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Andrea Boragno (Alcantara): “La qualità (da sola) non basta”

Ormai la bontà di un prodotto è un imprescindibile dato di partenza. Per essere competitivi servono un posizionamento e una cultura del brand in grado di valorizzare l’appeal del made in Italy. E’ l’esperienza di Andrea Boragno, n.1 dell’azienda che è ripartita di slancio dopo aver superato una profonda impasse

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Ci sono aziende che nascono per realizzare prodotti, e poi ci sono prodotti (rari a dire il vero) che hanno una portata innovativa tale da dare vita a delle aziende. È questo il caso di Alcantara, che nasce nel 1972 grazie a una joint venture tra i giapponesi del colosso chimicofarmaceutico Toray Industries e gli italiani di Eni, per dare seguito all’invenzione depositata due anni prima da Miyoshi Okamoto, l’Alcantara appunto, un innovativo materiale da rivestimento, frutto di una sofisticatissima ricerca, che d’allora cominciò a essere prodotto su scala mondiale esclusivamente in Italia. E pur se nel frattempo il controllo dell’intera società è diventato nipponico, l’azienda ha continuato a rimanere saldamente italiana, con un headquarter a Milano e il sito di Nera Montoro (Terni), dove sono ubicati l’impianto produttivo e il Centro ricerche. Come dire, ci troviamo di fronte a un prodotto unico al mondo, che non ha tuttavia preservato l’azienda dai momenti di sbandamento e crisi, dai quali è uscita incrementando anno su anno il suo fatturato. In che modo? Ce lo siamo fatti raccontare dal suo presidente nonché amministratore delegato Andrea Boragno, al quale l’azienda è stata affidata dal 2004 dopo una permanenza di cinque anni al vertice della Toray Ultrasuede di New York. Comincio col dire che la cosa che più mi incuriosisce è che voi realizzate un prodotto che non può essere definito un tessuto ma neanche una pelle, è di origine sintetica – poliestere e poliuretano – ma traspira, come il cotone e il lino si può lavare e stirare.

Come lo definite confidenzialmente?
Semplicemente Alcantara, respingiamo ogni altra definizione precostituita perché nei fatti non è un tessuto; non ha né trama né ordito, non è una microfibra anche se c’è una fase del processo produttivo, che equivale grosso modo al 5% dell’insieme, in cui c’è un passaggio di un particolare tipo di microfilatura, tant’è che paragonarci a questo tipo di rivestimento sarebbe come confrontare un diamante con la grafite: entrambi sono composti di carbonio, ma non sono proprio la stessa cosa. Men che meno è una simil-pelle, visto che è un’alternativa alla pelle non un’imitazione. Il nostro è un materiale frutto di una tecnologia unica e proprietaria che ha registrato tutta una serie di evoluzioni nel tempo. Giulio Cappellini, il direttore del nostro centro ricerca e sviluppo, ci corregge sempre perché – secondo lui – bisognerebbe piuttosto definirlo una materia a sé stante, data la sua particolarissima versatilità, figlia di un know how tecnologico interno che gli consente di assumere le formulazioni più disparate.

Perché chiamare una materia simile Alcantara?
Non c’entra nulla con l’omonimo fiume della Sicilia orientale, vero? Non c’entra nulla né col fiume siciliano, né con l’omonima cittadina spagnola in Extremadura… Il nome ha una radice araba e vuol dire ponte.

Cos’hanno a che fare gli arabi con un’azienda ad azionariato giapponese e che ha manufacturing e management italiani?
Gli arabi certamente nulla, ma c’entra la definizione perché è evocativa e immaginifica, come il nostro materiale, e si sposa molto bene con il pay-off “can you imagine” della nostra comunicazione adv e on line. Detto questo, quello del nome è un merito che non posso attribuirmi visto che sono arrivato molti anni dopo che l’azienda era nata e il prodotto lanciato.

Prodotto che nel tempo ha sviluppato numerose applicazioni, dal settore della moda e degli accessori a quello dell’interior design, passando per il consumer electronics, senza dimenticare l’automotive di alta gamma, nonché il settore nautico e quello degli aerei. E l’elenco potrebbe allungarsi: ho letto che si sperimenta anche sul fronte della gioielleria.
Certamente. Non a caso quando mi è stato fatto notare, in passato, che in fondo Alcantara era un’invenzione matura con oltre 40 anni di età, ho spiegato nei fatti come si tratti piuttosto di un materiale estremamente nobile del quale sono state ancora esplorate solo una parte delle potenzialità. Prima di tutto perché stiamo parlando di una materia specialissima, e in secondo luogo, se volessimo rapportarci all’età di un materiale come la pelle, noi saremmo addirittura ai primissimi vagiti.

