Connettiti con noi

People

L’uomo che rifà il trucco alle aziende

Mai come in questo periodo ci sono state tante imprese bisognose di ristrutturazione. Invece il beauty rappresenta un settore che non conosce flessioni. Ecco come e perché il fondo Orlando Italy ha deciso di puntarci decisamente. Parla Enrico Ceccato, presidente di Llg-Leading Luxury Group

architecture-alternativo

La bellezza? È business tutt’altro che fugace, se è vero com’è vero che il cosiddetto Lipstick index, ovvero l’indice coniato nel 2001 da Leonard Lauder, presidente di Estée Lauder, che mostra come la vendita di rossetti sia inversamente proporzionale al benessere economico, continua a mantenersi attivo e vigile in un’epoca in cui anche i consumi di primaria necessità (vedi l’alimentazione) registrano segni di cedimento. Forte di tale convinzione, Enrico Ceccato, insieme al socio Paolo Scarlatti in Orlando Italy, fondo di private equity che attualmente è attivo in Favini (grafiche di lusso), Gem (organizzazione grandi eventi), Cogetech (slot machine e videolotterie) e Perfume Holding (distributore di licenze altrui nonché proprietario del brand Atkinsons), lo scorso dicembre ha pensato di imprimere un’accelerazione al loro coinvolgimento nelle catene di profumerie Limoni e La Gardenia, dando vita a Llg-Leading Luxury Group, service company che gestisce e coordina le attività di entrambe. Il risultato più immediato è stata la creazione di un gruppo che include circa 500 negozi, per un fatturato aggregato pari a 370 milioni di euro, collocandosi così al vertice della distribuzione nazionale della cosmesi e tra i primi cinque al mondo. Al comando di una simile potenza di fuoco, in qualità di presidente, c’è appunto Ceccato, una storia professionale nella finanza e nel retail (si è occupato anche di Fnac e Autogrill), anche se lui oggi più che un mero investitore preferisce definirsi semplicemente un manager aziendale.

A tre mesi dall’annuncio della costituzione di Llg, che momento è quello attuale?

Intenso. Dal 2006, anno in cui abbiamo raccolto il fondo Orlando Italy a oggi non ci sono mai state tante aziende con problemi finanziari più o meno grandi, e bisognose di ristrutturazione… Non è un caso se abbiamo accelerato le acquisizioni negli ultimi 18 mesi e iniziato il fundraising per un nuovo fondo da 150 milioni; ci aspetta un periodo particolarmente impegnativo.

Lei si occupa di attività diverse, si sente più investitore, distributore, retailer…

Il mio mestiere d’elezione è il manager aziendale, la finanza è materia quasi esclusiva del mio partner Paolo Scarlatti, è lui che ha la visione dei grandi numeri, io sono più operativo: preferisco mettere le mani dentro le aziende. Com’è stata sua l’idea di creare l’unico fondo che in Italia si distinguesse per investimenti in aziende in difficoltà, gestendole direttamente per un breve periodo, per poi affidarle ai manager in modo da poter iniziare a utilizzare il nostro tempo in altri settori. Tant’è che oggi anche dal sistema bancario e dalle stesse aziende veniamo visti come un’entità che può veramente contribuire a risollevare pezzi dell’economia italiana. Non ce ne sono molti di casi simili in Italia.

Immagino che da qualcuno siate ancora visti come dei profittatori malgrado altri vi considerino un po’ come dei “salvatori della Patria”…

All’inizio devo dire che era così, ma avendo visto gli esiti delle operazioni che abbiamo condotto, certi giudizi si sono via via stemperati.

Ma com’è possibile occuparsi contemporaneamente, con ugual efficacia, di settori tra loro diversi?

Lo è se ci si limita alla fase di riorganizzazione aziendale e non oltre.

Seguite delle precise regole…

Certo, e a queste bisogna aggiungere la sensibilità dataci dall’esperienza: l’aver visto da vicino negli ultimi 25 anni tante aziende, ci ha fornito un know how prezioso. Le regole che ci siamo dati sono state messe a punto da noi, imparando anche dagli errori compiuti, e sono applicabili a qualsiasi impresa in qualunque mercato. Detto questo, ci concentriamo e fermiamo, lasciando ad altri investitori la fase dello sviluppo.

