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Più pubblicità per (quasi) tutti
Per Lorenzo Sassoli De Bianchi, numero uno dell’Associazione degli investitori italiani defiscalizzare parte della spesa in advertising significherebbe ridare ossigeno al sistema dei media e attrarre i budget delle multinazionali. «Ma per ripartire sul serio serve la banda larga. E una nuova cultura»
Con una raccolta pubblicitaria ancora in calo nel 2013 (attualmente siamo a -18%, ma per la fine dell’anno dovrebbe attestarsi sul -12/13%, secondo l’Upa) c’è poco da stare allegri. Eppure Lorenzo Sassoli De Bianchi, che dell’associazione italiana degli investitori è il presidente, non ha perso l’ottimismo. Né tanto meno la voglia di reagire. È per questo che il mese scorso ha lanciato una proposta che suona quasi come una provocazione: permettere alle aziende che investono in advertising di defiscalizzare fino al 10% delle risorse in più spese rispetto all’anno precedente. Un’idea accolta con entusiasmo da molti addetti ai lavori, a partire da Piersilvio Berlusconi, ma che favorirebbe soprattutto i big spender del mercato, le multinazionali (sempre più scettiche rispetto alle potenzialità dell’Italia) e, per l’appunto, gli editori “tradizionali”. «È inevitabile, in un’industria legata ancora a un certo tipo di cultura», dice Sassoli De Bianchi. «Per intercettare il cambiamento che sta travolgendo l’intero universo dell’advertising occorre molto più di un incentivo. E per cavalcare l’onda del digitale è necessario adeguare le autostrade dell’informazione».
Cominciamo con la sua proposta “choc”, il tax credit sugli investimenti pubblicitari. Non si rischia che crei delle distorsioni nel mercato mettendo in posizione dominante le aziende che possono permettersi di aumentarli?No, perché non esiste una base di partenza rispetto all’investimento: la defiscalizzazione sarebbe solo sull’incremento del budget. Un’azienda che l’anno precedente ha investito poco in pubblicità può incrementare le iniziative fino al 10% a costo zero a prescindere dal valore assoluto dell’investimento. Il meccanismo aiuta tutti. E soprattutto sostiene l’editoria e il settore dei media in senso lato. Poi è evidente che i vantaggi sono proporzionali.
Chi ha già grande visibilità grazie a budget maggiori sarà ulteriormente favorito. Chi non ce l’ha, invece… Lavoriamo in mercati in cui di posizioni dominanti non ce ne sono tante. Anzi, c’è aperta concorrenza e non esistono settori in cui viga il regime di monopolio. Pensi anche alle Tlc: pur essendo un comparto ad alta concentrazione, la concorrenza è elevatissima. Dopodiché, naturalmente, siamo consapevoli che è difficile che questo tipo di incentivo aiuti a crescere le società piccole. Aiuta il sistema in generale. E sì, i player maggiori.
Oltre che le multinazionali… Certo, serve a convincere le multinazionali che stanno dirottando il budget per la comunicazione su altri mercati a tornare a investire in Italia. Non è detto che i consumi ripartano tanto in fretta. La nostra proposta è triennale, non è una tantum. E sappiamo che c’è una stretta correlazione tra i consumi e gli investimenti in advertising. La pubblicità non solo sostiene i consumi, ma favorisce la concorrenza. Le cito di nuovo le telecomunicazioni: pensi alla concorrenza sui prezzi. Se le compagnie non potessero comunicare servizi e costi, i clienti, meno informati, avrebbero minori opportunità di scelta e le tariffe sarebbero certamente più alte.
Ne conviene però che il rapporto col target sta evolvendo sempre più da un’ottica push a una di tipo pull: oggi chi ha un minimo di cultura digitale va a cercarsi le informazioni che gli servono direttamente su Internet.Certo. E anche il sito di un’azienda è advertising. La nostra proposta non è limitata alla pubblicità tabellare: ogni attività di comunicazione è da considerarsi defiscalizzabile.
Le aziende che non lo fanno per precisa scelta, saranno disposte a investire di più? Lei stesso, parlando della sua Valsoia, ha sostenuto che in tempi di crisi è meglio incrementare il budget in comunicazione per aumentare il proprio vantaggio competitivo. Non è una questione legata all’imprinting, alla singola filosofia imprenditoriale piuttosto che a un incentivo?Certo, lo ribadisco: chi ha il coraggio di investire in piena recessione ne esce rafforzato, sia in termini di visibilità della marca che di posizione nel mercato. Io non vorrei fare riferimento a casi specifici, ma Valsoia è un’azienda nazionale, ancora strettamente legata al suo fondatore, e per questo gode di grande autonomia. Una multinazionale che lavora in 70 mercati fa invece valutazioni diverse. E cerca altre opportunità di sviluppo nei mercati che le offrono.
