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Non si smette mai di giocare
In attesa del nuovo ingaggio in un club internazionale, l’ex capitano della Juventus parla dei Mondiali e dei colleghi, di ciò che secondo lui è il “senso del gol”, dei sogni di una vita e della fortuna di aver fatto della sua passione una professione. Nonché di come il talento, quello vero, non si spenga col passare degli anni
Il talento non invecchia mai. Probabilmente è anche per questo che tanti calciatori, dopo aver appeso le scarpette al chiodo, quando gli capita di parlare di calcio tornano di colpo ragazzi: sui campetti palleggiano con maestria come se avessero dismesso la maglia il giorno prima. Eterni Peter Pan? No, eternamente innamorati di uno sport che è anche dimensione di vita e passione esistenziale.
È quanto si legge nei silenzi e tra le righe delle parole di un campione senza possibilità di smentita del calibro di Alessandro Del Piero, colui che malgrado il recente peregrinare in giro per il mondo – dopo l’addio obbligato alla Juve nel 2012 è approdato al Sydney Fc ed è in attesa di ulteriore ingaggio, destinazione Estremo Oriente oppure Estremo Occidente – è e rimarrà per sempre “il” Capitano della Vecchia signora nonché “il” numero 10 per eccellenza dei bianconeri.
Un campione del mondo del 2006 che non si è sottratto alla recente sfida Mondiale, proiettandosi nella trincea degli studi Sky di Milano e a San Paolo come commentatore della rovinosa (per gli Azzurri) competizione brasiliana, che invece ha avuto in lui senz’altro un vincitore, perché il suo porsi in video ha convinto molti addetti ai lavori. Alex – come lo chiamano i suoi tanti tifosi – appartiene a una specie in via di estinzione, cui vanno iscritti di diritto i Baggio piuttosto che i Maldini, i Totti e gli Scirea, quella cioè dei calciatori leader che si affermano non solo per quello che fanno e per i risultati che raggiungono (ha vinto, solo per citare i più importanti, 21 trofei), ma per come lo fanno: nessun eccesso e forte spirito di squadra, disciplina e discrezione, rispetto per la maglia e concentrazione sugli obiettivi.
Del Piero è un brand (non è un caso che sia da tanto tempo testimonial dell’acqua Uliveto e di recente abbia accettato di diventare ambasciatore mondiale della Woolmark Company), che non si sottrae alla sua responsabilità di personaggio pubblico (è impegnato in diverse iniziative benefiche), ma è soprattutto un calciatore sulla soglia dei quarant’anni che intende continuare ad ascoltare la sua immutata voglia di giocare e competere sui campi di calcio come faceva da ragazzino nella sua San Vendemmiano, in quel di Conegliano Veneto.
Che voto darebbe a questi Mondiali brasiliani? Si sono viste – Italia a parte – performance straordinarie: un nuovo calcio, nuove squadre e una nuova voglia di vincere… Aggiungerei anche tanti gol, la miriade di colori che ha riempito gli spalti, l’eccezionale spettacolo che è stato reso nell’insieme. La Germania poi ha centrato due obiettivi storici: l’aver vinto la semifinale contro il Brasile grazie a sette gol e l’essere stata la prima squadra europea a conquistare un Mondiale di stanza in Sud America. Per chi come me ama il calcio, direi che l’evento ha rispettato la tradizione e le aspettative. Quindi, il mio è senz’altro un voto molto alto, perché mi ha regalato, come credo abbia fatto a chiunque lo abbia seguito, emozioni fortissime.