Ci dica le tre regole base per una buona riorganizzazione.

La prima è rifocalizzare l’azienda sulle attività che hanno più possibilità di funzionare in futuro; facciamo quello che gli inglesi chiamano “carve out” delle attività più sane dell’azienda, mettendo in liquidazione la componente meno promettente, anche a costo di rinunciare a un pezzo di business. È una cosa che molti imprenditori ancora non oserebbero mai fare, moralmente e umanamente, ma che per noi è fondamentale. La seconda è accertarsi che le imprese abbiano già una prospettiva internazionale, rafforzabile col nostro ingresso, oppure una forte leadership in Italia. La terza invece presuppone che l’impresa abbia ancora la possibilità di tornare a essere redditiva oltre a vantare una buona base manageriale, cosa rara in Italia, dove le aziende sono in buona parte familiari. È fondamentale potersi avvalere già in partenza di manager di livello intermedio – tecnici, commerciali, esperti di prodotto – che conoscono bene i processi aziendali, indipendentemente dal proprietario, che non ci sarà più, o dall’amministratore delegato, che può anche essere sostituito.

Quand’è che un’azienda arriva al punto di non ritorno?

Quando ha bisogno di finanziare una quantità di capitale circolante molto elevata. Quando comincia ad avere un magazzino o dei crediti molto importanti, vuol dire che il modello di business non funziona. Al momento, secondo noi, circa la metà delle aziende in difficoltà è difficilmente recuperabile, mentre un’altra metà offre invece grandi opportunità. È questa l’Italia su cui si può lavorare.

Ed è l’Italia che voi, immagino, abbiate intravisto in Limoni-La Gardenia, visto che per dare vita a Llg vi siete spinti a investire su un business che vi ha portato a conquistare il 53,3% di market share nelle catene beauty e il 22,1% nel panorama nazionale della cosmesi. Come l’hanno presa i grandi marchi francesi, alcuni dei quali sono in qualche modo vostri competitor attraverso Sephora (catena di proprietà Lvmh, ndr)?

Essendo persone intelligenti, molto bene. Tanto da capire che quello che conta è la catena integrata per arrivare al consumatore, e se questa catena passa attraverso una rete distributiva che si chiama Limoni-La Gardenia, per loro non fa differenza, l’importante è come viene trattato il brand e i risultati. Il precedente format Limoni non aveva appeal per i grandi marchi del lusso, col nostro ingresso c’è stata una virata di 360 gradi che ha innalzato il posizionamento, anche attraverso il profondo restyling di 300 negozi, che insieme ai 170 La Gardenia formeranno una catena di altissimo livello: una grande opportunità per chi vuole promuovere il proprio brand e venderlo al meglio. Oggi siamo dei referenti imprescindibili.

Quello della distribuzione è un problema endemico dell’Italia. Secondo lei, cos’è mancato e manca per farne un vero comparto industriale a tutti i livelli e, in particolare, nel mondo del lusso?

La verità è che nel nostro Paese operano migliaia di aziende indipendenti che all’interno di Confommercio costituiscono una lobby straordinaria. Oggi per aprire un negozio bisogna ancora attraversare le forche caudine di decine di autorizzazioni, tra cui quella di una commissione locale, formata guarda caso da alcuni rappresentanti del commercio al dettaglio, che ovviamente non vedranno mai di buon occhio l’apertura del negozio di una catena che possa fare loro concorrenza. Per cui la trasformazione del commercio in Italia passa necessariamente per un ridimensionamento delle individualità, che non sempre è una cosa buona, e per un rafforzamento delle catene. E ciò in alcuni settori, seppur lentamente, sta già avvenendo. In più – e mi spiace che nessuno cavalchi mai questa battaglia – va aggiunto che i gruppi organizzati assicurano una maggiore attendibilità fiscale: pagano i dipendenti regolarmente, anche se precari, così come versano i contributi e le tasse. Mentre le centinaia di migliaia di esercizi commerciali individuali richiedono un controllo di gran lunga più complesso e difficile.

Ci sono poi tutte le valutazioni sullo svuotamento dei centri storici dei piccoli negozi a beneficio dei grandi centri commerciali.

