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Blue Gene cambierà il mondo
Sta per arrivare in Italia il supercomputer che consentirà di sviluppare biotecnologie e nanotecnologie in cui il nostro Paese ha grandi opportunità. Il futuro prossimo venturo secondo Andrea Pontremoli, numero uno di IBM Italia, che parla di innovazione, politica economica, strategie, formazione manageriale
Lei da tempo, come manager IBM e membro di giunta di Confindustria, sostiene che l’innovazione – anzi l’innovazione permanente – è l’unica arma per affrontare la competizione globale. In che misura i tre principali tipi di innovazione (di prodotto, di processo e organizzativo-manageriale) si possono applicare alla realtà italiana?È necessario fare una distinzione tra invenzione e innovazione. Se la prima è il frutto del lavoro di un singolo o di un piccolo gruppo, la seconda è un fenomeno sociale che diventa tale quando un nuovo prodotto o servizio è a disposizione di tutti. E qui emerge un paradosso tutto italiano. La capacità di adottare nuove tecnologie è fortissima a livello di singoli – forse siamo l’unico Paese al mondo che ha più telefonini che abitanti, il digitale terrestre sta crescendo in modo esponenziale, ciascuno di noi ha quattro o cinque e-mail – ma quando si parla di aziende balza agli occhi un certo analfabetismo: sopravvivono ancora il fax e la carta da lettera, strumenti di comunicazione di tre generazioni fa. Il fenomeno è interessante. L’innovazione ha un problema: come diffondersi, come fare adottare elementi che le sono propri. Dei tre tipi citati forse il più importante è l’innovazione di management, cioè l’intervento sull’organizzazione e la gestione dell’azienda. Nel passato si lavorava essenzialmente sull’efficienza, soffocando qualsiasi novità e riconducendola su binari prestabiliti. Oggi non importa di quanta tecnologia dispongo – e lo dico contro il mio interesse – ma come la utilizzo per abilitare nuovi modelli di business. Il problema è quindi essenzialmente culturale, di formazione manageriale.
Normalmente l’innovazione viene sviluppata soprattutto dalle grandi aziende. Ma l’Italia è fatta per il 90% di imprese medie e piccole. Come possono partecipare a questo processo?Sicuramente nella grande impresa la ricerca è facilmente misurabile mentre in quella di piccola e media dimensione la mancanza di budget dedicati ne impedisce la classificazione. È quindi un errore volerla misurare secondo modelli tipicamente americani e giapponesi. Molte di queste aziende hanno già fatto dell’innovazione il cavallo di battaglia, solo che non risulta codificata. E guarda caso sono proprio quelle che stanno avendo successo nel mondo, al vertice nei rispettivi settori.
Forse la piccola dimensione favorisce le innovazioni di processo piuttosto che di prodotto?Un’azienda innovativa come e-Bay non ha innovato il processo o il prodotto ma il modello di business, perché è riuscita a intermediare i bisogni di chi vuole vendere e di chi desidera comprare. È quindi sbagliato pensare che non ci sia innovazione a livello di Pmi. Ripeto: è principalmente una questione di formazione e di cultura, due fattori da cui può nascere un circolo virtuoso di consapevolezza. Leggevo recentemente che la vittoria ai mondiali di calcio potrebbe incidere positivamente sul Pil. Bene, sono convinto che ci sia un fondo di verità perché l’innovazione, dal momento che si tratta di un fenomeno sociale, ha bisogno di entusiasmo, di gruppi di persone che si aggregano per fare qualcosa di nuovo con un obiettivo comune. Ripetendo “non ce la faremo mai” o “abbiamo perso tutti i treni” commettiamo solo un errore: nella storia non abbiamo mai sperimentato una velocità del mondo come quella di oggi. E siccome la globalizzazione è un dato di fatto, sta a noi manifestare la capacità di crescere. La piccola e media impresa, proprio perché contenuta dimensionalmente, ha bisogno di concentrarsi sulla nicchia. Ad aiutarla ci saranno i sistemi informatici che permettono di aggregarsi ad altri in modo che la specializzazione diventi il valore aggiunto di una catena molto più estesa e più adatta al contesto attuale.
