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Da Stato presente a Stato invadente
Quale futuro per un Paese che non tiene alla famiglia, soggetto economico prima ancora che sociale, e non investe sulla formazione? Nessuno, secondo Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà che chiede «politiche selettive in funzione dei risultati» e un ritorno alla centralità dell’io
In un momento di crisi economica e politica, il Paese si interroga sul futuro delle istituzioni e quanto dovrebbero fare (e non fare). L’annosa questione dell’intervento pubblico in campo economico si ripresenta così più attuale che mai, tra chi invoca forme di sostegno statale e chi lamenta lungaggini e sprechi di risorse già scarse. Una questione che dall’ideologia sconfina in campo etico oltre che pratico. Business People ha voluto parlarne con Giorgio Vittadini, attuale presidente della Fondazione per la sussidiarietà e docente di Statistica all’Università Bicocca di Milano.
Che differenza c’è tra uno Stato presente e uno Stato invadente e incapace? Guardiamo a ciò che è successo nel contesto italiano: lo Stato come protagonista diretto dei servizi ai cittadini si è dimostrato sempre più inefficiente, incapace di suscitare responsabilità personale e sociale, fonte di clientelismo e iniquità. Senza puntare sull’iniziativa di ogni persona, di ogni “io” – singolo e al lavoro nelle formazioni sociali – non può generarsi sviluppo. Per questo la nostra Fondazione pone così grande enfasi sul tema della sussidiarietà, perché riteniamo che non ci sia altra strada per uno sviluppo duraturo se non la valorizzazione delle iniziative nate “dal basso”. Se il nostro apparato statale vuole finalmente diventare efficiente deve imparare a cambiare funzione, passando da gestore a regolatore, e deve essere innanzitutto teso a liberare e valorizzare le grandi energie nascoste nella società. Uno Stato non invadente, ma capace è anche quello che crea le condizioni perché gli imprenditori facciano il loro lavoro, stabilendo regole certe, ma soprattutto sensibilizzando le persone verso la propria libertà e responsabilità, mettendo al primo posto l’educazione e la formazione del capitale umano. Oggi siamo alla fine dell’era moderna, che non ha dato vera cittadinanza al soggetto, impregnata com’è del liberismo e dello statalismo, che hanno incarnato la destra e la sinistra.
Del liberismo è naufragata soprattutto l’idea che il mercato sia in grado di autoregolarsi, quasi come la natura…L’attuale crisi finanziaria ne è l’esempio più clamoroso. La gente non aveva soldi, le sono stati forniti anche senza garanzie e con artifici finanziari si è stabilito che si potesse azzerare il rischio di una mancata restituzione. Si è pensato che i meccanismi del mercato fossero in grado di creare e poi di mantenere inalterato il livello dello sviluppo. Ma la realtà si era ribellata già nel 1929 e lo ha fatto ancora nel 2008.
Quando e perché lo Stato da noi si è trasformato da padre in padrone? La mutazione è avvenuta in due fasi. Innanzitutto quando i cattolici – a partire dal 1952, anno in cui De Gasperi fu “fatto fuori” dai fanfaniani – hanno pensato che un progetto politico “buono” poteva realizzarsi mettendo il più possibile tutto nelle mani dello Stato. Per cui, invece di perseguire la libertà di educazione, nel rispetto del pluralismo sociale, hanno creato la scuola di Stato; invece di incentivare l’iniziativa imprenditoriale, almeno dopo gli anni ‘60 hanno preferito l’impresa a partecipazione statale, che è degenerata in impresa clientelare e senza concorrenza; invece di favorire il sistema bancario hanno occupato le banche e via dicendo. C’è stata una degenerazione clientelare che ha alle spalle, dunque, anche una ragione ideologica. Ma non possiamo dimenticare anche un secondo passaggio: negli anni ‘80, in un’Italia che non aveva risolto i suoi problemi, e che tuttavia godeva ancora dei frutti di un’economia in crescita, è stata aumentata la spesa pubblica facendo passare da 60 a 120 il rapporto deficit/Pil. Si è pensato che aumentando guardie forestali, postini, dipendenti della scuola e della pubblica amministrazione si potesse risolvere il problema sociale italiano. Da allora subiamo il peso di una pubblica amministrazione elefantiaca e di una spesa corrente abnorme, tutti problemi che hanno quindi un’origine politica, come del resto ha un’origine politica anche la crisi finanziaria.
Cos’è mancato, visto che anche negli ultimi vent’anni la spesa pubblica è aumentata addirittura del 60%…Da noi è successo che destra e sinistra sono diventate simili. Il berlusconismo è la dimostrazione dell’assoluta incapacità di creare un centrodestra moderno in stile Merkel o Aznar; in Italia negli ultimi vent’anni la destra non ha avuto nessuna cultura di governo veramente liberale, eccetto che in Lombardia. È stata un coacervo di interessi dietro uno slogan e a un “leader di immagine”. In questo non c’è stata differenza tra Berlusconi e i governi del centrosinistra alla Prodi. Oggi si fanno proclami su Imu e dintorni ma dal punto di vista sostanziale non si toccano gli interessi della scuola pubblica o della pubblica amministrazione. Dal ’94 in poi, anche sotto governi di destra, è stata riproposta la stessa politica economica e la stessa politica della scuola e dell’università della sinistra. La questione Imu è marginale in una rivoluzione liberale, la cui chiave di volta è piuttosto nell’investimento in capitale umano e in educazione.