E che voto si darebbe come opinionista di Sky? Sui social network è stato promosso, e anche diversi addetti ai lavori hanno apprezzato la sua “naturalidade”… Grazie (ride), ma devo ammettere che parte del merito va senz’altro alla professionalità delle persone con cui mi sono trovato a lavorare, che hanno fatto di tutto perché mi sentissi a mio agio e avessi la tranquillità necessaria a svolgere il mio compito. Per il resto, ho cercato di essere me stesso, il più naturale possibile, senza cercare di imitare qualcun altro. Mi piaceva l’idea di trasmettere le emozioni che mi dava quello che vedevo, e di poter esprimere “il mio punto di vista”. Ho lavorato molto sull’aspetto emozionale, sui volti delle persone, sui piccoli atteggiamenti e gesti che molte volte ho riconosciuto avendoli vissuti direttamente. E mi fa molto piacere l’aver raccolto così tanti apprezzamenti.
Potrebbe prenderci gusto e farlo di professione? Non ci ho ancora pensato, ma è stata senz’altro un’esperienza positiva.
Prima di iniziare era un po’ terrorizzato, preoccupato o cosa? Direi più che altro emozionato, perché soprattutto le telecronache sono molto impegnative. Ero già stato ospite di qualche programma, ma non ero mai stato tanto a lungo in video.
E il post Mondiali come sarà? Che gioco farà il capitano Alessandro Del Piero nella stagione 2014-2015? Ho letto diverse ipotesi che la danno in squadre ai poli opposti della Terra: dall’Indonesia a Singapore, dagli Usa al Giappone; da ultimo pare ci sarebbe in ballo anche il Celtic di Glasgow… Cosa c’è di vero in queste indiscrezioni? C’è di vero che avrei voglia di provare una situazione nuova, che mi consenta di giocare ancora un anno. Un impegno a breve termine quindi, eventualmente da prolungare in seguito. In queste settimane dovrò valutare quale soluzione sentirò più giusta per me.
Tra quelle che ho citato, potrebbe già esserci quella giusta? Al momento ci stiamo confrontando con diverse realtà, tutte potenzialmente interessanti.
Un mio amico juventino sostiene che lei non sia ancora un manager della Juventus perché ha un nome e un passato troppo ingombranti per chi invece vuole comandare all’interno della squadra oggi. Cosa pensa ci sia di vero? C’è di vero che, per quanto mi riguarda, mantengo uno splendido rapporto con tutto il mio passato, per cui ripenso sempre alla Juventus in maniera strepitosa. Ora le nostre strade sono diverse: il mio progetto è quello di continuare a giocare e finché rimarrà tale sarà impossibile avvicinarmi alla squadra. Per il futuro non pongo limiti, le cose andranno come devono andare.
Il 9 novembre compirà 40 anni, sarà un traguardo in qualche modo significativo: cosa vuol dire raggiungere questa età per un calciatore? È una svolta o un semplice passaggio? Non credo che sia il quarantesimo compleanno in sé a costituire una soglia fatidica per un calciatore, quanto il giorno in cui decide di smettere di giocare e di proiettarsi e collocarsi in un nuovo contesto personale. Il che succede spesso intorno ai 40 anni, ma a volte anche prima. Perciò, personalmente non mi sto avvicinando con particolari ansie al mio compleanno, anzi sono abbastanza sereno, perché per quanto mi riguarda tra tre mesi confido di essere ancora in campo. Visitando il suo sito, mi ha colpito la citazione di Muhammad Ali: «I campioni non si costruiscono in palestra, ma partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione».
Non credo che sia il quarantesimo
compleanno in sé a costituire
una soglia fatidica per un calciatore
Qual è il desiderio, sogno o visione che ha fatto di lei il campione che è diventato?Inseguire la mia passione di bambino, dare ascolto a quel desiderio di giocare al pallone che mi inseguiva in ogni momento libero delle mie giornate quando uscivo da scuola o ero a casa. È il sogno che mi ha portato lontano da casa a 13 anni per entrare nella scuola di calcio del Padova. Per tutta la vita ho continuato a obbedire alla visione che avevo di realizzare qualcosa di grande e di bello per me, che comprendeva la voglia di giocare in serie A e in Nazionale, e di vincere anche la Coppa del mondo. È fondamentale credere nei propri sogni più ambiziosi e farli diventare gli obiettivi della propria vita.