Se dobbiamo mantenere in Italia i prodotti e servizi ad alto valore aggiunto e delocalizzare quelli a basso prezzo (e ad alta intensità di manodopera), come potremo compensare l’impatto negativo di questa scelta in termini di posti di lavoro? Abbiamo vissuto lo stesso fenomeno nel passaggio dall’agricoltura all’industria. In passato servivano milioni di contadini per arare i campi, poi il passaggio all’era industriale ha determinato un grande salto in termini di produzione e produttività. E oggi stiamo passando a una terza fase, quella dei servizi. È su questo cambio epocale che si gioca la politica industriale del Paese. I cambiamenti non avvengono in un giorno, ma devono essere indirizzati molto velocemente. Ecco perché dobbiamo decidere che cosa fare del nostro Paese immaginando come vorremmo che fosse tra dieci anni. Ma dobbiamo farlo ora. Studiando l’evoluzione dei servizi attraverso la comparazione di sei paesi – Usa, Giappone, Germania, Cina, India e Russia – dall’anno 1800 ad oggi, IBM ha verificato che il vantaggio competitivo degli Stati Uniti risiede proprio nell’avere anticipato la fase di passaggio dal tangibile all’intangibile. Nel 2014, secondo il Dipartimento di Stato americano, 4 persone su 5 risulteranno occupate proprio nell’ambito dei servizi. Un bel punto di forza per la loro economia.
Ma in Italia la percentuale di addetti all’industria è ancora superiore a quella degli addetti ai servizi.Sì, però si sta riposizionando molto più velocemente di quello che pensiamo. A dispetto del nome, metà delle aziende associate a Confindustria appartengono ai servizi. La stessa IBM ne costituisce un esempio. Una corretta politica industriale permette di costruire gli elementi che abilitano il percorso, prevenendo per tempo i disagi sociali che inevitabilmente un processo del genere comporta.
Sempre in tema di innovazione, perché in Italia si brevetta così poco?È colpa solo del sistema pubblico di ricerca, o anche le aziende private hanno le loro responsabilità?Se prova a far mente locale sugli aspetti burocratici capirà i motivi. Depositarli come prevede la normativa significa affrontare un processo complicato, tanto più estenuante quanto più elevato è il numero di paesi in cui si cerca protezione. Già, perché in questo caso l’inglese non funziona da lingua universale. Di qui il dispendio di tempo e denaro che certo scoraggia la piccola impresa che, va ricordato, da noi è in numero dieci volte superiore a quello tedesco e francese.
Ma anche l’università brevetta poco…Questo è un discorso di modello. La nostra università è sostanzialmente autoreferenziale, poco aperta all’impresa. Se, ad esempio, facciamo un confronto con gli atenei americani, ci accorgiamo che il finanziamento è per metà assicurato dalle imprese che lavorano con loro. Ecco, IBM si sta adoperando per portare questo tipo di cultura all’interno del mondo universitario italiano. I brevetti nascono da un processo semplice, poco costoso e da un know how che sia codificabile con un metodo univoco. Le università devono fare da elemento aggregante.
A proposito del rapporto università-azienda. Cosa serve effettivamente per risolvere le carenze del sistema formativo italiano e metterlo in effettiva connessione con quello delle imprese?È dovere di una grande azienda entrare nel merito della questione. In Italia esiste uno squilibrio tra domanda del mercato e offerta dal mondo della formazione, un gap di skills professionali che frena lo sviluppo. Perché il numero di iscritti alle facoltà scientifiche rimane così basso rispetto a quelle di tipo umanistico? Perché cinesi e indiani preparano al lavoro, ogni anno, centinaia di migliaia di ingegneri e noi no? È qui che attendiamo risposte. Una formazione più efficace, finalmente su base meritocratica, sarà di grande aiuto allo sviluppo di quelle aree e di quei progetti in cui il nostro Paese vuole essere leader. Negli Usa, intorno al sogno kennediano di Apollo 11, si aggregò l’intero paese: uno sforzo che, in poco meno di un decennio, produsse 185 mila nuovi brevetti di cui le aziende beneficiano ancora oggi. Ecco, stabiliamo in che aree il Paese possa fare la differenza, fissiamo gli obiettivi e convogliamo su di essi le risorse, umane e finanziarie. Il risultato non tarderà.
Quali sono queste aree? Una ricerca IBM prevede che in tutto il mondo, in un solo quinquennio, 100 milioni di posti di lavoro nel mondo si origineranno da quattro aree: biotecnologie e scienze della vita, nanotecnologie, banda larga, energie alternative come le celle a idrogeno.
E qual è la situazione dell’Italia in queste aree?Nelle biotecnologie e nanotecnologie siamo molto avanti. L’importante, ancora una volta, è riuscire a fare sistema e darci un obiettivo comune invece di avere tante piccole realtà tra loro disaggregate. Prendiamo le biotecnologie: in Italia, vedi la Lombardia, così come la Toscana e la Puglia, abbiamo cervelli di prim’ordine ma quasi privi di strumenti. IBM Italia si è data l’obiettivo di portare a Milano un Blue Gene, il supercomputer più potente del mondo che permetterebbe di fare ricerca avanzata sulla genomica e sulla proteomica. Disporne in Italia aiuterebbe anche ad attirare know how.