Questo succede perché la politica ha smarrito il senso dello Stato oppure perché manca l’identificazione con qualcosa di più “alto”?Il problema è che non emerge alcuna posizione culturale in grado di stare all’altezza delle sfide della modernità. L’economista Enrico Moretti nel suo ultimo libro La nuova geografia del lavoro (Mondadori) documenta in modo approfondito che i punti di sviluppo nel mondo sono quelli dove esiste un investimento in capitale umano. E, quindi, in educazione e istruzione. La politica dovrebbe avere più a cuore che ogni cittadino non viva nella società allo stato brado, ma sia messo nelle condizioni di accrescere le sue capacità di generare conoscenza, imprenditoria e sviluppo, ricchezza, reddito. Il fatto è che per tanto tempo in economia e in politica è sparita l’idea della centralità del soggetto, come se ci fossero dinamiche umane che possono procedere meccanicamente, come se un’impresa potesse nascere senza un imprenditore. Tutte le scienze sociali andrebbero rifondate sull’idea che è la singola persona a essere protagonista della società e dell’economia.
Tornando alla spesa pubblica: tutti dicono di volerla tagliare ma nessuno ci si applica. È per mantenere il consenso?Certamente per questo motivo, e probabilmente anche per paura di fare della “macelleria sociale”. Ma ripeto: nel medio-lungo periodo la politica di redistribuzione della ricchezza coinciderà con la politica dell’istruzione. Non solo giovanile. Penso anche alla necessità di destinare risorse al long life learning, il ritorno in università per chi lavora, la formazione professionale. Bisogna moltiplicare gli strumenti per vivere e lavorare in un mondo globalizzato. Per questo bisognerà realizzare un sistema competitivo tale per cui chi è in grado di formare con successo, gestendo responsabilmente le risorse, abbia assicurate le risorse finanziarie per operare meglio.
Senza dimenticarsi di intervenire sugli eccessi…Certamente si deve intervenire sulla spesa corrente, razionalizzare le risorse, evitare gli sprechi e smetterla di moltiplicare iniziative inefficaci che hanno il solo scopo di creare occupazione fittizia. E poi, pensando al mercato del lavoro, non ci si può limitare alla cassa integrazione in deroga, bisogna mettere in atto anche una politica attiva nel lavoro. Lo stesso vale per il modo in cui viene di solito trattato il non profit, al quale non si devono dare certamente “aiuti di Stato”; si possono invece sostenere quegli ambiti che con la loro attività fanno risparmiare lo Stato in termini di welfare. Invece, i liberisti della Comunità europea trattano l’assistenza ai disabili e il mercato dell’acciaio allo stesso modo.
Lei ha spesso parlato di defiscalizzazione per combattere l’evasione fiscale.Certo, ma solo per quelle imprese che creano occupazione, esportano e investono. La defiscalizzazione deve avere un approccio premiante unicamente nei confronti di chi risolve problemi sociali, non verso chiunque, altrimenti diventa puro assistenzialismo. Io sono per le politiche selettive in funzione dei risultati.
Poi, però, sorge il problema di dover controllare e verificare questi risultati.Dai dati di bilancio si vede chi esporta, crea occupazione e investe. Il problema è invece che non si deve incorrere nell’idea di generalizzare l’intervento. La spesa pubblica deve avere un ritorno. Non si può incentivare un’impresa senza un credibile piano industriale, come si è fatto con Alitalia per cinque anni, quando si sapeva benissimo che quei fondi sarebbero andati presto perduti.
Quindi, la piccola e media impresa italiana che non esporta non andrebbe aiutata?Quello che si può fare per le aziende destinate a chiudere è lavorare per riallocare i loro lavoratori, non aiutarle a vivacchiare, perché avrebbero comunque una data di scadenza.Ci sono però eccellenze tutte italiane nate sulle piccole e medie imprese…Ovviamente non mi riferisco alle eccellenze. Il modello tedesco, per esempio, non è basato sulla multinazionale ma sulla media impresa, che però ha un certo tipo di sostegno dallo Stato. Per dare un’idea: qualche anno fa a trattare per un investimento sul mercato del lavoro in India l’Italia mandò l’ambasciatore, per la Germania invece andò Kohl, allora primo ministro. C’è una bella differenza. Da questo punto di vista, tanto di cappello a Enrico Letta che, nel suo piccolo, sta facendo proprio questo. Ma bisogna farlo per quel made in Italy che ha possibilità di sviluppo.