I conti alla fine vi hanno dato ragione.
Oggi ci troviamo ad aver archiviato il 2014 con un fatturato pari a 124 milioni di euro, in crescita del 12%, con un Ebitda percentualmente superiore a quello del gruppo Armani, e una stima per il 2015 pari a un giro d’affari di 130 milioni con un’ulteriore crescita del 6%. Pur se la prassi vuole che negli ultimi anni le previsioni siano state ogni volta superate: i primi mesi dell’anno vanno chiaramente in questa direzione.

È singolare che sia l’automotive la fonte principale e in crescita dei vostri ricavi, malgrado la crisi del settore.
Questo perché siamo riusciti a diventare una scelta obbligata per tutti i marchi di alta gamma del settore a livello globale. Ma sono convinto che sia altrettanto importante, oltre che proficua, la nostra presenza nell’interior design, così come nell’hi tech, che costituisce un fronte che va in sovrapposizione col fashion. Di fatto molti oggetti di culto sono tecnologici, e – grazie alla sensorialità e alla capacità di rendere il bello del nostro materiale – siamo nella posizione migliore per poter offrire soluzioni uniche ed esclusive a tutta una serie di player del lusso.

Come sposare, industrialmente parlando, gli input che vi arrivano da un settore come l’auto che ha delle specifiche esigenze di design e comfort a quelle della moda, che ha altre necessità? Per intenderci, immagino abbiate il vostro bel da fare nello studiare le applicazioni del vostro materiale negli interni di una Maserati piuttosto che una Ferrari, una Bmw o un’Audi, rispetto alle aspettative di vestibilità e originalità richieste da griffe come Max Mara piuttosto che Hanae Mori?
Capisco che possa risultare complicato per un occhio esterno, ma queste partnership si sviluppano attraverso un articolato processo interattivo tra il nostro centro ricerca e i clienti. I nostri concept book, che vengono realizzati due volte l’anno a seconda dei settori di applicazione, assurgono a vere e proprie collezioni in considerazione della loro complessità. Pensi che solo nel 2013 abbiamo sviluppato oltre 300 personalizzazioni stilistiche, per una crescita complessiva in termini di attività di circa il 45%, di cui due relative a collezioni nel settore fashion e 102 nel settore auto, oltre ad aver avviato lo sviluppo di altre due, una nell’interior e l’altra nell’aviation. Tutti i settori in cui operiamo non costituiscono dei compartimenti stagni, c’è un perenne interscambio tra loro in termini di sperimentazione e innovazione, per cui quanto impariamo nella moda torna utile in altri ambiti e viceversa. Il tutto mentre sullo sfondo abbiamo un materiale che ci consente sviluppi creativi impensabili per qualunque altro. .

Stiamo tratteggiando una storia di successo, ma non è stato sempre così. Quando lei nel 2004 è stato nominato amministratore delegato, l’azienda navigava in cattive acque.
È vero, tra il 2001 e il 2004 il fatturato perdeva una media del 15-20% annuo, con un rosso nell’ultimo anno pari a 6,6 milioni di euro. Nei fatti la società soffriva di gravissimi problemi qualitativi ed era stata classificata “Dog”, anzi “Yellow Dog”, dal Corporate Strategy Department di Toray Group. Per intenderci, Alcantara era data per spacciata.

Non ha fiutato la fregatura quando gliel’hanno affidata?
No, perché ero convinto che il problema fosse interno all’azienda e non esterno.

La vostra era una condizione in cui, chi più chi meno, si trovano attualmente molte aziende italiane. Voi come ce l’avete fatta?
Siamo partiti dalla pubblicità, molto rivelatrice: allora la nostra immagine era rappresentata da un brutto divano su cui stava seduto un elefante, un messaggio complessivo con cui si voleva far passare il concetto relativo alla robustezza del materiale. Una comunicazione sostanzialmente sbagliata e cheap. Bisognava cambiare perché la qualità da sola non è sufficiente a posizionarsi nella fascia alta del mercato in cui volevamo collocarci noi, che pretende soluzioni esclusive, tecnicamente ineccepibili, ma anche design e sensorialità.

