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Export specialist in affitto
Molte aziende del made in Italy, vendere all’estero è l’opzione migliore per rimanere a galla. Ma attuare una strategia efficace non è una banalità per le pmi tricolori. Per questo è nata Co.Mark, come racconta il suo numero uno Massimo Lentsch
L’export come salvagente del made in Italy ormai è un dato assodato. Ma un conto è parlarne e un conto è andare all’estero a vendere con successo. Siamo sommersi da dati e numeri relativi all’apprezzamento internazionale dell’universo tricolore, ma spesso si dà per scontato che le imprese siano in grado di portare oltreconfine, per vie quasi naturali, i propri prodotti e servizi senza alcun ulteriore sforzo. Non è così. Studiare un’efficace strategia di internazionalizzazione e attuarla è tutt’altro che banale. Soprattutto per le pmi, piccole e medie aziende di stampo prevalentemente famigliare dalle risorse ridotte. «La gran parte delle pmi infatti, il 70% circa, non esporta o lo fa, ma con modalità del tutto disorganizzate e insoddisfacenti», sostiene con Business People Massimo Lentsch, numero uno di Co.Mark, impresa che, da 16 anni, porta all’estero le aziende italiane, qualunque sia la tipologia merceologica prodotta, dalla Germania all’Angola. Un’impresa che per ora non cede alle lusinghe dei fondi di investimento visto che, nonostante l’interesse più volte manifestato da terzi a entrare nel capitale, continua a restare saldamente in mano alla famiglia Lentsch (il 70% è in capo all’imprenditore, il 30% alla moglie Stefania Frattolillo) che l’ha fondata a Bergamo nel 1998. E, in effetti, il ritmo di crescita non è esattamente banale. Nel giro di cinque anni Co.Mark è passata dai 5,3 milioni di euro di fatturato del 2009 agli attuali 15, con un obiettivo “prudenziale” al 2019 di 20 milioni. Una realtà, quindi, da tenere sotto stretta osservazione.
Da dove nasce l’idea di dare vita a un gruppo che affitta export manager? Co.Mark è nata come studio di consulenza professionale nel campo dei servizi di temporary management per la ricerca di clienti e la creazione di reti commerciali all’estero, in seguito alle mie esperienze personali come export manager, da cui è emerso che per gestire al meglio un percorso di internazionalizzazione occorre una specializzazione a 360 gradi ma non necessariamente una presenza fisica continua in azienda; soprattutto per quanto riguarda le pmi.
Chi è il vostro cliente tipo? Ci rivolgiamo prevalentemente alle pmi manifatturiere. Il nostro cliente tipo ha un giro d’affari che oscilla da uno a 15 milioni di euro ed è prevalentemente del Centro Nord. Spesso, infatti, una tipica pmi italiana, magari di stampo famigliare, non ha né la mentalità né i mezzi da destinare in modo continuo a una figura così specializzata. Ma per far crescere l’export non è necessario essere presenti in azienda tutta la settimana, l’importante è saper utilizzare, al momento giusto, le leve più adeguate ai mercati di riferimento. Non escludiamo poi di intervenire, in realtà più grandi e articolate, come pungolo e sostegno della divisione commerciale export.
Quanti sono vostri clienti? Al momento seguiamo 530 imprese, per 100 Export Specialist (marchio registrato dal gruppo), in decisa crescita rispetto alle 480 di un anno fa. Il lavoro non manca, anzi…
Su quali elementi si basa, a suo giudizio, il riscontro ottenuto finora da Co.Mark? Gestiamo l’export di pmi, nient’altro. E lo facciamo con un taglio orientato al risultato in termini di vendite. Per qualsiasi altra problematica che dovesse emergere nel rapporto con il cliente, da quelle gestionali a quelle relative ai finanziamenti, possiamo suggerire consulenti appropriati, nulla più. Siamo quindi in grado di offrire un elevato livello di specializzazione negli export manager in affitto alle pmi, bravi strateghi e abilissimi venditori in grado di negoziare in più lingue al di là dell’inglese (il tedesco è molto richiesto e sono in ascesa cinese e arabo). E, oltre al fattore umano, nel corso degli anni abbiamo costruito piattaforme e database di supporto con numeri aggiornatissimi e analisi di mercato. Software in grado di calcolare lo stato di salute di un eventuale partner commerciale, banche dati capaci di trovare contatti in tutto il mondo e algoritmi in grado di indicare il migliore mercato per l’export per ogni singolo cliente.