Perché non siete ancora riusciti a portare il supercomputer? Ci stiamo lavorando da due anni. Ma sono ottimista perché non mi mancano entusiasmo e idee chiare. Sul progetto, IBM Italia ha già investito più di un milione di dollari creando il primo front-end. Ora siamo pronti a investire altri due milioni di dollari a patto che il pubblico faccia la sua parte. Non possiamo certo pensare di farcela da soli.
Chi è il vostro interlocutore?In questo momento il Governo. Abbiamo partecipato al bando per i progetti innovativi e la commissione ha dato parere favorevole. Poi ci sono la Regione Lombardia e il San Raffaele di Milano, più altri istituti che si stanno aggregando. L’obiettivo finale è un centro dotato di un supercomputer, in network con le università italiane attraverso la tecnologia grid.
Quando è possibile far partire Blue Gene?Possiamo riuscirci entro la fine dell’anno. Tenete conto che la collaborazione è già avviata: al San Raffaele è già installata la parte di front-end grazie a cui i ricercatori sono al lavoro e nel contempo alcuni di loro sono “in stage” presso il nostro laboratorio di Zurigo, in cui lavora uno dei 5 premi Nobel di IBM. La figura del bioinformatico è cruciale per tradurre in equazioni la ricerca compiuta dal biologo, in modo che sia comprensibile dal computer. Di queste figure oggi c’è carenza. E la medicina molecolare, quella che condurrà alla medicina personalizzata, ha bisogno di loro.
Ci sono altri Blue Gene in giro per il mondo?Naturalmente sì, sia negli Usa sia in Europa ma vengono utilizzati per ricerche sulla fisica dei materiali, sulla meteorologia e l’astrofisica. Un Blue Gene in Italia sarebbe il primo a livello continentale nell’ambito delle biotecnologie e delle nanotecnologie e ci rafforzerebbe nel posizionamento. Teniamo presente che il nostro Innovation Lab di Bari già lavora su un progetto di ricerca che permetterà la tracciabilità dei prodotti attraverso il loro Dna codificato e di un semplice tester. Senza possibilità d’errore. Il focus di IBM sulla genetica per la diagnostica in ambito sanitario e in quella dell’agro-alimentare è poi testimoniato dalla recente costituzione, proprio nel capoluogo pugliese, del Laboratorio Pubblico-Privato di Bioinformatica per la Biodiversità Molecolare, che tra i partner ha il Cnr e importanti Ospedali nazionali.
Relativamente alla formazione manageriale, come spiega il declino delle grandi scuole d’impresa (tra le quali Fiat, Eni, Olivetti ecc.) sostituite da un’offerta pubblica e privata frammentata e di qualità spesso non adeguata?La visione mi sembra troppo pessimistica perché comunque i grandi manager di oggi provengono proprio da quelle scuole. Il vero problema, per tutti – anche per le grandi corporation come IBM – è semmai il futuro. Le nuove competenze di cui si ha bisogno impongono agli attori della formazione d’impresa di abbandonare l’autoreferenzialità, di collaborare, di scambiare pareri e opinioni in merito a know how e metodologie. In ballo c’è il futuro di manager chiamati ad affrontare l’incertezza a livello globale.
E cosa pensa della formazione manageriale su base umanistica?Stiamo insistendo sulla preparazione delle persone destinate ad affrontare un mondo che si va spostando sui servizi: qui è importante anche una formazione di umanistica. Il nostro responsabile del Software Tivoli Lab di Roma è un filosofo. Come ricercatore, la sua competenza è un giusto mix per affrontare situazioni, problemi e opportunità spesso impreviste.
Cos’è la Scienza dei servizi di cui IBM sta parlando da qualche tempo?
50 anni fa IBM lanciò la Computer Science, cioè l’informatica, nelle università americane. La stessa cosa sta avvenendo per Scienza dei Servizi, la nuova disciplina che farà da volano per lo sviluppo prossimo venturo dell’economia mondiale. L’anno scorso è diventata corso di laurea a Berkeley, alla North Carolina e a quella del Texas. L’Italia, su cui IBM ha investito, è già prima in Europa perché due atenei del nostro Paese – Pavia e Bocconi con lo Sda, tra i tanti con cui collaboriamo – partiranno con analoghe iniziative. Qui partiamo in vantaggio.