In che direzione vi siete mossi?
Dovendo ripensare l’azienda e il mercato di riferimento nonché le modalità competitive, si è reso di primaria importanza un veloce riposizionamento del brand e quindi la definizione dei suoi valori. Non bisognava più puntare sul mass market, ma muoversi velocemente verso un’evoluzione della qualità abbinata alla funzionalità e all’emozione che è in grado di provocare il bello. In più ci siamo organizzati per essere in grado di offrire ai nostri partner una customizzazione estrema, dando vita al nostro interno a un Centro R&D con relativo Centro sviluppo applicazioni. Mentre sui mercati globali abbiamo cominciato a giocarci con maggiore convinzione la carta del made in Italy. Infine, abbiamo accolto la richiesta crescente di sostenibilità proveniente dal mercato, e dal 2009 abbiamo messo in atto un forte commitment in questa direzione. Con un prodotto come Alcantara non potevamo permetterci di essere competitivi sul prezzo, ma operando in una nicchia bisognava comportarci come tali. Il che è l’impostazione che contraddistingue ampia parte delle eccellenze del made in Italy d’alta gamma.

Come siete riusciti a far passare il messaggio all’esterno?
Innanzitutto instaurando uno stretto rapporto di collaborazione con il mondo dei designer attivi in ogni ambito, dalla moda all’arredamento. Organizzando eventi insieme ai nostri partner d’elezione anche dell’automotive, con Maserati per esempio siamo andati in Cina e in California. Il tutto per procedere alla messa a punto della globalizzazione del brand. Alcantara è diventata da tre anni partner del Museo Maxxi di Roma organizzando mostre di decine di designer, tra star internazionali e talenti emergenti, che hanno indagato i più disparati processi creativi e produttivi del nostro materiale. Abbiamo organizzato eventi a Los Angeles come a Tokyo, alla Settimana della moda di Milano come alla Biennale of Visual Arts di Shanghai. Solo nel mese di aprile siamo presenti a Washington, Shanghai, oltre che al Salone del Mobile e a Palazzo Reale a Milano. Abbiamo di fatto trasformato Alcantara in un materiale attraverso il quale l’artista può esprimere la sua creatività. Così come abbiamo fatto di Alcantara un materiale in grado di coniugare artigianato e hi tech. In virtù della credibilità che ci siamo guadagnati sul mercato, lo scorso ottobre abbiamo organizzato a Venezia un simposio internazionale sulla sostenibilità della produzione automobilistica a cui hanno partecipato i rappresentanti delle maggiori industrie mondiali, da Audi a General Motors, da Psa a Basf e Recaro.

A proposito di sostenibilità, lei ha dichiarato che investire in questa direzione è coerente con gli obiettivi economico-finanziari di lungo termine di qualunque azienda. Perché allora tante aziende ancora non si dimostrano altrettanto convinte e continuano a non responsabilizzarsi a sufficienza?
Il problema sostanziale è che la sostenibilità viene ancora considerata un costo, mentre si tratta piuttosto di un valore in costante crescita. Certo, ci sono settori che hanno un potenziale di sostenibilità molto basso se non nullo, come quello dell’auto, ma ciò non toglie che questo sia un ambito che offre un alto differenziale competitivo a chi è in grado di proporre prodotti e servizi sostenibili. Per quanto ci riguarda è una scelta consapevole, che è al centro della nostra logica di sviluppo e redditività. Dal 2009 continuiamo ad affermare la nostra Carbon Neutrality e siamo impegnati in una costante riduzione dei consumi energetici. Dal 2007 controlliamo accuratamente la filiera, richiedendo ai fornitori il rispetto della tutela dei diritti umani, degli standard di lavoro, dell’ambiente, della lotta alla corruzione. Vantiamo un indice infortuni in costante diminuzione e fino a quattro volte inferiore alla media dell’industria manifatturiera italiana.

Dal vostro bilancio di sostenibilità si evince però che su 15 dirigenti solo uno è donna.
È vero, si tratta di un deficit per il quale non ci sono scuse e su cui dobbiamo lavorare.

Lei si è formato professionalmente all’interno della Montedison di Mario Schimberni, dove ha ricoperto ruoli differenti, dalla pianificazione strategica al marketing, passando per la finanza. Per un manager è più importante avere un’alta specializzazione o serve piuttosto un’impostazione “generalista”?
Certamente dipende dal ruolo che si ricopre, la specializzazione è fondamentale perché consente di espletare gli ambiti che rientrano nella propria responsabilità, e senza quella non si fa molta strada, la “generalizzazione” permette di avere un quadro d’insieme. In più c’è tutta una componente personale, che in Alcantara è essenziale per un manager: il sapersi mettere in discussione, avere la capacità di cambiare idea e di concentrarsi sugli obiettivi.