Lo Stato può, pertanto, offrire un sostegno in Italia per permettere alle aziende di respirare e crescere all’estero?È una questione molto interessante. La Francia, per esempio, ha fatto una politica incentrata sulle famiglie per favorire i consumi interni. In Italia bisogna fare la stessa cosa: se si sostenessero i consumi interni si aiuterebbero le imprese a vivere non solo di esportazioni. I dati presentati da Luigi Campiglio, docente di Politica economica alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica, alla 47esima Settimana Sociale dei Cattolici, su questo fronte sono impressionanti: tagliando i fondi a sostegno delle famiglie si sono uccisi i consumi interni. La famiglia in Italia è solo spunto di contrapposizioni ideologiche tra cattolici e laici.
In che senso?Si discute della famiglia dal punto di vista degli ideali e dei valori e ci si dimentica che essa è anche un soggetto economico: sostenere le famiglie fa aumentare la natalità e quindi le persone in fascia di lavoro rispetto ai pensionati; significa investire in capitale umano e anche sul welfare. I dati di Campiglio dicono che negli ultimi anni alle famiglie italiane sono stati sottratti 8 miliardi di euro. Visto che la famiglia è la leva dello sviluppo interno vuol dire aver tolto fondi su questo fronte, che anzi andrebbe sostenuto. Non bisogna sostenere la famiglia solo per ragioni ideali, ma anche perché serve all’economia del Paese.
Tutto questo andrebbe fatto contemporaneamente, ma con l’attuale situazione politica com’è possibile?Per quanto mi riguarda sono per la durata delle grandi intese, perché questi interventi si possono fare solo con il sostegno del 70% del Parlamento. In Germania i due partiti avversari di fronte alla crisi si sono alleati per superarla. Nel 1946 da noi l’amnistia per i reati fascisti l’ha fatta Palmiro Togliatti, l’ultimo da cui ci si aspettava qualcosa del genere. E lo ha fatto perché aveva un’idea di pacificazione e sviluppo.
Lei ha più volte ribadito che bisogna costruire un’Europa dello sviluppo e della solidarietà in cui siano determinanti la sussidiarietà verticale e orizzontale. Da dove partire?Sono in atto trasformazioni globali e risposte locali innovative delle quali ci si rende poco conto, e tutto questo avviene in un naturale superamento delle dimensioni nazionali. Bisogna aver chiare le opportunità che offre l’Europa, come la libera circolazione del lavoro, che il grande pubblico ha scoperto con la sentenza Bosman dei calciatori e che oggi molti giovani italiani stanno sfruttando per andare all’estero a lavorare e avere un futuro, in un momento di crisi. Poi la moneta unica che, con tutti i suoi difetti, ci ha comunque dato più respiro. E ancora, la ricerca comune e la libera circolazione delle merci. Il problema è inserirsi in questo sviluppo senza distruggere le singole identità locali, che devono essere il riferimento ultimo di ogni politica, secondo il principio di sussidiarietà. Per quanto mi riguarda, tutte le politiche populiste anti-europee sono lontane dalla realtà.
In questi ultimi anni non è un po’ cambiatolo stesso modo di intendere il termine “sussidiarietà”?Sussidiarietà continua a essere una parola fondamentale perché, come dimostra la nostra storia, non c’è sviluppo diffuso e duraturo che non nasca dal basso, dall’iniziativa delle persone singole e nelle aggregazioni sociali. Ma la sussidiarietà senza tensione al bene comune si chiama “intrallazzo” o corporativismo, che è poi quello che abbiamo in Italia: una serie di soggetti che difendono se stessi e il proprio interesse particolare. La sussidiarietà non può essere semplicemente la difesa dei singoli contro lo Stato, ma la difesa di tutti gli strumenti che sostengono l’iniziativa personale e sociale, cosa che rientra tra i compiti dello Stato.
La situazione che stiamo vivendo ci ha fatto imparare qualcosa?Io sono convinto di una cosa che ha detto don Luigi Giussani: le cose negative non sono necessariamente educative. Il dolore di per sé incattivisce, ma può costringerci anche a riflettere, a scoprire valori personali. Io non sono né ottimista né pessimista, il problema è se questa crisi ci fa andare alle radici per scoprire di più chi siamo e quali passi fare per andare avanti.
La società non può cercare, unita, di trovare una ragione di questa crisi?La società può trovarla se ognuno fa un percorso nel proprio io. La società unita non esiste, è un’astrazione. È come dire: la crisi permette alle imprese di cambiare? Ad alcune sì, ad altre no. Dipende se si ha la forza di rimettere in discussione l’impresa e se stessi, se ci si lamenta e basta o invece si ha la forza di attaccarsi a tutto ciò che mette in campo valori positivi.
Credits Images:Giorgio Vittadini, professore ordinario di Statistica metodologica all’Università degli Studi Milano Bicocca e direttore scientifico del Consorzio interuniversitario Scuola per l’alta formazione Nova Universitas, ha costituito la Fondazione per la sussidiarietà nel 2002. In precedenza ha fondato e presieduto fino al 2003 la Compagnia delle Opere, associazione di imprese ispirata alla dotttrina sociale della Chiesa