Qual è il contributo di IBM alla ricerca in Italia?In Italia abbiamo importanti laboratori, tutti collegati con Università e focalizzati sull’innovazione: oltre 650 persone tra i centri di Roma, Bari, Napoli, Catania e Cagliari. Il loro impegno è focalizzato sulle frontiere più avanzate. Della biotecnologia abbiamo già parlato: le altre sono i modelli matematici applicati, il multimediale, il wireless e la mobilità. Roma, per esempio, lavora su un prodotto legato alla gestione dei sistemi complessi che vendiamo in tutto il mondo. Ecco, la semplificazione della complessità diventa un valore aggiunto enorme. Si è calcolato che nel mondo, lo scorso anno, sono stati prodotti più transistor che chicchi di riso, a un costo minore. Tornando alle imprese spaziali, Apollo 11 era dotato di 5 computer IBM serie 1, un modello di cui abbiamo venduto 1,3 milioni di pezzi. La sua potenza era un decimo di quella del suo telefonino. E lei il cellulare lo usa solo per parlare e mandare messaggi.
Altro nodo critico del sistema Italia è la pubblica amministrazione. Cosa manca – e quanto manca – per raggiungere l’obiettivo di una p.a. all’altezza delle richieste degli utenti, privati e imprese che siano?La pubblica amministrazione ha fatto passi da gigante il che renderà più efficiente il sistema Paese. Aumentando infatti la sua produttività e riducendo i costi alla collettività fa da motore allo sviluppo del mercato perché detta le condizioni alle quali si deve lavorare. Pensiamo alla dichiarazione dei redditi per via telematica: realizzata in soli otto mesi ha costretto tutti i commercialisti a dotarsi di strumenti informatici e creare un sistema che comunica in tempo reale. Un altro passaggio rivoluzionario sarà la firma digitale di cui è stato definito l’impianto. Ne attendiamo l’introduzione.
All’ultimo meeting di Rimini lei ha parlato sul tema “Impresa e persona”. Non crede che sull’argomento si faccia troppa retorica?Thomas J. Watson, fondatore dell’IBM, sosteneva che la nostra è un’azienda straordinaria perché fatta da persone straordinarie. Ricordiamocelo: in un’impresa, un’organizzazione, un sistema Paese sono le persone a fare la differenza. Con il loro intelletto, la capacità di emozionarsi, la creatività. La motivazione incide molto più di ogni strumento informatico.
Ma come si traduce in concreto?Noi lavoriamo molto sullo sviluppo della persona attraverso uno strumento meritocratico che chiamiamo PBC, Personal Business Commitment. All’inizio dell’anno, ogni collaboratore indica i propri obiettivi quali-quantitativi e le modalità per raggiungerli. Indica cioè la strada lungo cui crescere che viene condivisa e seguita dal suo manager. Da noi la persona è l’elemento chiave del sistema impresa a qualsiasi livello.
Venendo nello specifico a IBM, lo scorso anno ha attraversato una grave crisi, che ha comportato la riduzione di 13.000 posti di lavoro, in gran parte in Europa, di cui circa mille in Italia. Da cosa nasceva questa crisi e come l’avete superata o la state superando?Abbiamo tenuto conto del modello di business verso cui ci stiamo riposizionando. Per questo avevamo bisogno di abbassare il nostro centro di gravità verso i clienti per essere più vicini alle loro esigenze, aiutandoli a capire come usare la tecnologia. Ciò ha comportato uno spostamento di deleghe ai singoli paesi e la riorganizzazione della struttura europea, troppo numerosa. IBM Italia ha oggi più potere di quanto non ne avesse prima. È vero, per l’occasione la nostra forza lavoro perse circa 1.000 unità – senza ricorrere al licenziamento – ma nei primi sei mesi del 2006, 250 nuove assunzioni hanno portato in azienda competenze diverse. Oggi abbiamo più ricercatori e più persone che si interfacciano con i clienti e questo ci permette di rispondere meglio alle esigenze di mercato.
La cessione dei Pc a Lenovo ha sancito definitivamente la trasformazione di Ibm da azienda produttrice e venditrice di hardware in azienda che offre servizi. Che impatti ha avuto su strategia e organizzazione una rivoluzione radicale di questa portata?Siamo un’azienda che lavora sull’innovazione. Innovazione vuol dire servizi e consulenza, brand, ricerca e prodotti che altri non hanno . I Pc sono stati inventati dalla IBM e, come tanti altri prodotti, sono diventati commodity perdendo il differenziale di innovazione rispetto ad altri. Ecco perché li abbiamo ceduti, concentrando il nostro modello di business su altri settori. Prenda l’entertainment: Nintendo, Microsoft, Sony Playstation usano microprocessori IBM. Una delle più grandi novità di Playstation, il prodotto disponibile dal prossimo 10 novembre, sta nell’adozione di Cell, il chip più avanzato oggi disponibile. Un prodotto basato su un’architettura di sistema, cioè su diversi computer che fanno attività in parallelo. Le velocità consentite sono fantascentifiche.
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