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Gerhard Schröder, tedesco ma non troppo

Votato per la sua immagine sorridente, l’ex cancelliere non ebbe paura di mettere in atto misure radicali per risollevare la Germania dalla crisi. Con effetti straordinari di cui il Paese beneficia ancora oggi

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Negli ultimi tempi l’immagine di Gerhard Schröder, cancelliere della Germania dal 1998 al 2005, e da allora privato cittadino, sembra essersi un po’ offuscata. La notizia che quest’anno lo ha riportato sulle prime pagine dei giornali tedeschi risale allo scorso 29 aprile. E racconta del sontuoso party per il suo settantesimo compleanno, celebrato al palazzo dei principi Yussupov di San Pietroburgo, in compagnia di Vladimir Putin. Con tanto di foto, sorrisi e abbracci calorosi: in piena crisi ucraina. Non contento, negli ultimi mesi, l’ex cancelliere si è ripetutamente speso a favore della Russia e contro le sanzioni dell’Unione europea, guadagnandosi gli strali di Angela Merkel e di gran parte dell’opinione pubblica tedesca. Il motivo della sua controversa presa di posizione? «Non l’amicizia con il presidente russo», ha detto Schröder, «né il fatto che io abbia adottato due bimbi russi. Il mio rapporto col Paese e la sua gente ha motivi storici. Noi tedeschi siamo stati responsabili della morte di 25 milioni di uomini in quella che allora era l’Urss. La riconciliazione con la Russia è un miracolo. È un bene prezioso che non dovremmo mettere a rischio ». Però c’è chi sospetta che c’entri qualcosa anche il fatto che Schröder oggi sia presidente del consorzio Nord Stream, il quale gestisce i gasdotti che collegano la costa sovietica a quella tedesca passando per il Mar Baltico, ed è controllato per il 51% dal colosso russo Gazprom.

Alle critiche, anche feroci, va detto che Schröder è abituato da sempre. Ma non se n’è mai curato troppo e ha costantemente tirato dritto per la sua strada. Se non lo avesse fatto, fronteggiando con decisione le proteste di piazza e la durissima opposizione di una parte del suo stesso partito, non sarebbe riuscito a trasformare la Germania da «grande malato», come la definì l’Economist nel 1999, a “locomotiva d’Europa”, com’è ormai da molti anni. Nato in Bassa Sassonia nel 1944, cresciuto in povertà con la madre vedova (il padre che non ha mai conosciuto è morto durante la Seconda guerra mondiale), Schröder è il classico uomo che si è fatto da sé. Frequentando scuole serali e laureandosi in giurisprudenza all’Università di Göttingen, mentre faceva i lavori più disparati e lasciava il segno nell’organizzazione giovanile della Spd, il partito socialdemocratico tedesco, fino a diventarne segretario. Da giovane, e non poteva essere altrimenti, era marxista e ambientalista. Ma nel corso degli anni ha sviluppato un gusto per gli abiti su misura e i maglioni di cashmere. Nonché un certo narcisismo: nel 2002, per esempio, provò a usare tutto il suo potere per cercare di fermare un’agenzia di stampa che lo accusava di essersi tinto i capelli. In corsa per le elezioni politiche del 1998 c’erano tre leader socialdemocratici che si contendevano la candidatura del partito per il cancellierato: Oskar Lafontaine, Rudolf Scharping e, naturalmente, Schröder. Che fu scelto perché i sondaggi dicevano che gli elettori erano affascinati dalla sua sbruffoneria e dal suo ampio sorriso. Lo stesso che probabilmente ne ha fatto un tombeur de femmes, giunto ormai al quarto matrimonio, l’ultimo nel 1997, con Doris Köpf, più giovane di lui di 19 anni. Fatto sta che Schröder quelle elezioni le vinse, mettendo fine al lunghissimo governo di Helmut Kohl. Le vinse promettendo più posti di lavoro e la fine alla miseria economica. Nel 1998, infatti, la Germania versava in pessime condizioni. Si era dissanguata per finanziare l’unificazione del Paese dopo il crollo del Muro di Berlino e del comunismo, spendendo in dieci anni una cifra pari a 1.500 miliardi di euro. Deficit e debito pubblico erano esplosi, il tasso di disoccupazione era dell’11%, la crescita economica vicino a zero.

