Connettiti con noi

People

Giocare di testa, vincere di cuore

Il numero uno del golf mondiale Rory McIlroy ricorda il momento più difficile della sua carriera e come, da allora, ha imparato a gestire la pressione e le aspettative di pubblico e sponsor. Senza dimenticare i suoi primi passi sul green e i sacrifici dei genitori

architecture-alternativo

Sarebbe un po’ un’esagerazione dire che Rory McIlroy piangeva quando l’ho in­contrato il giorno dopo la sua vittoria al torneo di golf Wells Fargo Championship a Charlotte, North Carolina (Usa), ma certamente ci è andato vicino.

Ci siamo trovati in una modesta sala di un hotel a Soho, nel centro di Lon­dra. Il numero uno del golf mondiale indossava un cappellino da baseball della Nike e una maglia arancione, e sedeva impettito su una piccola sedia. Minuto e pieno di entusiasmo, è strano pensare che la sera prima era ne­gli Stati Uniti, impegnato a portare a casa una vittoria record – ha concluso il torneo 21 colpi sotto il par – e a incassare un assegno da 1,278 milioni di dollari (1,15 milioni di euro circa). Ha volato durante la notte, dormito per quattro ore sull’aereo, e affrontato un’intera giornata di impegni con i me­dia. Ma all’improvviso il suo volto da ragazzino inizia a rivelare la tensio­ne, i suoi occhi si inumidiscono, mentre lui cerca di controllare le emozioni che, alquanto inaspettatamente, sono salite in superficie.

La conversazione spazia ampiamente da un argomento all’altro. Parliamo della sua spettacolare implosione al Masters del 2011, quando ha sprecato un vantag­gio di quattro colpi nel giro finale in un momento cruciale della sua carriera an­cora agli inizi; della sua rivincita all’US Open poche settimane dopo, quando alla fine ha provato di avere la forza mentale per vin­cere uno dei più impor­tanti titoli di questo sport; e anche del contratto da 78 milioni di sterline (cir­ca 109 milioni di euro) che ha firmato nel 2013 con Nike e che, per un certo periodo, ha caricato sulle sue spalle un peso che ha «fatto fatica a gestire».

È persino contento di parlare della sua vita pri­vata dopo la fine della relazione con la star del tennis danese Caroline Wozniacki, nel mag­gio dello scorso anno, una rottura che ha dato vita a diversi titoli di giornali, anche in prima pagina. «Ho incontrato qualcuno», dice McI­lroy. «Lei non gioca a golf, ma lavora in que­sto mondo. Ci conosciamo da tre anni e siamo buoni amici. Se tutto va per il meglio fuori dal campo da golf, ti permette di essere al meglio anche sul green».

Una vittoria dopo l’altra

Ma è quando gli chiedo dei suoi genitori, Rosie e Gerry, e il ruolo che hanno avuto nella sua crescita come golfista e come persona che gli occhi di McIlroy – per la sua e la mia sorpre­sa – iniziano a riempirsi di lacrime. All’inizio è molto composto mentre racconta com’era cre­scere in una casetta a schiera a Holywood, nel­la contea di Co Down (in Irlanda), due stanze al piano terra, due a quello superiore, con un padre che lavorava come addetto alle pulizie e come barman e una madre che si offriva per turni di notte extra in fabbrica per finanziare la carriera golfistica del figlio. «I miei genitori lavoravano dannatamente tan­to», ricorda il 26enne, che ha iniziato a gioca­re regolarmente a golf all’età di due anni.

Suo padre era un ottimo golfista, ma al contrario del padre di Tiger Woods, che lo spingeva verso alte vette quasi prima che potesse camminare, Gerry McIlroy non aveva l’ambizione di indirizzare suo figlio verso il gioco professionistico, a meno che questo non fosse anche un suo desiderio.