Perciò cita spesso la frase di Nelson Mandela, in cui sostiene che «un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso»? Cosa vuol dire per lei non arrendersi?Vuol dire dedicare se stessi a quello che interessa, ma farlo con devozione e attenzione. Quindi orientare le proprie forze, facendo tutto quello che è possibile per poter coronare il proprio sogno.
Lasciare la Juve è stata una resa o una scelta obbligata? È stato un momento della mia carriera, un passaggio certamente importante, ma come tanti altri che si sono succeduti, e che va compreso per quello che è.
Ha indicato in Ronaldo e Zidane i migliori calciatori degli ultimi 20 anni, Michael Jordan e Kobe Bryant come migliori cestisti e Tiger Woods come migliore golfista. Cos’hanno in comune questi atleti per essere considerati il meglio dello sport? Immagino non sia solo una questione di risultati… No, è per come sanno esprimere il loro talento, con quali qualità, con che attenzione e classe. È un insieme di componenti personali, psicologiche, fisiche e caratteriali che li rende diversi dagli altri, unici nel loro modo di stare in gioco e fuori dal campo di gioco.
Il talento non ha un interruttore,
non si spegne a comando, ma
sopravvive al tempo e al fisico
Sbaglio o lei è una persona estremamente competitiva?(Ride) Non sbaglia.
Fino a quando volere avere sempre la meglio è un bene e quando, invece, diventa un limite? Ciascuno deve trovare in se stesso il limite, ma sono d’accordo con lei quando dice che può diventare un ostacolo. Penso che esista un confine che ognuno deve imparare a riconoscere, perché è diverso per ciascuno. Se non lo fa consapevolmente, sarà la vita a costringerlo attraverso le batoste che di certo non gli risparmierà. In un modo o nell’altro è una strada che bisogna percorrere.
Cos’è il cosiddetto “senso del gol”? Fiuto, dote innata, tecnica, impegno… Sono tutte qualità utili, in più ci aggiungerei la capacità di mettere a frutto l’esperienza e quanto hai visto fare in precedenza da altri e di saper immaginare e realizzare qualcosa di completamente diverso. Oltre alla fantasia ci metterei anche una buona dose di istinto, che è sì una dote innata, ma che va allenata costantemente e della quale bisogna imparare a fidarsi anche quando la ragione ti spingerebbe altrove.
Che significa essere l’uomo squadra come lei per la Juve, Totti per la Roma e Maldini per il Milan? Come ci si guadagna questo ruolo? Grazie a quello che hai fatto e continui a fare nella tua carriera e per la tua squadra, che sta alla base di ciò che i tuoi compagni riconoscono in te e di ciò che di te pensano gli avversari e i tifosi.
È una grande responsabilità. Lo è, ma – mi creda – è anche un grandissimo onore.
A proposito dei compagni, lei parla spesso bene dei suoi, da Zidane a Baggio da Trezeguet a Nedved… Quanto conta l’affiatamento di squadra per vincere? Conta molto scendere in campo avendo tutti la stessa idea: è una componente fondamentale. Ed è un’idea che si costruisce allenandosi insieme giorno dopo giorno avendo in mente l’obiettivo di perfezionarla e migliorarla. È una lezione che gli Azzurri del Brasile non hanno imparato… Purtroppo in quel caso non hanno funzionato tante cose, più che altro nella seconda e terza partita.
Ha detto che il suo allenatore preferito è Marcello Lippi. Cos’è che fa di un allenatore un grande allenatore? È una domanda che mi viene posta spesso e alla quale rispondo sempre Lippi per il semplice motivo che con lui ho vinto tantissimo, compreso il Mondiale, ma anche perché è stato il mio allenatore per 11 anni. Quando lavori così a lungo con un tecnico non c’è paragone con altri che magari ti hanno seguito per soli due anni. Abbiamo scritto insieme delle pagine straordinarie, ma devo però ammettere che ho avuto tanti altri maestri eccezionali.
Qual è stata la qualità di Lippi che ha apprezzato di più? La sua leadership, ma anche la sua determinazione e la sua comunicativa.