Cosa vi distingue rispetto alle tradizionali divisioni commerciali?Il nostro punto di forza è l’atteggiamento di veri e propri cacciatori di clienti e di occasioni commerciali. Abbiamo un approccio concreto al risultato, una dote non così comune. Siamo dei piranha rispetto a molte divisioni commerciali che si adagiano sullo status quo, spesso vere e proprie balene. Con l’azienda sigliamo un rapporto win win: più vende all’estero, più guadagniamo noi. E tutti gli interlocutori hanno interesse a che ciò avvenga, compreso l’export specialist artefice del successo al quale viene girata una percentuale del fatturato aggiuntivo.
Vista la vostra esperienza sul campo, quali sono gli errori da evitare quando si decide di sperimentare il proprio business fuori dal territorio italiano?Alla base di un flop all’estero c’è quasi sempre una mentalità inappropriata, la mancanza di predisposizione e di spirito di adattamento alle esigenze dei compratori esteri, mentre occorrerebbe che l’imprenditore fosse più orientato al mercato e non al prodotto. Tutto questo si traduce nell’assenza di prodotti interessanti, convenienti in base al rapporto di qualità e prezzo e tecnologicamente adeguati e nella indisponibilità a investire tempo e soldi necessari a coprire in maniera soddisfacente un mercato estero. Troppo spesso i nostri imprenditori pretendono risultati immediati, mentre per gestire al meglio la conquista di un’area oltreconfine occorrono almeno due o tre anni.
È proprio il caso di dire quindi, che soprattutto nei piani d’internazionalizzazione, la fretta è una pessima consigliera?Assolutamente. La commercializzazione di un prodotto all’estero è un processo articolato e delicato. Occorre scegliere con giudizio i mercati di approdo, analizzare la concorrenza, individuare i migliori canali di distribuzione presenti e dedicare tempo non solo al dove, ma anche al come si esporta.
Al di là dei semplici numeri, come si fa a capire se l’export in un determinato Paese è gestito in modo ottimale? Sono tre i punti a cui fare attenzione: occorre che tutti i prodotti realizzati siano esportati, che siano utilizzati tutti i canali di distribuzione commercialmente adottabili e che la distribuzione sia gestita al meglio. Ma spesso gli imprenditori si accontentano di molto meno, non volendo investire risorse e tempo per ottenere un simile risultato. Ed è per questo che, alla lunga, si incorre negli insuccessi.
Cosa occorre invece per avere successo? Prima di tutto una mentalità aperta all’innovazione. Internazionalizzazione significa in primis sapersi predisporre al confronto con i competitor internazionali e accogliere una simile opportunità come occasione sul fronte del miglioramento delle proprio linee di prodotto. Anche tecnologico. Un prodotto tecnologicamente avanzato o un articolo innovativo portano a nuovi acquirenti e a margini adeguati.
Può suggerire una strategia vincente, passo dopo passo, per centrare l’obiettivo, indipendentemente dal settore merceologico di appartenenza dell’impresa?Sono cinque le principali regole cui attenersi. Prima di tutto è necessario procedere a un’adeguata organizzazione intorno a sé. È più facile, in effetti, vendere un prodotto già conosciuto nel Paese di provenienza che non completamente anonimo, come dimostra l’accoglienza del lusso made in Italy ai quattro angoli del pianeta. In secondo luogo è bene evitare di farsi bombardare dalle notizie sui Paesi emergenti. Non sempre, e non a tutti, questi ultimi offrono le migliori soluzioni di export. Meglio quindi iniziare a guardare i Paesi a noi più vicini e affini, come la Svizzera per esempio, che, oltre alla contiguità territoriale, offre un terreno dove misurarsi con tre culture diverse e trovare agganci in Francia, Germania e Austria, Paesi in cui proseguire con il processo di internazionalizzazione. Quarto, è bene sfruttare il mercato estero nel modo più intenso possibile. Infine, l’approccio all’estero deve essere utilizzato per crescere anche da un punto di vista culturale e tecnologico. L’occasione può portare nuovi spunti da utilizzare per rafforzarsi in casa e fuori.
Co.Mark è presente all’estero?Per ora no e nel medio termine non ne ho intenzione. Come spiego sempre ai miei clienti, innanzitutto bisogna coltivare bene il proprio orticello attorno a casa, avere successo in Italia prima di andare all’estero. E per Co.Mark ritengo che ci siano ancora ampi spazi di crescita pur restando in territorio nazionale. L’azienda, in effetti, ha recentemente dato il via, con Co.Mark Network, a una serie di accordi di franchising con partner locali su base territoriale per accelerare il processo di crescita. In questo modo il gruppo ha raggiunto Liguria, Toscana, Lazio, Abruzzo e Molise. La prossima tappa è il Sud.
Credits Images:Massimo Lentsch