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Comunicazione d’impresa: care aziende, ditelo bene…

In un contesto economico e sociale sempre più complesso e frammentato, la comunicazione d’impresa assume un ruolo sempre più strategico. Ne abbiamo parlato con cinque esperti: Adriano Lubrano, Annamaria Anelli, David Bevilacqua, Maria Cristina Bombelli, Andrea Notarnicola

architecture-alternativo Credits: © iStockPhoto

Fare comunicazione d’impresa, in tempi dove le relazioni sono ostili e i messaggi si sono inariditi – tanto nelle vite private che professionali – è diventato ancora più complesso; le società, dal canto loro, sono immerse in una delle ennesime crisi di identità e di ruolo. Da cui ognuna deve saper uscire trovando la propria strada. Come? Lo abbiamo chiesto a cinque esperti.

Una leva di marketing fondamentale

Adriano Lubrano è a stretto contatto col mondo universitario sia come docente che come mentor, il suo ultimo libro è Comunicazione d’impresa (Youcanprint, 2023). «La comunicazione d’impresa è una leva di marketing fondamentale per promuovere, stabilire e mantenere relazioni tra un’organizzazione e i suoi portatori d’interesse, i suoi pubblici. In quanto parte del marketing mix, deve essere gestita coerentemente con l’assetto della combinazione prodotto-mercato dell’impresa: solo così diventa un potente vettore di credibilità e di reputazione, oltreché di persuasione positiva».

Adriano-Lubrano

Adriano Lubrano

Eppure, le resistenze non mancano, dal mercato e dalle aziende stesse, e i fattori di disturbo si complicano sempre di più. «Dipende da un lato dalla complessità dell’ambiente-mercato, influenzato da nuove visioni del mondo e della responsabilità dell’impresa, oltre alle alte aspettative di trasparenza da parte dei pubblici: tutto questo ha trovato impreparate le aziende, che si sono limitate a una sorta di imbellettamento della comunicazione, senza intervenire sui fondamentali dell’offerta. Un esempio? Il greenwashing, la volontà di indurre i propri potenziali clienti a credere che si sia impegnati verso l’ambiente molto più di quanto si sia in realtà. O la stantia reiterazione di vision e mission stereotipate e del tutto vuote di significato. Dall’altro lato, il nuovo paradigma digitale le ha impoverite e private di un occhio strategico, lasciandole ancorate a una gestione meramente tattica della comunicazione, episodica, tarata sul “qui e ora”».

Anche parlare con i consumatori è un’attività che andrebbe ripensata: la comunicazione di vendita o si interroga e si ripensa, o sarà sempre più difficile ottenere risultati. «Qui entriamo nella comunicazione operativa, che ha il fine di incidere sugli atteggiamenti dei consumatori, orientandoli verso l’accettazione e la preferenza nei confronti di un marchio e della sua offerta. Occorre far leva sui fondamentali di prodotto/servizio e sulla trasparenza, intesa come condivisione di reali vantaggi per gli acquirenti che, altrimenti, tendono a percepire i messaggi a loro rivolti come artefatti e poco veritieri. Per quanto riguarda le imprese, dovrebbero orientare la comunicazione di vendita sulla reputazione e sulla sincera attestazione di una volontà di migliorare la vita dei consumatori».

Il peso delle parole nella Comunicazione d’impresa

Non si può parlare di comunicazione senza partire dalle parole, e vale anche per la comunicazione nel mondo delle imprese. Parole scritte con cura sono un bene sempre più raro, anche e soprattutto davanti al rapidissimo ingresso delle intelligenze artificiali e generative che sono capaci di garantire buone risposte di primo livello ma non oltre, per lo meno al momento. Annamaria Anelli è docente e business writer; oltre ai podcast recenti di cui è autrice per Storytel, merita di essere letto il suo Caro cliente. Chat, email e messaggi automatici fuori e dentro l’azienda (Zanichelli, 2018).

Sul crinale appena nato e da cui osserviamo la A.I. e i suoi strumenti, pronti a spartire un prima e un dopo epocale nella stesura di testi e contenuti, anche le imprese devono rendersi conto di quanto sia imprescindibile non delegare tutto alle “macchine” quando devono comunicare. «Le intelligenze artificiali generative testuali sono una meravigliosa opportunità per le aziende: come uno stagista disponibile e volenteroso dell’ufficio marketing o comunicazione, sono in grado di produrre output discreti. Prendereste per buoni, così come sono, i risultati prodotti da uno stagista? Non si tratta di scrivere, si tratta di scegliere le parole, pesarle, curarle: è proprio un’altra cosa.