Ci sono molte date importanti nella sua carriera di calciatore, che s’intrecciano anche con le tappe della sua vita. L’8 novembre 1998 avviene l’infortunio che rischiava di allontanarla definitivamente dal mondo del calcio. Al rientro però le statistiche dimostrano che ha cominciato a segnare più di prima. Il 13 febbraio 2003 muore suo padre, e solo dopo cinque giorni segna il più bel gol della sua carriera al Bari. Si può dire che lei abbia imparato la difficile arte del riprendersi e del rialzarsi. Quanto le è costata? Relativamente poco, nel senso che mi è stata insegnata. Il mio compito è stato solo quello di continuare a crederci fino in fondo. Dopo di che, è ovvio che certe situazioni segnino in un modo o nell’altro la vita, nel primo caso dal punto di vista professionale, nell’altro dal punto di vista personale. Ma devo dire che anche su questo fronte ho avuto dei buoni maestri, uno per tutti, mio padre.
Cosa vuol dire per lei essere una persona perbene, sentire la responsabilità di essere un modello per tanti ragazzi e bambini? Mi sembra che il voler restituire questa immagine di persona corretta sia una componente importante del suo carattere. Perché penso che sia giusto dare un segnale di questo genere, e con questo non intendo dire che bisogna mostrarsi perfetti, perché nessuno di noi lo è, e poi sarebbe innaturale e non credibile. Detto questo, ritengo che sia una mia responsabilità trasmettere segnali positivi a quei bambini e ragazzi che sentono la necessità di avere dei modelli di riferimento.
È una responsabilità che dovrebbe animare di più tutto il mondo del calcio? Tutto il mondo, non solo quello del calcio. Ci sono realtà anche più importanti del calcio che dovrebbero sentirsi investite di questo compito.
Come valuta quanto successo di recente? Insulti razzisti e xenofobi, violenza negli stadi e fuori tra le tifoserie, società cariche di debiti e in ostaggio degli ultras, scandali scommesse vari. Il calcio è lo specchio del Paese, o solo un ambito dove trovano sfogo anche gli istinti più bassi del Paese? Posso solo dire che, alla luce di quanto accade, credo che tanto i club quanto la società italiana tutta abbiano bisogno di una sferzata decisa, che li impegni in un’assunzione di responsabilità definitiva affinché tutto questo non si verifichi mai più.
C’entrano in qualche modo le lotte ingaggiate a suon di miliardi tra le varie piattaforme per aggiudicarsi i diritti? C’è chi dice che il calcio sia stato corrotto dai troppi soldi. Quello dei diritti è un discorso prettamente economico e numerico, stento a credere che abbia a che fare con certi comportamenti riprovevoli.
Diciamoci la verità, lei esula un po’ dal cliché del calciatore: legge Carl Gustav Jung, si appassiona alle vicende dei Templari e apprezza la millenaria arte dei tarocchi. Da dove nasce la sua attenzione verso simili argomenti? Semplicemente dal fatto che nella mia vita ho incontrato persone che mi hanno consigliato delle letture e dei temi ai quali mi sono via via appassionato e che continuo ad alimentare come interessi personali. Ma leggo anche semplici romanzi.
Autore preferito? In questo momento vorrei citare Giorgio Faletti, che ho conosciuto personalmente e che in alcune occasioni mi ha coinvolto nelle sue tante attività. Un grande uomo…
Chiudiamo con un altro grande. In occasione della sua recente scomparsa sono state trasmesse delle immagini in cui Alfredo Di Stefano, la leggenda del Real Madrid, a 80 anni continuava a palleggiare come un trentenne. Pensa che nella vita non si smetta mai di essere un campione? Per fortuna il talento sopravvive al tempo e al fisico. Ci sono delle persone, anche meno talentuose, che continuano ad allenarsi e continuano a giocare bene fino a tarda età. Il talento non ha un interruttore: non si spegne a comando.
Credits Images:© Valerio Pardi