Il lato oscuro del benessere teutonico

Schröder non riuscì a mantenere le promesse: la crisi che colpì tutta l’Europa durante il suo primo mandato non glielo permise. E quando la Germania tornò a votare, nel 2002, la disoccupazione era ancora al 10%. I tedeschi, però, gli concessero un’altra chance, forse grazie anche alla sua ferma opposizione nei confronti dell’intervento a guida Usa in Iraq.E quando nel 2003 l’economia tedesca tornò ufficialmente in recessione, Schröder decise che non c’era più tempo da perdere. Occorrevano misure radicali. E lui non ebbe paura di adottarle. «Tutte le forze della società dovranno dare il loro contributo: aziende e dipendenti, lavoratori autonomi e pensionati, a nessuno sarà consentito di sottrarsi», disse in uno storico discorso al Bundestag. «Perché o ci modernizziamo da soli, e con questo intendo come sistema socio-economico, o altri lo faranno per noi, e con questo intendo incontrollate forze del mercato che semplicemente si limiteranno a spazzare il campo da qualunque considerazione per le parti sociali». E così varò l’Agenda 2010, un ambizioso piano di riforme del welfare, del fisco e del mercato del lavoro. Innanzitutto, intervenne sui sussidi di disoccupazione, che erano diventati un fardello insostenibile per lo Stato. La durata dell’assegno di disoccupazione fu ridotta da 32 a 12 mesi, e la sua consistenza (che si aggirava intorno al 60% dell’ultimo stipendio) fu progressivamente abbassata, fino a coincidere con quella dell’assegno sociale, poco più di 300 euro. Non solo: l’ufficio federale del lavoro venne trasformato in una sorta di agenzia di collocamento, con il potere di interrompere il sussidio a chi si rifiutava di accettare i lavori proposti. Tutto questo, naturalmente, da solo non poteva bastare. Bisognava riuscire ad aumentare anche il numero degli occupati. La soluzione fu rendere più flessibile il mercato del lavoro, ammorbidendo il kuendigungschutz, l’equivalente tedesco dell’articolo 18, e meno oneroso il costo del lavoro, abbassando il peso fiscale e i salari minimi. Parallelamente Schröder diede una bella sforbiciata alla spesa sanitaria, introducendo regole molto più stringenti per la copertura, ma abbassò anche le tasse di oltre 20 miliardi di euro, portando l’aliquota massima dal 48,5 al 42% e quella minima dal 19,9 al 15%. Gli effetti delle riforme furono straordinari per la Germania. E disastrosi per Schröder. Il Pil tornò a crescere e si posero le basi per quello che in molti hanno definito «il secondo miracolo economico tedesco» dopo quello del Dopoguerra. Tanto che oggi, 11 anni dopo il varo dell’Agenda 2010, il paese guidato da Angela Merkel può vantare tassi di crescita e di produttività tra i più alti in Europa e un livello di disoccupazione del 5%, con quella giovanile all’8%: un miraggio per tutti gli altri Stati dell’Unione europea (in Italia, giusto per la cronaca, la disoccupazione supera il 13% e quella giovanile è abbondantemente oltre il 40%). A Schröder, invece, non andò altrettanto bene: l’Agenda 2010 ottenne il sostegno dei principali partiti conservatori tedeschi, ma incontrò la durissima opposizione dei sindacati e dell’ala sinistra della Spd, guidata da Oskar Lafontaine, che attaccò la riforma come «scandalosa» e «immorale». Da lì in poi Schröder perse tutte le elezioni regionali, finché dopo la sconfitta nel 2005 nel Nord Reno-Westfalia, il più popoloso e ricco land del Paese, che la Spd guidava ininterrottamente da 39 anni, decise di giocarsi il tutto per tutto e scelse la via delle elezioni politiche anticipate. Perse anche quelle. Schröder non poté godersi da cancelliere un successo di cui ha tutto il diritto di rivendicare la paternità. E certo non lo consolarono le parole di chi lo aveva sconfitto, Angela Merkel, che nel suo primo discorso al Parlamento dopo la vittoria: «Vorrei ringraziare il cancelliere Schröder di persona, per aver coraggiosamente e risolutamente aperto una porta con l’Agenda 2010, in modo che il nostro sistema sociale possa adattarsi a una nuova era». La stessa nuova era alla quale, secondo la Germania, dovrebbero finalmente adattarsi anche gli altri Paesi dell’Unione europea. Italia in primis.

Credits Images:

Gerhard Schröder © Thomas Trutschel/ Photothek via Getty Images