luglio del 1994. O meglio, cosa fece subito dopo.

Alla morte improvvisa e a soli 55 anni del leader del partito, John Smith, Blair fu il più lesto e abile a occupare il vuoto di potere. E appena eletto, cambiò nome al partito. Non più Labour, ma New Labour. Una piccola modifica, all’apparenza, ma una chiara dichiarazione d’intenti: svecchiare un partito che, come scrive nell’autobiografia Un viaggio, «s’era distaccato dalla gente normale. Eravamo più un culto che un partito. La gente normale il sabato sera usciva, beveva un paio di drink e aveva voglia di fare festa. I giovani del Labour, invece, si sedevano a parlare delle ingiustizie del governo Thatcher e dell’inevitabile declino del capitalismo».

Poi si scelse una squadra giovane come lui (Blair allora aveva 41 anni, due più di Renzi oggi) e al passo con i tempi. Come consigliere politico prese Peter Mandelson, che fino al giorno prima era stato il consigliere del principale rivale alla guida del partito, Gordon Brown. E come portavoce e press secretary, non un intellettuale in giacca di tweed e toppe sui gomiti, ma Alastair Campbell, brillante giornalista politico del Daily Mirror: un tabloid popolare, dichiaratamente di sinistra certo, ma pur sempre con la foto di copertina a tutta pagina e il titolo a caratteri cubitali, spesso sulla famiglia reale. Insomma, uno scandalo per una certa sinistra nostalgica e massimalista, quasi come andare da Maria De Filippi in campagna elettorale.

In quegli anni Blair riuscì a conquistarsi addirittura l’ammirazione di Margaret Thatcher, che di lui disse: «È il leader laburista probabilmente più formidabile dai tempi di Hugh Gaitskell», che era morto nel 1963. E il sostegno di Rupert Murdoch, che con i suoi media era in grado di spostare molti voti nel Regno Unito. Due nemici giurati della sinistra inglese, due abbracci che molti giudicarono mortali, ma che testimoniavano di una nuova visione politica che voleva coniugare libero mercato e giustizia sociale e che nel 1997 lo avrebbe portato al trionfo alle elezioni con il oltre il 40% dei voti. Blair diventava il più giovane primo ministro britannico dai tempi di Robert Jenkinson, conte di Liverpool, nel 1812.

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I parallelismi con il primo ministro italiano finiscono qui, perché Renzi è in carica da 100 giorni, Blair invece ha governato per dieci anni. Bisognerà aspettare per vedere se dopo lo sprint iniziale saprà mantenere il passo. E se riuscirà a raggiungere gli stessi risultati archiviati dall’ex premier inglese.

In primo luogo, quelli in ambito economico. Già perché comunque la si pensi, durante il governo Blair il Regno Unito ha conosciuto il più lungo e ininterrotto periodo di crescita degli ultimi due secoli della sua storia. Bassa disoccupazione (anche sotto il 5%, mai sopra il 6%) e inflazione sotto controllo, grazie alla decisione di affidare alla Bank of England il potere di stabilire i tassi d’interesse e al Tesoro quello di fissare il target d’inflazione. Non solo: Blair è anche riuscito in una cosa decisamente di sinistra, ridistribuire la ricchezza.

BLAIRIANI Sì, MA CON

VENTI ANNI DI RITARDO

Intervista a Fabrizio Rondolino

Quando il 27 giugno del 2007 rassegnò le sue dimissioni, aveva ridotto o eliminato molte scappatoie fiscali e i ricchi pagavano più tasse di dieci anni prima, mentre i poveri ricevevano più risorse grazie a riduzioni di imposta alle famiglie e ai pensionati, ai sussidi ai bassi redditi da lavoro, al salario minimo nazionale e così via. Oggi la situazione è decisamente meno rosea.

Anche l’Inghilterra ha sofferto e soffre la crisi finanziaria. Gli stipendi sono rimasti più alti e le carriere più rapide rispetto al resto d’Europa, ma trovare lavoro è diventato molto più difficile e ci sono ancora molte famiglie povere e zone degradate. Per questo hanno buon gioco gli anti-blairiani. Tanto da spingersi a dire che, in fondo, quella formidabile crescita dipese esclusivamente da una congiuntura economica globale molto favorevole, dalla crescente immigrazione e da una spesa pubblica molto, troppo generosa.

Tra le voci più critiche, naturalmente ci sono quelle dei conservatori. Su tutti, Lord Norman Tebbit, fedelissimo della Thatcher e importante membro del suo gabinetto, secondo il quale dietro di sé Blair non ha lasciato altro che «debito, guerra, ignoranza, assistenzialismo, divisioni sociali». Le critiche esagerate di un oppositore politico, si dirà.

Però, anche un giornalista serio e apprezzato come Charles Moore, che è stato direttore dello Spectator, del Sunday Telegraph e del Daily Telegraph, non è tenero nei confronti dell’ex premier britannico e dei laburisti al governo: «Tony Blair e Gordon Brown capirono che il mercato ha importanza, che gli investimenti esteri devono essere accettati, che le persone devono essere messe in condizione di arricchirsi. Lande del tutto nuove per un partito socialista. Ma ignorarono l’eterna vigilanza della Thatcher, la sua avversione per la spesa pubblica, la sua ossessione con la disciplina personale, la sua convinzione che non ci si può esimere, in ultima istanza, dal pagare i propri debiti».

Un concetto che in Europa stanno già rinfacciando a Renzi, che invece vorrebbe allargare un po’ i cordoni della borsa. Che sia davvero sulla strada giusta per raccogliere l’eredità di Tony Blair?

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