Quali sono i Paesi che ci fanno concorrenza in questo senso?Guardi, posso citarle il caso Weetabix, un prodotto che distribuisco. La casa madre inglese ha dirottato gli investimenti che faceva in Italia in Sud America. Ha ritenuto il mercato messicano più attraente di quello italiano. Le altre piazze? I Brics, senz’altro, ma più in generale i Paesi contraddistinti da Pil in significativa crescita: oltre al Messico ci sono la Colombia, la Corea, la Malesia e Singapore.
E i Paesi che versano nella nostra stessa situazione, come se la stanno cavando?Come e peggio di noi. Assistono a cali drammatici della pubblicità, e il sistema dei media è sempre più in crisi. Pensi a quello che sta capitando in Grecia: nel momento in cui chiudono giornali, periodici, addirittura la Tv di stato, entra in gioco un problema di controllo dell’informazione che è meglio non sottovalutare.
Non si tratta solo di un periodo di transizione? Le crisi dell’editoria certo è conclamata, ma ci sono nuovi media alla ribalta, e offrono anche maggiore democratizzazione dei contenuti.. È vero, ma il citizen journalism farà fatica a sostituire il giornalista professionista.
Parlavo più in generale di media come piattaforme.Il concetto di piattaforma è obsoleto. Ormai i maggiori editori si sono trasferiti sul Web. E i siti più visitati, anche in Italia, fanno sempre capo a testate cartacee.
Proprio per questo non è diventato necessario riequilibrare gli investimenti pubblicitari? L’incentivo che proponete non dovrebbe essere associato al modo di concepire l’advertising per incentivare le iniziative digitali e spostare il budget dai mezzi tradizionali?L’Upa non condiziona gli investimenti degli associati. Suggerisce strade e fa formazione. Da questo punto di vista sono anni che cerchiamo di aprire nuove strade. Del resto basta dare un’occhiata ai dati Nielsen: il Web ha superato la carta stampata in termini di raccolta, una cosa inimmaginabile fino a dieci anni fa, e Google fattura più della Rai in termini di spazi pubblicitari. Ma la Tv rimane nel panorama mediatico tricolore come grande Moloch. Non possiamo dimenticare che la più grande industria culturale del nostro Paese è stata la Rai, c’è un fortissimo radicamento della Tv nelle famiglie italiane. E giocoforza le aziende tendono a seguire gli stili di vita degli italiani.
Oggi però non c’è più “la” Tv, bensì “le” Tv.Ma sono poche. Fino a quando non si svilupperà la banda larga la loro fruizione rimarrà limitata.
Quindi pensa, o spera, che a breve il mercato intraprenda una nuova strada?È già stata intrapresa. Ma prima che sia compiuta, con la vera modernizzazione del Paese, bisogna che nella classifica mondiale della velocità di trasmissione dati l’Italia passi dall’87esimo posto ai primi dieci. Siamo tra le prime dieci economie del globo, ma le nostre autostrade informatiche sono tra le ultime in Europa. O le costruiamo, oppure a breve usciremo anche dal ranking economico.
I nuovi format pubblicitari di Rai e Mediaset. Sono davvero tali o in realtà non c’è niente di nuovo sotto il sole?Io non entro nel merito specifico dei format. Non li giudico, è il mercato che lo deve fare. Detto questo, mi pare di intravedere sia in Rai che in Mediaset e in tutti gli altri operatori un grande sforzo innovativo. Magari qualcuno potrebbe trovare il nuovo Carosello non rivoluzionario, ma su altri fronti i broadcaster stanno facendo passi significativi: la fruizione sui tablet dei contenuti Rai, per esempio, è eccellente.
E l’Auditel? Non deve evolvere anche il sistema di rilevazione dell’audience?Per lavoro tengo sotto osservazione i sistemi di rilevazione in diversi Paesi, dagli Stati Uniti alla Francia passando per la Gran Bretagna. Ovunque la prossima frontiera è la rilevazione individuale e quindi non più condotta su base familiare. Ci stanno lavorando tutti, Auditel compresa. Mi creda: nessuno al mondo è in ancora grado di farlo. E oggi Auditel è ancora considerato il sistema migliore. Si può fare di meglio, certo, ma la tecnologia non è ancora a punto. Nielsen, per esempio, sta lavorando da un paio d’anni a un sistema di rilevazione dei contenuti televisivi su tablet. Un anno fa l’aveva persino annunciato, ma non è ancora riuscita a superare alcuni vincoli tecnici.
Anche monitorare il rumore generato dai contenuti televisivi sui social network è così complicato?Quella è una strada più percorribile. La Rai ha adottato da anni il Qualitel. Però lo sta utilizzando poco. Come mai?Perché in termini di vendita di spazi pubblicitari si contano ancora le teste. Ma sono convinto che una Rai più evoluta potrebbe usarlo con efficacia.
Perché non passa il concetto tanto semplice che pianificare su un target mirato costa di meno e rende di più che sparare nel mucchio?Per un problema culturale. Semplicemente, siamo ancora indietro.
Credits Images:Classe 1952, Lorenzo Sassoli De Bianchi è dal 2007 presidente di Upa, l'associazione italiana degli investitori pubblicitari. È anche fondatore di Valsoia, che proprio su marketing e advertising ha costruito i proprio successo