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La sfida del made in Italy

Il tricolore è su ogni prodotto a marchio NeroGiardini perché Enrico Bracalente è convinto che sia una sua responsabilità valorizzare le produzioni locali, la sapienza delle maestranze italiane e impegnarsi nei confronti del territorio, e delle sue Marche in particolare

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A poco più di dieci anni dalla nascita della sua azienda, Bag, è arrivato a fatturare 185 milioni di euro e a crescere negli anni a un tasso medio del 35%, tanto che anche in tempo di crisi i risultati dei primi mesi del 2009 sono a due cifre. Enrico Bracalente, amministratore unico della società cui fanno capo i marchi NeroGiardini, Ng NeroGiardini e NeroGiardini Junior, non solo non si è fatto abbattere dalla crisi, ma è oggi più entusiasta che mai. Il suo segreto? È lo spesso abusato concetto di made in Italy che in questo caso diventa però una strategia virtuosa di valorizzazione delle produzioni locali, della sapienza delle maestranze italiane, di impegno nei confronti di un territorio, delle sue Marche in particolare, e delle persone che vi fanno parte. Tanto che ogni prodotto che esce da Bag è arricchito da una bandierina tricolore. E a chi pensa sia un eccesso di nazionalismo risponde che «non è un caso che il marchio made in Italy sia il terzo al mondo per notorietà dopo Coca-Cola e Visa. Solo noi italiani sembriamo sottovalutarlo».

Recentemente il Comitato di Eccellenza per la difesa del made in Italy si è fatto promotore di un disegno di legge di iniziativa popolare che prevede l’istituzione del marchio “100 per cento Italia”. Lei che è stato sempre uno strenuo difensore del made in Italy come pensa lo si possa tutelare?

Il made in Italy si può difendere e tutelare solo con la tracciabilità, come si è già fatto nell’alimentare. Ci sono anche tantissime aziende e marchi del lusso che del made in Italy che se ne fregano, perché preferiscono delocalizzare all’estero. Ma coloro che invece hanno scelto di rimanere a produrre in Italia devono organizzarsi e cercare di mettere in piedi un sistema, un’organizzazione che affermi la riconoscibilità e la tracciabilità.

Non ritiene necessari anche interventi di tipo legislativo?

Li chiediamo da tempo, ma le multinazionali non hanno interesse a che sia tutelato il made in Italy perché hanno delocalizzato tutta la produzione. Per questo motivo ho deciso di fare in modo autonomo e realizzare campagne pubblicitarie mirate alla sensibilizzazione del consumatore finale. Ho iniziato nel 2004 con una serie di lettere aperte e messaggi advertising che reclamizzavano il fatto che produciamo tutto in Italia, creiamo posti di lavoro, ricchezza e benessere per il nostro Paese. Ora sto riscuotendo i risultati di questa operazione.

Ma c’è ancora bisogno di sensibilizzare il consumatore italiano su questo tema?

È ancora più importante oggi perché oggi il consumatore finale è sempre più attento alla provenienza del prodotto. È il retail che ce lo chiede.

L’eccellenza nel design è uno dei punti forza della produzione calzaturiera italiana. Ma quali sono le caratteristiche fondamentali che fanno della scarpa italiana un prodotto immediatamente riconoscibile?

È l’alta specializzazione delle nostre maestranze che fa la differenza. Per fare una scarpa è necessario avere passione, perché al di là dello stile e dei materiali è la mano sapiente del tecnico che permette di ottenere un risultato unico. Gli italiani hanno qualcosa in più, chiamiamolo gusto o sensibilità alle cose belle. Non a caso il 52% dei beni culturali del mondo si trova in Italia.

Recentemente è stato ammesso il credito d’imposta delle spese per l’innovazione di prodotto e delle collezioni. È stata così assicurata pari dignità all’innovazione di prodotto rispetto a quelle di processo e tecnologiche. Che cosa significa per un’azienda che fa dell’innovazione di prodotto un elemento fondante della propria strategia?

Come sempre in Italia si fanno le leggi ma poi non si capisce come applicarle. I cavilli sono tanti e tali che alla fine è più semplice lasciare perdere e rinunciare a usufruire di eventuali benefici. Bisogna fare norme molto più snelle, chiare e indirizzate alle imprese. A questo scopo è necessario un maggiore dialogo con le associazioni di settore, uno strumento fondamentale per capire ciò di cui le aziende hanno bisogno.

Tra le battaglie che sono state combattute dal sistema calzaturiero italiano vi sono il sostegno al credito per le piccole e medie imprese e il rafforzamento degli ammortizzatori sociali. Quali altri interventi reputa necessari per supportare le imprese?