«Ricordo sempre che mio padre aveva tre diversi lavori, per un totale di oltre 90 ore a settimana», racconta McIlroy. «Aveva liberi solo i mercoledì sera e le dome­niche pomeriggio e sono sicuro che gli sarebbe piaciuto starsene seduto in casa e riposare, ma io lo trascinavo sul campo da golf o al campo pratica. Per tutta la mia infanzia ha fatto ciò che desideravo io piuttosto che quanto avrebbe voluto fare lui. E lo stesso mia madre, che lavorava giorno e notte per aiutare a pagare i miei tornei quando avevo nove o dieci anni».

«A quell’età non ti rendi conto del peso del sacrificio. Pensavo fosse normale; è ciò cui ero abituato. A ripensarci adesso, mi rendo conto che era tutto tranne che normale. Lo stavano facendo per me, per aiutarmi a migliorare nel golf… Non erano affatto pressanti; volevano solo che migliorassi nel gioco che amavo. Non a caso hanno cercato di guidarmi verso altre attività, per regalarmi la possibilità di scegliere, e mi hanno sempre incoraggiato a concentrarmi sulla scuola».

McIlroy fa una pausa. Deglutisce. I suoi occhi si riempiono. Gli ci vogliono uno o due secondi per ricomporsi, poi sor­ride, quasi scusandosi, mentre lo fa. Fuori si possono sentire le troupe televisive prendere posizione. Filtrano sommesse conversazioni tra gli staff dei diversi me­dia che aspettano di entrare in azione. Ma nella calma di questa piccola stan­za, con il suo arredamento minimalista, McIlroy è contemplativo, come se fos­se impegnato in un viaggio alla scoperta di se stesso, riflettendo su ciò che vera­mente conta. Parla lentamente, quasi con calore, come se fosse impaziente di far­ti sapere che lui intende proprio ciò che dice, sedendo perfettamente immobile e mantenendo un costante contatto visivo che, se non fosse per il calore nella sua espressione, potrebbe risultare inquietante.

Troppo spesso, oggi, i genitori fungono da capri espiatori per ogni occasione, co­modi contenitori per le angosce e le nevrosi della loro prole. I figli incolpano i genitori di ogni male. Così la gratitudine di McIlroy nei confronti di sua madre e suo padre arriva quasi come una rivelazione.

Anche oggi i suoi genitori non cercano di vivere le loro vite attraverso quella del figlio superstar, ma solo di sostenerlo. «Trascorrono metà dell’anno in Irlanda e l’altra metà in America», dice. «Cerco di vederli spesso, ma non sarò mai in gra­do di fare per loro quello che hanno fatto per me. Non potrò mai ripagarli… Ma spero che sappiano quanto significhino per me. Non c’è nulla di più importante».

McIlroy è una delle stelle dello sport più redditizie del pianeta. Il golf è finito sot­to i riflettori per l’influenza di Tiger Woods ed è divenuto una gigantesca industria con proporzionati premi in denaro. Ha i suoi canali Tv, le sue riviste, il suo voca­bolario. Merchandising e attrezzatura sono un business di diversi miliardi di dol­lari. Stando a un report di Bloomberg, il golf genera 70 miliardi di dollari di fattu­rato (oltre 60 miliardi di euro) solo in America; la cifra equivalente per l’Europa è di 15,1 miliardi di euro, dice la Pga (Professional Golf Association, ndt). La com­petizione per raggiungere il vertice è feroce, con aspiranti giocatori provenien­ti non solo dai suoi tradizionali Paesi d’elezione, come Usa e Gran Bretagna, ma anche dall’Asia e dal Sud America.