I manager che lei ha incontrato nei suoi cinque anni di permanenza negli Usa erano così?
Negli Usa quando un manager è bravo, lo è ai massimi livelli. Per il resto ci sono parametri di considerazione diversi dai nostri. Il loro business, per esempio, pone molta enfasi sull’efficienza, a scapito della capacità di visione. Un manager medio non concepisce di lavorare sul differenziale competitivo, vuole andare subito lì dove pensa che il mercato sia più ampio. In compenso è decisamente più ottimista ed entusiasta, sa mettersi in gioco e ha una forte dose di pragmatismo. In più loro hanno il vantaggio assoluto che negli Usa le cose possono accadere più velocemente che da noi: ogni inghippo con un fornitore piuttosto che con un dipendente viene risolto a stretto giro.

Ha dichiarato che in Alcantara la qualità del management costituisce la chiave di volta, non a caso ha proceduto alla razionalizzazione dell’organigramma, sostenendo che da voi non si può stare fermi, “o si sale o si scende”.
Appunto per questo ci siamo dati una struttura che si sovrappone trasversalmente a quella gerarchica. Si tratta di gruppi interfunzionali che “scombinano” l’impostazione tradizionale, perché i capi si trovano a cercare una soluzione a un dato problema in collaborazione con più persone che mettono insieme il loro know how. Inoltre il team leader può avere nel suo gruppo di lavoro elementi che gerarchicamente all’interno dell’azienda ricoprono ruoli superiori al suo. In questo modo nessuno si sente autorizzato a fare il “despota” della situazione, ma chiunque si sente responsabilizzato a mettere a fattor comune le proprie competenze per raggiungere il risultato.

È per questo che appena arrivato ha cambiato le prime e le seconde file dirigenziali? Cosa si riprometteva?
Di avere un management che condividesse gli stessi valori. Sulle capacità tecniche è più facile lavorare, mentre è più difficile farlo sulle interazioni perché ha a che vedere con il modo d’essere dei singoli. E su quello non puoi intervenire. Ci sono individui che negano di fatto i propri errori, mentre bisognerebbe piuttosto riconoscerli e intervenire tempestivamente. Questo perché considerano gli errori come un fatto totalmente negativo, mentre – a mio avviso – se all’interno di un’organizzazione non se ne commettono significa che c’è qualcosa che non funziona, perché vuol dire che si ha paura di superare i propri limiti.

Lei sembra un tipo di manager grintoso e sanguigno, molto italiano… Come si trova a lavorare con i giapponesi che notoriamente non sono, come dire, molto empatici?
Dipende. Mi ricordo che quando arrivai a New York, un top manager della Toray mi prese da parte per dirmi: “Non cercare di essere giapponese, sei italiano, vogliamo che tu rimanga italiano”. In seguito qualcun altro non è stato altrettanto aperto, ma se si entra in un’ottica di globalizzazione bisogna saper accogliere la differenza, accettarla e farne un elemento a proprio vantaggio. Adesso siamo arrivati al punto che hanno ammesso di avere poca dimestichezza con le logiche di brand, lasciandomi ampio margine di manovra. D’altra parte Toray Industries è una grande conglomerata che opera essenzialmente nel settore chimico, medicale e ambientale, e poi nel tessile…

Quindi, sono stati superati i problemi di comunicazione e armonizzazione.
Ci sono stati, ma sono stati gestiti.

Come si traduce questo clima nei rapporti a livello di management?
Noi siamo un po’ più diretti, ma è difficile che vengano fuori scontri aperti con i giapponesi. Loro sono molto più formali, le loro riunioni sono quasi delle cerimonie in cui tutto è già stato definito durante gli accordi preliminari, il cosiddetto nemawashi.

Lei come li gestisce?
Dando un colpo al cerchio e uno alla botte… (ride). Ma sbaglia chi vede solo elementi di distanza tra la nostra cultura e la loro. Pensi solo alla cucina giapponese e alla nostra, siamo le uniche due al mondo che pongono un’infinita attenzione sulla qualità delle materie prime. Quando alla fine delle riunioni internazionali a New York chiedevo ai manager in quale ristorante preferissero andare, gli italiani sistematicamente rispondevano il giapponese, i giapponesi l’italiano. E come comunanza non è poco.