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No alle lobby verdi

Giorgio Squinzi: «La crisi è (quasi) finita ma adesso all’Italia serve uno shock vero: abbattere la burocrazia». Poi lancia l’allarme sulle “lobby verdi”: «se vincono, l’industria manifatturiera italiana chiude». Prima intervista al patron della Mapei dopo l’elezione alla guida degli imprenditori chimici europei

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Eletto presidente del Cefic, la Confindustria europea delle imprese chimiche, Giorgio Squinzi non ha avuto nemmeno il tempo per festeggiare che si è trovato sul tavolo una proposta che lo ha fatto saltare sulla sedia. «Una follia», dice. Squinzi è il patron della Mapei, una di quelle multinazionali che non si può più definire “tascabile” ma ancora non si può chiamare “colosso”, di cui l’Italia è piena ma non s’accorge. Ora, a capo dell’European Chemical Industry Council, primo italiano dopo Mario Schimberni della Montedison (che vi restò solo metà mandato) deve vedersela con il problema energetico e la sua voce avrà un peso straordinariamente maggiore rispetto alle altre associazioni degli industriali del Continente, visto che quella chimica, insieme a quella siderurgica, è un’industria altamente “energivora”. La proposta prende spunto dall’obiettivo europeo cosiddetto “20-20-20”: il 20% in meno di emissioni di Co2 nell’ambiente, il 20% in più di efficienza energetica e il 20% di energia prodotta da energie rinnovabili entro il 2020. «Il fatto è che c’è un movimento in Europa che vorrebbe portare il taglio delle emissioni di Co2 al 30% e addirittura al 40% sempre entro il 2020. Questo significherebbe per tutta l’industria manifatturiera continentale una stangata dalle conseguenze imprevedibili. Dobbiamo difenderci da queste ideologie. Ci sono minoranze organizzate bravissime a fare lobby e ad imporre la loro visione della realtà mancando completamente di realismo economico».

Perché dice che non sono realisti?Perché l’Europa pesa per il 10% sul totale delle emissioni mondiali di Co2 e l’Italia pesa per il 10% di questo 10%. Quindi anche se decidessimo tagli più importanti di quelli che attualmente rappresentano l’obiettivo europeo, certamente non contribuiremmo che in minima parte alla tutela ambientale. Sono altri i Paesi che emettono grandissime quantità di Co2: ad esempio Cina e India. Non possiamo imporre costi insostenibili alle nostre aziende per avvantaggiare le loro.

Quale sarebbe la conseguenza per l’industria?Molto semplice: ci sono Paesi manifatturieri che non potrebbero più competere sul mercato se gli si imponessero costi così pesanti come il taglio drastico della Co2. E tra i primi Paesi che soffrirebbero ci sono la Germania e l’Italia, rispettivamente primo e secondo Paese manifatturiero dell’Europa.

Qual è il consenso a livello politico rispetto a questa proposta?Vicino allo zero, però è da notare che Angela Merkel in Germania è stata sconfitta, con il contributo decisivo dei Verdi, nelle ultime elezioni regionali, proprio sui temi ecologici. Per questo dico che si tratta di lobby potenti: sono in grado di influenzare la politica industriale di un Paese pur essendo una piccolissima minoranza.

Resta un problema di approvvigionamento energetico. Lei è nuclearista?Sì. Occorre che l’emozione provocata dal disastro giapponese passi per poter ragionare con calma e raziocinio del problema dell’energia. Ho detto del problema dell’“energia”, non del problema del “nucleare” perché, per come la vedo io, il nucleare è la soluzione, non il problema. Occorre ragionare sul fatto, ad esempio, che le centrali giapponesi sono tutte di vecchia generazione e che oggi sono disponibili tecnologie più sicure e che non tutte le zone italiane sono sismiche, ad esempio la Val Padana non lo è.

Si fida poco delle rinnovabili, vero?Non è questione di fidarsi o non fidarsi. Il problema è che hanno costi non competitivi. Così l’Italia, in particolare, finisce per finanziare con un sacco di soldi le fonti rinnovabili senza avere in egual misura dei vantaggi dal punto di vista economico. Per ora le rinnovabili sono un costo. Il secondo grave difetto è che incentivi così alti come quelli che abbiamo in Italia impediscono una sana concorrenza tra le imprese per produrre più energia e minor costo. Quindi, se vogliamo più efficienza energetica dalle rinnovabili, una revisione degli incentivi è indispensabile smantellando una normativa e un meccanismo di incentivazione artificiosa e poco efficiente che, alla fine, danneggia tutti.

