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Angelo Inglese: quando la sartoria è hi tech
Passione, qualità e legame con il territorio fanno della piccola realtà di Angelo Inglese un simbolo del made in Italy globale, apprezzato dai più grandi della Terra e invidiato dalle griffe della moda. Che oggi ricorre anche alla realtà aumentata…
Ha vestito Donald Trump nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca e ha cucito la camicia indossata dal principe William durante il Royal Wedding dell’erede al trono britannico. Non a caso Angelo Inglese è il sarto più famoso del mondo, pur continuando a produrre i suoi vestiti «da un milione di dollari» in quel di Ginosa (Ta), proprio lì dove sua nonna – nel 1955 – ha avviato l’attività di famiglia. Se poi vi domandate come fa una piccola impresa di appena 20 dipendenti, situata in un borgo vicino a Taranto e Matera, a vestire principi e presidenti, Angelo vi risponderà candidamente: «Grazie a passione, qualità e un pizzico di fortuna».
Ma non è certo una strada in discesa quella che ha portato al successo l’azienda Inglese. Anzi, è un percorso costellato da mille ostacoli, primo tra tutti quello che si presenta negli anni ‘70, quando in Puglia si affacciano le prime grandi attività industriali, che rischiano di affossare le piccole realtà locali. «I giovani preferivano cercare lavoro nelle grandi industrie e noi rimanemmo ben presto senza apprendisti, così i miei zii decisero di trasformare la sartoria in una rivendita di tessuti», racconta il sarto. «Circa vent’anni fa, però, ho deciso di prendere in mano l’azienda e scelto di ripartire dalle origini, quelle di famiglia e ancora prima quelle del nostro territorio». Ed è così che gli Inglese studiano e riscoprono il ricamo, l’uso dell’uncinetto, i passaggi a mano della nonna, i materiali locali e ne fanno il loro marchio di fabbrica: «Tra le nostre caratteristiche primeggia la qualità del prodotto e la volontà di essere fedeli alla tradizione, tenendo però sempre anche una finestra aperta sul mondo. Credo che il nostro brand abbia così successo perché dietro c’è una filosofia chiara e curiosa, ovvero quella di creare prodotti di alta sartoria in un luogo ben lontano dai classici canoni della moda e questa filosofia si rispecchia in ogni nostra creazione: abbiamo anche creato un profumo con le erbe del nostro territorio».
È il Giappone il luogo in cui il seme degli Inglese attecchisce sin da subito, grazie anche a un testimonial d’eccezione, il premier nipponico Yukio Hatoyama: «Lì c’è una sensibilità diversa rispetto a quella europea», spiega, «molto più attenta ai dettagli». Ma per essere consacrati come veri e propri protagonisti del mondo della moda internazionale, serve anche un po’ di fortuna ed è proprio una gaffe del leader del Sol Levante a regalarla agli Inglese. «Il nostro boom mediatico è arrivato una decina di anni fa», prosegue il sarto, «quando il premier Yukio Hatoyama indossò per una conferenza stampa una camicia piuttosto buffa non realizzata da noi. La stampa internazionale era però al corrente che fosse un nostro cliente abituale e ci accusò di essere noi i creatori di quell’obbrobrio. Noi fummo in qualche modo costretti a difenderci dall’accusa e invitammo la stampa internazionale nel nostro laboratorio». Da lì iniziano le commissioni più illustri, di cui il principe William e Donald Trump sono solo gli ultimi esempi di una lunga lista: «Ho una bella clientela, che spazia dal cinema, alla cultura, all’industria, ma preferisco non fare nomi per non offendere nessuno. Posso solo dire che tutti sposano appieno la mia filosofia». Nella sartoria Inglese nessuno riceve trattamenti di favore. Tre prove, 30 ore di lavoro, 25 passaggi produttivi: è questa la routine per ogni camicia, che si tratti di una standard da 250 euro, oppure di una delle più elaborata da 800 euro. «Lavoriamo sempre con gli stessi requisiti, quindi ogni cliente è trattato come un capo di Stato», sottolinea.
Con il successo arriva anche la volontà di creare qualcosa di nuovo, sempre rispettando tradizione e territorio. Gli Inglese comprano così un palazzo storico di 3500 metri quadri in centro a Ginosa (Ta), dove decidono di creare uno showroom, per mostrare il proprio lavoro ai visitatori: «Negli anni abbiamo avuto centinaia di offerte di grandi marchi che volevano comprare la nostra piccola impresa, ma le ho sempre rifiutate perché la nostra attività non avrebbe senso se fosse trasferita a Milano o New York. Ci sono cose che possono essere fatte solo qui». È proprio a questo punto che la sartoria Inglese incontra un altro grande ostacolo: nel 2013 un violento acquazzone fa smottare il terreno e crollare la strada. Da un giorno all’altro il palazzo diventa inaccessibile e gli enti locali non concedono altre sedi: «C’erano voluti otto anni per restaurare quell’edificio e da un giorno all’altro siamo stati lasciati soli, senza alcun investimento», sottolinea Inglese, «ma noi stiamo cercando di reagire». Nasce così l’idea di collaborare con Botteghe digitali, un progetto di Banca Ifis Impresa: «È una finestra di tecnologia aumentata che permette di mostrare il nostro lavoro in tutto il mondo tramite un sistema di videoconferenza», chiosa il sarto. In questo modo un cliente può rivivere l’esperienza di farsi fare una camicia a Ginosa, stando comodamente a casa sua. «Il nostro obiettivo era quello di dare ospitalità a tutti, ora non possiamo farlo fisicamente, ma ho comunque la possibilità di guardare negli occhi il mio acquirente. Mi piace l’idea che la tecnologia sia al servizio della tradizione». Nonostante le difficoltà, la sartoria Inglese non si è arresa, tenendo testa anche ai grandi marchi di moda. Peccato però che una delle firme più importanti del made in Italy, con radici ben piantate sul territorio, sia più conosciuta all’estero che in Italia. «Dall’export arriva il 70% del nostro fatturato, perché l’Italia è molto legata ai brand più famosi, mentre in Asia, Usa, Nord Europa e Paesi Scandinavi andiamo molto forte. Il made in Italy è apprezzato in tutto il mondo, ma spesso non viene valorizzato dalla stessa politica».