Non c’è dubbio su chi sia alla guida. McIlroy non è solo il numero 1 al mon­do; è uno dei più grandi talenti che questo gioco abbia mai visto. È già sta­to confrontato non solo con i suoi avversari, ma anche con i giganti del passa­to, come Jack Nicklaus e Ben Hogan. Ha vinto tre Majors: l’Open Championship nel 2014, l’US Open nel 2011, e il Pga Championship per due volte, nel 2012 e nel 2014. Lo scorso anno, secondo Forbes, ha guadagnato 24,3 milioni di dolla­ri (circa 21,4 milioni di euro). Tiger Woods esercita ancora un’attrazione superio­re per sponsor del calibro delle multinazionali americane, e surclassa i guadagni del nordirlandese fuori dal campo, ma la confessione di Woods nel 2009 in me­rito alla sua serie di infedeltà e la conseguente flessione nel rendimento, in qual­che modo sembrano avergli tolto il vento dalle vele, almeno sul campo. McIlroy è diventato la grande speranza di questo sport; viene considerato colui che può portare il gioco in nuovi mercati. Se continua a vincere come ha fatto finora, po­trà diventare uno dei più grandi campioni dello sport.

Lo scorso anno ho seguito McIlroy durante l’Open a Holylake, nella contea in­glese di Merseyside, dove ha vinto in modo emozionante, i suoi colpi alla pal­la sono di qualità completamente differente rispetto a quelli dei suoi rivali. Quel­la piccola, compatta posizione che assume e la torsione che produce con la ro­tazione del suo corpo contribuiscono a creare un “ping” distintivo. Tuttavia non è solo questione di potenza e velocità, ma anche di tempismo. C’è una pulizia nel contatto, un senso di intimità tra l’artista e la sua arte. Come ha detto un com­mentatore: «Colpisce la palla in modo più puro di chiunque altro nel mondo del golf». Ho chiesto a McIlroy come ha mantenuto viva la sua motivazione nel cor­so di tutti questi anni di crescita e le centinaia di ore che ha macinato come pro­fessionista. Le ricompense sono enormi, ma ha mai desiderato un altro tipo di vita, un altro tipo di esistenza?

Sorride. «Ricordo che quando avevo 17 anni vinsi una competizione amatoriale abbastanza importante in Irlanda e papà mi stava riportando a casa. Per qualche ragione non sentivo nulla. Avevo vinto, ma non me ne rendevo conto. Ho detto a mio padre: “Non voglio più giocare”. Lui aveva un atteggiamento del tipo “Ok, va bene. Fai qualsiasi cosa desideri, io e tua madre ti sosterremo”. Non ho gioca­to per tre o quattro giorni, dopodiché morivo dalla voglia di tornare sul campo. Avevo solo bisogno di una pausa… Mi ha fatto capire che, anche quando ami fare qualcosa, ogni tanto devi fare un passo indietro».

Il più importante momento di svolta della sua carriera è arrivato il 10 aprile 2011, quando era sul punto di vincere il suo primo Major, conducendo il Masters ad Augusta (Georgia, Usa) alla nona buca dell’ultimo giro. Ma al tee della buca 10 ha fatto un “gancio” con il drive, e da lì ha proseguito verso la disfatta. Ha marca­to un triplo bogey, seguito da un bogey all’11esima buca, un doppio bogey alla 12 e un bogey alla 15.

Fu una tale umiliazione pubblica che molti commentatori si sono chiesti se si sa­rebbe mai ripreso. Su Twitter, Ian Poulter, suo compagno di squadra in Ryder Cup, postò un segnale da antinfortunistica: “First Aid for Choking” (letteralmente “Primo soccorso per soffocamento”, ndt).

Ma McIlroy era risoluto. «Tutto stava nel trasformare la delusione in motivazio­ne», spiega. «Ho pensato dentro di me “Quello che ho mostrato lì non ero io. Quello non è chi voglio essere. Io voglio essere un giocatore coraggioso. Voglio essere in grado di portare a casa la vittoria. Non voglio crollare sotto pressione”. E mi sono detto: “Non lascerò che accada ancora”. Sono tornato a casa e ho ana­lizzato quanto accaduto. Ho guardato il video del giro. Ho parlato con alcune persone… E ho realizzato che ero troppo concentrato. Pensavo a quel giro duran­te la notte, durante la mattina; non avevo nient’altro in mente. Pensavo a cosa po­teva andare bene, ma anche a quanto poteva andare storto. Ero troppo ansioso e carico. Non è il giusto stato mentale con cui scendere in campo».