L’abolizione dell’Irap è fondamentale. Questa tassa penalizza le imprese che creano posti di lavoro. È un’assurdità perché non tiene conto del fatto che l’azienda sia in salute e guadagni o meno, ma va solo a ricadere sui contributi dei dipendenti. Inoltre è necessario realizzare interventi sul fronte dell’istruzione. Ho 52 anni e da ragazzo, una volta finita la terza media, era normale andare a imparare un mestiere nelle aziende. Magari non venivamo pagati ma imparavamo un mestiere. Oggi nel nostro settore e nella moda non ci sono istituti professionali che insegnino un lavoro alle nuove generazioni. Qualcosa è stato fatto a livello universitario, ma in un’azienda non ci possono essere solo laureati. Fino a dieci/quindici anni fa si diceva che l’Italia, le Marche in particolare, non avrebbe avuto futuro perché troppo legate alla produzione manifatturiera, ma se non si produce un bene la finanza che cosa vende? I servizi ci sono perché ci sono i beni. Certe volte bisognerebbe fare un passo indietro e partire dal basso, osservare più attentamente la realtà. La politica deve ascoltare di più le imprese e gli imprenditori e ciò di cui hanno necessità. Noi abbiamo bisogno anche di tecnici, non solo di laureati e spesso un bravo tecnico guadagna anche più di un laureato.

Le persone, infatti, svolgono un ruolo fondamentale nel processo prima creativo e poi produttivo.

Ho sempre sostenuto che la vera ricchezza di un’azienda sono le risorse umane che, anche nei momenti difficili, sono in grado di fare la differenza. Se nonostante al crisi riusciamo ad andare in controtendenza rispetto al mercato è merito della squadra che ho creato nel corso degli anni. E al fatto che continuiamo a investire nelle persone.

Come sceglie le persone che lavorano con lei?

Siamo molto attenti nell’effettuare la selezione. Ci affidiamo a una società esterna che effettua un primo vaglio e poi io e i miei collaboratori scegliamo in questo ambito i candidati più validi. Ci piace guardare le persone negli occhi. Cerchiamo individui leali e sinceri, che credano nel progetto aziendale, e ci facciamo carico della loro formazione. Puntiamo sui giovani – l’età media in azienda è di 35 anni – che non abbiamo preconcetti o vizi di mentalità, ma che siamo disponibili al confronto e ad abbracciare i valori sui cui si fonda la nostra società.

La sua società è nata nel 1998 e da allora ha continuato a crescere a tassi a doppia cifra. Quali sono le caratteristiche che ne hanno decretato il successo?

Sono tre fattori fondamentali: il prodotto perché nessun marchio è in grado di restare sul mercato se non offre un prodotto adeguato; il servizio al retail perché bisogna consegnare al punto vendita la merce al momento opportuno, affinché sia disponibile al momento della vendita, e riassortirlo in modo sistematico e puntuale; e infine la comunicazione che, come si dice, è “l’anima del commercio” ed è fondamentale per veicolare i consumatori all’interno del punto vendita.

Lei crede fortemente nel valore della comunicazione e in questi anni vi ha dedicato significative risorse. Può quantificare l’ammontare degli investimenti?

Ogni anno rappresentano circa il 6,5/6,7% del nostro fatturato, ma prevediamo di accrescere l’entità dell’investimento di qualche altro mezzo punto percentuale. Possiamo infatti contare su una solida struttura aziendale, di cui nel tempo abbiamo accresciuto la capitalizzazione e migliorato il rating Basilea 2. Questo ci offre ulteriori disponibilità finanziarie che, specialmente in un momento di crisi, ci consento di conquistare nuove quote di mercato. Qual è il momento migliore per investire in comunicazione se non questo? I consumi non crescono però ci sono maggiori spazi per chi è più bravo. La crisi porta a selezione e noi vogliamo uscirne più forti.

Quanto conta la capacità di visione e quanto la tempestività di reazione in una congiuntura economica come l’attuale?

In realtà i segnali di una crisi c’erano da tempo. Il professor Enrico Finzi, nell’ambito dei convegni dell’Anci, già tre anni fa anticipava che nel 2009 avremmo toccato il fondo. E io stesso nel novembre 2007 mi sono reso conto che qualcosa non andava. Noi lavoriamo per magazzino. Tra novembre e dicembre del 2006 avevamo effettuato circa 100 mila paia di riassortimenti, nello stesso periodo l’anno dopo solo 20 mila. Stava succedendo qualcosa, così ho iniziato a analizzare la situazione e cercare una soluzione. Abbiamo iniziato ad assumere persone, 150 tra casamadre e façonisti. In particolare abbiamo potenziato in modo significativo la struttura commerciale, inserendo oltre venti nuovi venditori e puntando sulla formazione. In passato avevamo infatti realizzato un’iniziativa analoga nell’ambito della produzione per elevare lo standard qualitativo. Da luglio 2008 a oggi, invece, ci siamo focalizzati sui venditori che così ne escono più motivati e riescono a smontare meglio le obiezioni dei nostri clienti che sicuramente in questo momento di crisi trovano tutte le scuse per non comprare, non tanto nelle calzature dove abbiamo una notorietà che ci avvantaggia, ma piuttosto nell’abbigliamento dove siamo ancora all’inizio.