Annamaria Anelli

Annamaria Anelli

Serve quella meta-competenza di scrittura che solo l’occhio, il mestiere, la sensibilità di chi scrive da tanto possono mettere in campo. Comunicare non è produrre parole, è prendersi cura di chi legge o ascolta. Una persona può farlo, l’A.I., per ora almeno, no». Ma le imprese – lo sappiamo bene da fuori mentre le osserviamo e, se oneste, lo sanno bene anche loro da dentro – cadono spesso in “dimenticanze” – leggerezze, errori, banalità – ogni volta che standardizzano i propri canoni comunicativi e non personalizzano i propri messaggi.

«Prima bisognava avere un sito, poi bisognava essere su Facebook, quindi era d’obbligo stare su Instagram e su TikTok, adesso tocca usare l’A.I.. A seguire col paraocchi i trend si perde sempre. In freschezza, in spessore, in riconoscibilità. Perché non è lo strumento, ma il contenuto che conta. E se i messaggi sono tutti uguali, i copia e incolla sfrontati, i presappochismi imperanti, cosa importa dove li scriviamo? Comunicare davvero, oggi, per me, è “sporgersi”, cioè prendere posizione sui temi sociali importanti, pretendere sempre e comunque contenuti di qualità, ammettere gli sbagli quando li si compie. Un’azienda che fa questo con onestà, racconta tantissimo di sé. Dice tutto ciò che c’è da capire».

In primis coerenza

Quanto sia sdrucciolevole il terreno del seguire i trend le imprese lo sanno bene; che poi ne facciano tesoro, è un’altra cosa. Leggendo il suo ultimo libro Ibridomania (GueriniNext, 2022), mi è venuto da pensare che David Bevilacqua avesse toccato il tasto dolente di molte aziende e molti stili manageriali: pensare che occorra stare sempre sulla cresta delle tendenze e delle mode comunicative, senza rendersi conto che una comunicazione non coerente con la propria natura è solo controproducente. La mania dell’ibrido pesa oggi più che mai sulla vita e sulla comunicazione interna di molte realtà.

«Più che “pesa”, direi “offusca”. Un piccolo segnale di ibridomania è il proliferare di strumenti di comunicazione che abbiamo visto in questi ultimi anni, e che hanno lo scopo dichiarato di rendere più facile la collaborazione fra le persone in contesti diversi rispetto a prima. Gli stessi team si ritrovano oggi a far circolare le informazioni su un pulviscolo di piattaforme: email, ma anche Whatsapp, e poi Teams, Slack, Trello, Drive. Da una parte, la dispersione delle informazioni su troppi canali diversi, che per giunta non hanno una gerarchia condivisa, rende più complesso capire cosa è importante, cosa urgente, cosa trascurabile. Dall’altra, si rende più difficile la relazione fra le persone, specie nelle organizzazioni complesse: se ho a disposizione una miriade di piattaforme, perché mai dovrei prendermi la briga di discutere con un collega al telefono o, addirittura, di persona? Il modello ibrido ci sta indirizzando verso l’isolamento, a una comunicazione fra team più frequente, ma meno profonda. Ogni volta che posso, io preferisco usare la voce e la comunicazione sincrona».

David Bevilacqua

David Bevilacqua

Da ex vicepresidente di Cisco Europa e Ceo di Cisco Italia ad Ammagamma, passando quindi dai vertici ingessati delle multinazionali all’immediatezza di una società giovane che spezza i vecchi argini dei linguaggi. Come mediare tra esperienza manageriale e generazioni più acerbe? «La comunicazione d’impresa intercetta e raccoglie per definizione sensibilità diverse, rielaborandole poi, o quanto meno cercando di farlo, in un codice coerente. Le esperienze precedenti mi hanno certamente spinto a incoraggiare adesso una cultura della comunicazione molto concentrata sui fondamentali, sulla coerenza del tono e dei contenuti, su un orizzonte temporale lungo. Qui, d’altro canto, negli anni si era già sviluppato un codice – anche grafico e visivo – particolarmente efficace, visionario, qualche volta sfrontato. Le due diverse sensibilità si sono fuse in un unico approccio, costante in tutta l’organizzazione. E non credo che ciò sia frutto di dialettica fra esperienze manageriali più o meno mature: fra sensibilità diverse, piuttosto, che abbiamo accordato fino a farle dialogare per esprimersi allo stesso ritmo».