Due mesi dopo ha avuto l’opportunità di mettere in campo una diversa strategia mentale, quando è arrivato all’ultima giornata dell’Us Open conducendo di otto colpi. Invece di agonizzare durante la notte pensando al giro finale, lui ha spen­to il cervello. «Quello che ho imparato all’Augusta, e cerco ora di mettere in pra­tica a ogni round, è liberare la mente dalla pressione. Anche tra un tiro e l’altro, ho impara­to a spegnere tutto. Parlo con il mio caddie del film che ho visto la sera prima, o di una partita di calcio. A volte dico a JP (JP Fitzgerald, il suo caddie, ndr), di par­larmi di un film, di una partita o di qualsiasi altra cosa che mi impedisca di con­centrarmi troppo».

«Solo quando mi avvicino alla palla riaccendo il cervello. Questo significa non avere abbastanza tempo per concentrarsi su ciò che potrebbe andare storto, per i pensieri negativi, o perché i dubbi striscino nella tua mente. Tutto quello che hai tempo di fare è esaminare il colpo che hai di fronte, prendere la mazza dalla sac­ca e visualizzare quanto andrai a fare. Sono una persona molto “visiva”: mi creo un’immagine del volo della palla, vedendo nella mia mente cosa andrà a fare. E poi l’ultima mossa è colpirla».

Mentre parla, realizzo che straordinario giovane uomo sia. Un po’ mi aspettavo di rimanere deluso da McIlroy. Molti grandi sportivi tendono al narcisismo. Forse è un’inevitabile conseguenza dell’essere coccolati da un folto entourage. Dimostra­no apertamente la loro noia durante le interviste e possono essere difficili da entu­siasmare. Nel caso di McIlroy, tutto quello che vedo è un giovane che adora i suoi genitori, che è gentile con quanti lo circondano e che affronta il suo sport con la professionalità e la capacità di risollevarsi che sono tipiche dei grandi atleti.

Bisogna anche ammirare la sua ambizione. Ha cominciato a giocare molto gio­vane e all’età di due anni già faceva colpi da 40 yard (35,6 m, ndt) con la maz­za di plastica acquistata dal padre. A nove anni, è apparso sulla Tv nordirlandese mentre imbucava palline nella lavatrice di sua madre, e vinceva tornei negli Sta­ti Uniti. Oggi è ancora spinto dal desiderio potente di diventare il miglior giocato­re. La sua etica del lavoro non ha mai vacillato. «Sento che questo è il momento di lasciare la mia impronta in questo gioco», dice.

Nella prima parte del 2013, McIlroy affrontò l’unico altro serio tentennamento della sua carriera. Aveva firmato un contratto con la Nike del valore di 78 milioni di sterline in cinque anni. Ven­ne organizzata una spettacolare presentazione al Fairmont Bab Al Bahr hotel di Abu Dhabi. La sua forma crollò quasi immediatamente. «Nessuno sponsor di quel calibro ave­va mai riposto aspettative su di me», spiega McIlroy. «Era il primo contratto importante che firmavo. Ci fu un sacco di battage pubblicitario e di attenzione ed era qualcosa che io non avevo mai davvero sperimentato prima. Ave­vo vinto grandi tornei, ma avevo sempre giocato con le stesse mazze dall’età di 15 anni. Poi ci fu questo grande evento ad Abu Dhabi e devo ammettere che sentii su di me una pressione incredibile. Attraversai un periodo du­rante il quale non riuscivo proprio a dare il meglio sul campo. Forse stavo cercando troppo disperatamente di provare che questo contratto non avrebbe fatto la dif­ferenza nel mio gioco. Avevo solo bisogno di ricomin­ciare da capo, di guardare indietro per andare avanti. Mentalmente stavo ponendo un sacco di pressione su me stesso e questo non è mai una cosa buona… È il momento in cui le cose possono iniziare ad andare storte». Era un’altra lezione sull’importanza della mente nello sport più psicologicamente delicato di tutti.