In che modo la crisi ha impattato sui vostri piani di sviluppo e sulle previsioni di fatturato per il 2009?

Negli ultimi dieci anni siamo cresciuti con una media del 35%. Nel 2008 ci siamo attestati oltre il 21%, per precisione al 21,8% e prevediamo un segno positivo anche per il 2009, dato che nel primo trimestre abbiamo realizzato un incremento del 15,60%. Si tratta di numeri molto importanti, considerando che il nostro fatturato è stato pari a 185 milioni di euro nel 2008, per gestire i quali è necessario avere una struttura molto solida. Ancora una volta ritorna quindi l’importanza delle risorse umane e della loro continua formazione.

Recentemente avete lanciato la prima di linea di abbigliamento a marchio NeroGiardini. Contate di effettuare brand extension del marchio verso altre categorie merceologiche in futuro?

Vogliamo replicare il modello delle calzature. Così come realizziamo scarpe che si portano con comodità per tutto il giorno e si tolgono dai piedi solo per indossare le pantofole, allo stesso modo proponiamo un abbigliamento che sia adatto a ogni momento della giornata. Per esempio, nella stagione estiva, polo, T-shirt, jeans, maglioni per la sera e capispalla in tessuto tecnico leggerissimo. Nel corso del tempo poi svilupperemo ulteriormente l’offerta. Anche nelle calzature, infatti, siamo partiti con l’uomo e la donna è venuta solo in un secondo momento, dopo un iniziale tentennamento, ma abbiamo ripensato il prodotto e oggi le calzature femminili pesano per oltre il 50% sul nostro giro d’affari. E da tre anni abbiamo lanciato anche il bambino.

Tra gli obiettivi di Bag c’è aumentare la quota export sul giro d’affari. In che modo conta di ottenere questo risultato?

Un marchio può andare all’estero solo con un elevato standard di qualità dei prodotti, una forte immagine e un concept retail ben definito. Affinché possa definirsi internazionale è necessario che sia presente in almeno cinque/sei Paesi. Noi non puntiamo ad andare Oltreoceano, ma a espanderci nei territori limitrofi all’Italia e qui arrivare a realizzare, entro il 2015, dal 30 al 40% del nostro fatturato, crisi permettendo. In particolare, vogliamo replicare il modello implementato in Italia anche in Belgio, dove già siamo presenti da quattro anni e quest’anno abbiamo cominciato a fare comunicazione; in Spagna dove siamo presenti da due anni e abbiamo recentemente rivisto la rete di vendita e abbiamo messo a punto un programma mediatico per il 2010; in Francia dove siamo già da due stagioni e stiamo ottenendo buoni risultati. Abbiamo scelto questi Paesi perché possiamo approcciarli direttamente, con strutture commerciali che condividono i nostri valori e sono sottoposte ai nostri corsi di formazione e non tramite distributori.

Perché non andate nei Paesi emergenti?

Come imprenditore ho un impegno morale nei confronti della società, dei dipendenti. Ogni mese devo fare in modo che tutti percepiscano il loro stipendio. So che nei mercati emergenti i tassi di crescita sono molto elevati, ma il rischio lo è altrettanto. Se lo scorso anno fosse scoppiata una guerra tra Russia e Georgia che cosa ne sarebbe stato delle imprese che esportano in Russia? Per evitare simili rischi ho scelto di lavorare su mercati occidentali, dove le possibilità di crescita magari sono inferiori ma ho maggiori garanzie per questa azienda e tutte le persone che vi lavorano. È una sfida, ma i risultati ci stanno dando ragione.

LE PASSIONI DI BRACALENTE

LibroMi piace leggere le storie di successo degli imprenditori. L’ultimo è Toyota. Perché l’industria italiana non progredisce di Alberto Galgano

Programma Tv Documentari sulla natura e sugli animali

Vino Il Moro D’Alba di Ancona

FilmAlberto Sordi, Totò, film divertenti che mi rilassano

LuogoLa montagna

HobbyLo sci

Musica I Queen di Freddy Mercury

PiattoI vincisgrassi e il pollo arrosto

SquadraSono sempre stato tifoso juventino, ma dopo i recenti scandali mi sono allontanato dal mondo del calcio

Credits Images:

Enrico Bracalente, classe 1957, è sposato e ha due figli, è dal 1998 amministratore unico di Bag Spa, azienda con sede a Monte San Pietroangeli (Ap) cui fanno capo i brand NeroGiardini, Ng NeroGiardini e NeroGiardini Junior. A poco più di dieci anni dalla fondazione, Bag fattura 185 milioni di euro e continua a espandere il proprio giro d’affari con tassi di crescita a doppia cifra