La catena non è sinonimo di centro commerciale: noi abbiamo circa 500 negozi di cui 250 in centri storici, e nessuno pensa di spostarli. Il punto è che l’Italia non diventerà un Paese civilizzato sotto il profilo commerciale se non avrà tutte distribuzioni organizzate, che siano in centro storico o in centro commerciale. Pensi che ancora oggi ci sono negozi in cui non si accettano carte di credito o impongono per il loro utilizzo una maggiorazione del 10%, illegale tra l’altro. Quando l’Italia riuscirà a cambiare pelle da questo punto di vista, il commercio italiano diventerà un’industria e un’asse portante dello sviluppo anche dei marchi, delle catene, del business. Con un’esperienza d’acquisto – perché quando si parla di commercio, la parola chiave da cui non si può prescindere è l’esperienza – del consumatore positiva. Se non accelereremo questo processo, l’ecommerce potrà prendere molto più piede e fare del male al commercio tradizionale.

Ma l’ecommerce è un’opportunità o lo considera un competitor?

In un Paese organizzato, dal punto di vista distributivo è un grosso vantaggio e lo vedo complementare al retail. Da parte nostra, stiamo lavorando a un progetto della durata di almeno due anni che prevede una serie di servizi legati all’integrazione tra la parte elettronica e quella fisica del negozio: dal recapito a domicilio – il giorno successivo all’acquisto – di un prodotto non presente in store, fino all’acquisto in negozio di un regalo con consegna al destinatario (lo stiamo testando in questi giorni a Roma) in Italia e nel mondo con biglietto personalizzato. Stiamo lavorando a tutta una nuova serie di servizi.

LE PASSIONI DI ENRICO CECCATO

COSA FA PER DISTRARSI QUANDO NON RISTRUTTURA AZIENDE? Gioco a golf, adoro il golf, sono un vero fanatico!

È L’UNICO SPORT CHE PRATICA? Oggi sì, ma vengo da una storia sportiva in cui da ragazzo – tra i 18 e i 21 anni – ho fatto il giocatore professionista di tennis in giro per il mondo. Quell’esperienza mi ha lasciato una forte passione per lo sport agonistico. Il golf ha in più il grande vantaggio di permettere anche a un 50enne di fare le gare della domenica. La parte fisica è rilevante, ma fino a un certo punto. È anche un gioco di testa.

PRATICA SPESSO? Il weekend cerco di giocare il più possibile, in settimana mai. Durante i viaggi a volte mi ritaglio lo spazio per qualche giocata. È il posto in cui mi sento meglio in assoluto. Avendo poi una vita professionale e familiare (con tre figli) impegnativa, il campo di golf è l’unico posto in cui mi rilasso.

SUL GREEN LE TORNANO UTILI LE COMPETENZE STRATEGICHE ACQUISITE NELLA SUA VITA PROFESSIONALE? Certamente, non essendo dotato di un talento naturale, devo cercare di usare la strategia per portare a casa il risultato. D’altra parte dal golf s’impara anche che negli affari come nella vita non esistono i percorsi netti, e che anche i colpi meno riusciti a volte si possono recuperare.

Lei va per i negozi?

Sono appassionato di negozi. Quando ho iniziato la mia esperienza retail in Autogrill ho letto Dietro gli archi, un libro dedicato all’esperienza McDonald’s, una sorta di manuale del buon retailer moderno. Da qui e da quella mia prima fase lavorativa ho imparato la regola chiave: chi fa retailing ha nel negozio il suo centro nevralgico. Quand’ero in Autogrill ho depotenziato la sede centrale, che deve essere sì efficiente e organizzata per non essere percepita da chi sta sul campo come quella che “sta seduta a poltrire”, per investire e concentrarmi sui punti vendita.

Cosa deve avere un buon negozio per essere tale?

Location, location e ancora location, oltre a un posizionamento distintivo. Dopo di che uno staff eccellente in grado di gestire le attività marketing sul punto vendita, nonché le pratiche operative (burocratiche in primis). Soprattutto, deve saper accogliere il cliente offrendogli quello che cerca, in modo che una volta uscito dal negozio abbia voglia di tornare. Con 500 negozi e 3.500 dipendenti tutto questo si rivela un’attività affatto semplice.