Oggi McIlroy vive a Palm Beach, in Florida, e dopo la diffici­le rottura con la Wozniacki ha trovato un nuovo amore. Il suo nome è Erica Stoll, una 29enne che lavora per la Pga. «Sono molto felice della mia vita sentimentale», dice; «non abbiamo ancora reso la relazione veramente pubblica. Lei è americana, ecco perché mi piace passare molto tempo a Palm Beach… Gli ultimi sei o sette mesi sono stati davvero belli. Quell’aspetto della mia vita sta andando alla grande».

«Sono un “animale domestico”. Tornerò sempre in Irlanda e adoro rivedere i vec­chi amici. Non mi piace frequentare gli eventi da red carpet o uscire con le cele­brity. Non fa per me. Preferisco di gran lunga stare a casa con gli amici e la fami­glia, persone che mi conoscono davvero, che sanno chi sono… Questo non vuol dire che in pubblico sia una persona diversa rispetto al privato. Ho cinque o sei amici di Holywood che mi conoscono sin da quando ero ragazzino. Alcuni erano con me al torneo la scorsa settimana. Sono molto importanti per me. È più facile rilassarsi ed essere se stessi con le persone che ti conoscono da tanto tempo».

Durante una giornata di impegni pubblici e mediatici, compresa un’apparizione a un evento al NikeTown megastore in Oxford Street (a Londra, ndt), McIlroy ri­mane affabile e padrone di sé. Uno dei partecipanti è un bambino di otto anni di nome Sean, che ha scoperto il golf l’anno scorso durante l’Irish Open, quando ha seguito il campione durante il giro finale, e che gli viene ripresentato sul palco. Niente suona falso o forzato.

Mentre la nostra intervista volge al termine, torniamo ai suoi genitori. È noto che McIlroy scoppiò a piangere al Masters 2011 durante una telefonata con sua ma­dre. «Diciamo che rimasi come colpito», ricorda. «Quando senti o vedi piangere qualcuno che ami, suscita quella stessa emozione anche in te». L’unica altra oc­casione in cui andò vicino alle lacrime a causa del golf fu in circostanze molto diverse. All’Open Championship 2014, dedicò la vittoria a sua madre, che lo ab­bracciò sul green finale. Era la prima volta che lei assisteva al giro decisivo di un Major. «Stava piangendo a dirotto e quasi scoppiai in lacrime anch’io», dice. «Fu un momento speciale».

*(Intervista da The Times Magazine/The Interview People, traduzione di C. Lulli e F. Perugini

Credits Images:
Rory McIlroy è nato il 4 maggio 1989 in Irlanda del Nord, a Holywood, un sobborgo di Belfast che conta appena 12 mila abitanti, ma che vanta ben due campi da golf: l’Holywood GC e il Royal Belfast GC. La prima vittoria ufficiale da Amateur risale al 1998, quando a nove anni si aggiudicò il torneo World Under 10 Championship. Nel 2002 e nel 2003 ha poi trionfato all’Ulster Boy Under 15 Championship. Nel suo palmares giovanile altri tre tornei nel 2004 (partecipò e vinse pure la Junior Ryder Cup con il Team Europa) e il primo posto all’Irish Amateur Close Championship nel 2005 e nel 2006. Anno, quest’ultimo, in cui si è aggiudicato anche la vittoria al Faldo Junior Series Under 17 e all’European Amateur Individual Championship. Nel settembre 2007 il grande salto nel mondo dei professionisti