Gli industriali dell’energia verde affermano che un taglio agli incentivi porterebbe alla fine dell’industria verde.Va bene, allora decidiamo di puntare sulle energie verdi e chiudiamo tutta l’industria manifatturiera italiana che, con i costi delle rinnovabili, non resisterebbe un solo giorno. Questione di scelte. Naturalmente tutto questo al netto della crisi libica. Dalla Libia noi importiamo il 30% del nostro fabbisogno energetico ed è chiaro che se quella situazione non si risolve finiremo, prima o poi, per soffrirne pesantemente delle conseguenze.

La Banca centrale europea ha recentemente aumentato i tassi d’interesse. Secondo lei è il segnale che la crisi è finita?Siamo decisamente in una fase di grande miglioramento economico anche se ci sono ancora molte aree di sofferenza. Io guardo la mia azienda e vedo che in certe aree del mondo prevediamo tassi di crescita nel 2011 addirittura a due cifre, come negli Usa, mentre in altre parti, come in Italia, la ripresa è più lenta. Comunque è vero, il clima è certamente migliore rispetto a qualche anno fa.

Lei non è il primo imprenditore che cresce di più all’estero che in Italia. Marchionne pronunciò una frase famosa: «Senza l’Italia la Fiat farebbe meglio». Mi spiega il motivo?Soffriamo di alcuni freni strutturali il più importante dei quali è una burocrazia che opprime non solo i nuovi imprenditori, ma anche quelli che sono già sul mercato. Faccio solo un esempio: per aprire uno stabilimento a Latina ho dovuto aspettare sette anni, per aprirne uno in Germania sono bastati 60 giorni. Poi c’è un problema di liquidità e di debito pubblico che ha portato il governo a preoccuparsi in modo molto serio dei conti pubblici, che in una certa fase della crisi hanno anche rischiato di affossarci e farci fare la fine di altri Paesi. Adesso, se si vuole riprendere a crescere, occorre che anche lo Stato faccia la sua parte proprio attraverso una drastica semplificazione normativa.

Per passare da un’attesa di sette anni a 60 giorni più che di una riforma occorre una rivoluzione. Non crede?Penso che si possa fare qualche cosa di buono anche con una “semplice” riforma, d’altra parte questo governo ha già dimostrato di riuscire a fare cose importanti.

Parliamo di tasse. Gli industriali, a mezza voce, criticano questo tipo di federalismo perché temono un nuovo aumento delle tasse attraverso, ad esempio, l’Imu sugli immobili, la tassa di soggiorno e lo sblocco delle addizionali Irpef. Lei condivide questi timori?Il federalismo deve essere un processo portato avanti in maniera molto equilibrata. Detto questo personalmente lo vedo come una grande opportunità, una forma compiuta di responsabilizzazione delle amministrazioni locali.

In altre parole?In altre parole l’effetto più importante del federalismo dovrebbe essere quello di bloccare per sempre la spesa facile delle regioni soprattutto nel capitolo sanità, che rappresenta il vero buco nero della spesa pubblica. Il federalismo è auspicabile anche se riuscisse a risolvere solo questo problema.

Per raggiungere l’obiettivo molte regioni, però, non dispongono di personale politico adeguato. O no?Credo, infatti, che uno dei parametri sui quali si misurerà l’efficienza della classe politica locale sarà l’oculatezza della spesa e, in secondo luogo, la lotta all’evasione fiscale. Nelle aree nelle quali l’evasione fiscale arriva al 50% del totale, è chiaro che c’è una responsabilità degli amministratori locali e il fatto che con il federalismo possano essere co-beneficiari delle risorse recuperate all’evasione, mi fa sperare che anche questa piaga potrà essere risolta.

A ogni cambio di presidenza di Confindustria, lei viene indicato come il candidato con le maggiori chance. Secondo lei quale deve essere la priorità dell’associazione degli industriali in questa fase politico-economica?Non voglio dare consigli, ma credo che la prima urgenza dell’apparato industriale sia quella di una drastica semplificazione burocratica. Noi imprenditori chimici portiamo avanti questa battaglia da oltre 20 anni, ben prima che io arrivassi alla presidenza di Federchimica, e credo che il massimo impegno dovrebbe essere posto proprio su questo obiettivo.

I critici direbbero che volete “mani libere”.Contrariamente a quello che si pensa il taglio della burocrazia non significa affatto un regime di minor tutela per i cittadini o di minori garanzie di rispetto ad esempio dell’ambiente, significa rendere possibile creare e sviluppare un’azienda senza dover sottostare a migliaia di passaggi normativi che alla fine hanno l’unico effetto di alimentare artificiosamente l’esistenza in vita della macchina burocratica stessa senza produrre alcun valore per il Paese.

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Classe 1943, sposato, due figli, Giorgio Squinzi è patron della Mapei e presidente del Cefic (European Chemical Industry Council), la Confindustria europea delle imprese chimiche