C’è qualcosa che invidia a Sephora? E cosa pensa che loro potrebbero invidiare a voi?

A Sephora invidio diverse cose: l’essere nati con un progetto sano, un format ben concepito e un progetto globale, nonché l’avere alle spalle un gruppo come Lvmh. Mi piace, invece, immaginare che Sephora ci invidi un po’ un modello di business molto capillare, di prossimità, una conoscenza del cliente profonda, uno staff di grande qualità e i sette milioni di possessori della nostra card, dei quali conosciamo molto bene gusti e abitudini di consumo.

Qual è l’attuale stato di salute dell’industria cosmetica? A riguardo, ho letto sue dichiarazioni non sempre tenere.

Perché trovo che abbia ancora un’impostazione molto antica, fa fatica a modernizzarsi, vive della rendita di posizione costruita nei decenni passati e in virtù di una globalizzazione che permette ai marchi di crescere e svilupparsi in giro per il mondo, in Paesi dove ci sono ancora spazi vergini da conquistare. Altro che la competizione sfrenata che vige nel mass market o nella ristorazione! E pecca di una cultura molto tradizionale, destinata presto a fare il suo tempo, se non si integrerà con la distribuzione. Per quanto ci riguarda, siamo una catena tutto sommato unica, che condivide con l’industria il comune obiettivo di far vivere ai consumatori un’esperienza speciale nel mondo del beauty, offrendo prodotti prestigiosi e di alta qualità dove il prezzo e lo sconto non siano l’elemento principale su cui fondare le motivazioni d’acquisto, ma dove un servizio unico e l’ambiente coinvolgente facciano sentire al consumatore di appartenere al mondo di un lusso accessibile. Per raggiungere questo obiettivo comune, dovremo agire in forte integrazione, per evitare che politiche commerciali tattiche portino a svilire il prodotto che è ancora percepito come un lusso, ma rischia di finire nel mass market con evidenti contraddizioni tra l’immagine che vorrebbe proiettare attraverso campagne di comunicazione bellissime e lo sconto del 20-30% a pochi giorni dal lancio.

Dopo queste parole, mi riesce difficile farle la domanda successiva: cosa potrebbero mutuare dall’industria del beauty altri settori…

Dal punto di vista organizzativo e distributivo ben poco. Però il settore rimane avanzato nel marketing: sono riusciti, grazie a ingenti investimenti, a costruire dei grandi marchi e a comunicare efficacemente. Sotto questo punto di vista, gli altri settori avrebbero qualcosa da imparare.

Nel 2013 il mercato del beauty, in Italia, ha registrato una flessione del 3,5%. Vuol dire che la sua tradizionale anticiclicità appartiene ormai al passato?

Il dato va interpretato. Innanzitutto deriva dai dati Npd Group (società che rileva 1.500 punti vendita sui 3.000 attivi nel nostro Paese, ndr), che colgono soltanto una parte della distribuzione italiana del settore, perciò penso di poter dire che il beauty quest’anno sia rimasto stabile, anzi – se si considera tutta la distribuzione – forse ha fatto registrare anche un piccolo segno positivo. In secondo luogo, vanno conteggiate le farmacie che, offrendo un’ottima componente di skin care di medio prezzo, hanno “rubato” una fetta consistente alla profumeria. Quindi, in realtà il beauty non è calato, piuttosto sono state le profumerie ad aver registrato un segno meno e a dover correggere le proprie logiche competitive. Ma il cosiddetto Lip-stick index è ancora valido.

C’è chi dice che per la cosmesi il 2014 sarà l’anno della decisiva ripresa.

Non penso, in compenso ci manterremo su livelli stabili.

È vero che i consumatori italiani sono così evoluti che i brand internazionali, a volte, introducono nel nostro mercato dei prodotti da sperimentare perché se vanno bene nel Belpaese di solito funzionano anche altrove?