Ibrido piace come parola. suona bene in bocca alle imprese, ma non sappiamo dove ci può portare questa identità sfumata del lavoro e delle organizzazioni. «Viviamo una patologica bulimia da buzzword in un totale vuoto semantico. Le diffondiamo senza fermarci a interrogarci sul significato e i possibili impatti. La comunicazione inizia con le parole, le parole possono ispirarci e guidarci verso nuovi orizzonti e, se parliamo di futuro del lavoro, dobbiamo scegliere parole che ispirino verso qualcosa di positivo. Ibrido non ispira, non emoziona, anzi fa preoccupare».

Una questione di educazione interiore

Da dentro a fuori, quando comunica, un’impresa non dovrebbe mai peccare di incoerenza. E riflettere sulle sue dimensioni di mercato non è aspetto banale. «Le aziende, e capita paradossalmente più spesso nelle multinazionali, non fanno progetti sulle diverse culture e su come possano comunicare tra loro, forse perché pensano che, lavorando insieme, le conoscenze e i linguaggi si attivino da soli». Maria Cristina Bombelli, oltre che fondatrice e presidente di Wise Growth, ha insegnato a lungo all’Università Bicocca e nella Scuola di direzione aziendale della Bocconi: studia da sempre i comportamenti organizzativi.

Maria Cristina Bombelli

Maria Cristina Bombelli

Il suo ultimo libro è La cultura del rispetto (GueriniNext, 2021), coautore anche Emanuele Serrelli. «Si pensa solo che la comunicazione delle aziende riguardi il fuori e invece è dentro che manca una sensibilità, un’educazione. Come ad esempio l’interpretazione della distanza prossemica tra colleghi che vengono da Paesi e culture diverse: se non sai decodificarli, rischi di fraintendere. Manca un’alfabetizzazione alle diverse culture che convivono. Le multinazionali americane puntano sul business e su questi temi non fanno quasi niente, non lo dico da antiamericana, ma riferisco semplicemente quello che accade nel quotidiano. Ci sono studi interessanti anche sui confini linguistici e la maggior parte dei manager delle multinazionali in tutto il mondo sono di madrelingua inglese, con la strisciante esclusione di chi avrebbe ottime competenze ma non risponde a quei canoni settari di pronuncia o appartenenza. Anche per questo gli italiani, in media scarsamente preparati sulla lingua, vengono penalizzati».

Nella comunicazione d’impresa attenti all’unicità

Per comunicare inclusione serve adottare un approccio di design universale. Le parole sono di Andrea Notarnicola, Corporate Consultant per Newton. «Non basta usare immagini positive di persone di diversa estrazione e un linguaggio inclusivo nel marketing dei prodotti per esprimere una capacità di valorizzare le differenze. Si tratta di disegnare tutta l’esperienza della clientela e del personale secondo un approccio attento all’unicità delle persone. “Da vicino nessuna persona è normale”, disse Franco Basaglia. E il design lo sa, o dovrebbe saperlo. Le persone sono alte o basse, bambine, adulte o anziane, hanno abilità diverse, fisiche, sensoriali e cognitive, sono attente o distratte. Il Design for All è l’approccio sociale che proclama il diritto umano di tutte le persone all’inclusione e l’approccio organizzativo più utile per conseguirla».

Andrea Notarnicola

Andrea Notarnicola

La comunicazione ha sfaccettature infinite, soprattutto nei tempi che viviamo. «Progettare Design for All, in italiano progettare in modo universale, significa concepire ambienti, sistemi, prodotti e servizi fruibili in modo autonomo da parte di persone con esigenze e abilità diversificate, coinvolgendo tutta questa diversità umana nei progetti stessi di creazione di queste offerte. A partire dal 28 giugno 2025 le aziende dovranno garantire che i prodotti e i servizi di nuova commercializzazione indicati dall’European Accessibility Act siano accessibili». Come concepire sistemi e prodotti materiali e immateriali adatti a tutti? «Comunicare l’inclusione significa coinvolgere tutti i portatori di interessi, sensibilizzando anche i fornitori per identificare una varietà di potenziali partner, aprirsi anche verso persone o gruppi demograficamente sotto-rappresentati».


Questo articolo è tratto dallo speciale Comunicare è un’impresa, inserto di Business People di settembre. Scarica il numero o abbonati qui