Sicuramente succedeva fino a ieri. In primis perché il mercato italiano è il secondo a livello europeo, dopo la Francia; se poi si considera che negli anni passati non c’erano mercati come il Brasile, eravamo sicuramente tra i primi a livello mondiale. Ecco perché l’Italia rappresentava un riferimento importante. In secondo luogo, quello italiano – soprattutto se del Nord – era considerato un consumatore evoluto, desideroso di sperimentare, così – trovandosi in una collocazione anche geograficamente centrale rispetto all’Europa – il suo giudizio era considerato indicativo di quello di un acquirente mediamente europeo. Forse oggi lo siamo un po’ meno, tuttavia quello tricolore resta comunque un mercato importante in cui fare esperienza.

Ho visto che i grandi brand globali, da L’Oréal a Estée Lauder, insistono sull’universalizzazione della produzione, cioè sull’esigenza di adeguare i prodotti alle varie mutazioni sociali e culturali dei territori in cui vengono distribuiti.

Si tratta di una tendenza già molto forte nel mass market, e a livello internazionale nello skin care registriamo grandi differenze di prodotto e tecnologia, in base alle etnie dei Paesi. Anche l’Italia sta cambiando pelle, quindi lo vedo come uno sviluppo interessante, tuttavia al momento non si registra alcuna attenzione in tal senso. Per noi della distribuzione sarebbe un’opportunità per differenziare l’offerta a fronte di un pubblico di consumatori sempre più segmentato.

Esistono anche altri target in “movimento”, come gli uomini e le donne mature. Le cosiddette “pantere grigie” per intenderci…

Il rapporto tra uomini e cosmesi è già partito, ed ha registrato certamente un crescendo negli ultimi sette-otto anni. L’assortimento di prodotti è migliorato e noi stessi abbiamo aperto un cantiere in tal senso. Le donne in età adulta poi rappresentano già un nostro forte target di riferimento, anche se si sta cercando di trovare un maggior equilibrio e attrarre all’interno dei negozi qualche giovane in più. D’altra parte basta vedere le campagne pubblicitarie dei marchi per accorgersi che le testimonial sono in media quarantenni e oltre. Alla fine l’Italia ha un alto tasso di disoccupazione giovanile e, in più, il Paese invecchia. Non tenere conto di chi può permettersi di acquistare realmente i nostri prodotti sarebbe una follia.

Ritiene che gli 80 euro in più che il premier Renzi vuole mettere ogni mese nelle buste paga di 10 milioni di italiani, possano aiutare a far crescere i consumi delle famiglie?

Possono aiutare, ma occorre puntare su una forte riduzione della pressione fiscale per i privati e le aziende, per creare più posti di lavoro anche grazie alla sburocratizzazione del sistema. Il fatto è che i quattro-cinque elementi su cui basare l’equazione giusta si conoscono tutti, il problema è trovare qualcuno disposto a metterli in atto scevro dall’esigenza di doversi far rieleggere da lì a qualche anno. Bisognerebbe copiare quanto fatto David Cameron in Inghilterra.

Da qualche parte ho letto che «la cosmesi ha molto a che fare con la cultura di un popolo, con risvolti psicologici e sociologici, perché si compone anche di sogni e di aspirazioni». Lei si sente anche un po’ sociologo, psico-ogo e sognatore?

No (ride). Da quando faccio principalmente il mestiere del ristrutturatore, anche se in precedenza lo fossi stato, ho smesso un po’ di fare il sognatore. Lo lascio fare ad altri: mentre l’amministratore delegato di Llg Fabio Pampani guida un team di sognatori, io sto sveglio e mi occupo di controllare che tutto funzioni, e di pensare al futuro.

Cioè a quando rivenderete Limoni e La Gardenia?

Anche. Prima o poi sarà inevitabile, d’altra parte è il nostro mestiere; ma certamente non prima del 2017-2018.

Credits Images:

Tre figli e una laurea in Economia all’Università degli Studi di Padova, nel 2006 Enrico Ceccato inizia a raccogliere insieme a Paolo Scarlatti il fondo Orlando Italy, attraverso il quale ha rilevato il 50% di Limoni e La Gardenia. Si definisce un “ristrutturatore” e vanta una lunga esperienza manageriale nel retail e consumer goods, in aziende come Autogrill, Sector Group, Perfume Holding, Allegri,Direct.it, Killer Loop e Fila Italia