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Alberto Marinelli: social shopping, un ecosistema in espansione
Il punto di vista del direttore del dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale dell’Università La Sapienza di Roma, dove insegna Teorie della comunicazione e dei media digitali
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Prof. Alberto Marinelli, qual è la differenza sostanziale fra il social commerce e l’e-commerce tradizionale?
Cambiano completamente l’ecosistema e gli attori che vi operano. I social possono contare su tre fattori: un numero di utilizzatori molto vasto, praticamente sovrapponibile all’universo nel caso delle generazioni Millennial e Z; sulla fase di pieno sviluppo della creator ecomomy, che si fonda sull’attività di un numero in crescita esponenziale di influencer potenzialmente utilizzabili per obiettivi profilati; su una naturale forma di aggregazione per interessi e passioni, cui spesso sono associati momenti di consumo, che rendono di fatto molto fluido il passaggio tra identificazione del bisogno, potenziale soddisfacimento dello stesso e successiva ricerca della gratificazione all’interno della propria community. L’ecosistema trae poi vantaggio da alcune caratteristiche strutturali delle piattaforme: la profilazione degli utenti consente di tracciare l’evoluzione delle espressioni culturali e dei bisogni di consumo, di monitorare le forme di aggregazione, e di utilizzare forme di comunicazione pubblicitaria iperprofilata; la possibilità di passare con un click o uno swipe alla fase di acquisto è una opportunità sempre più diffusa, anche se non sempre determinante. Questo compone un ecosistema fortemente espansivo e molto differente rispetto a quello dei tradizionali marketplace.
In Italia, una persona su dieci che fanno shopping online lo fa sui social. Cosa ci trattiene?
La bassa percezione di affidabilità. Abbiamo fatto questi discorsi nella fase di avvio dell’e-commerce: ricordo che Amazon è stata fondata nel secolo scorso (1994), ma che solo nell’ultimo decennio in Italia è diventata un’alternativa percepita come sicura e funzionale. Va detto poi che, nonostante l’evidente interesse dell’ecosistema di piattaforma a tenere al suo interno anche la fase finale di acquisto, dal punto di vista del consumatore questa non è una esigenza strategica. E anche per i brand questa non si configura come una priorità.
La figura dell’influencer è destinata a essere ridimensionata?
Non credo. Sicuramente è sottoposta a un processo inflattivo che può generare disincanto o fastidio tra i consumatori. Il problema dell’autenticità, che sostiene gran parte della relazione fiduciaria attivata sui social, è sicuramente lo scoglio su cui rischia di infrangersi l’efficacia dell’azione promossa attraverso gli influencer. Spetta ai brand e alle agenzie operare una selezione attenta dei profili e non puntare solo sul numero di follower.
Parte dello shopping via social fa leva sull’acquisto di impulso, un po’ come le televendite di una volta. Via social compriamo anche quello che non ci serve davvero?
Viviamo con maggiore o minore consapevolezza all’interno delle nostre “bolle” e i maccanismi di profilazione delle piattaforme rafforzano questo processo. Ma il consumo d’impulso ha dei limiti fisiologici anche online. Non credo sia una strategia opportuna, anche perché le generazioni in questione sono attente alla sostenibilità dei propri consumi. Le televendite appartengono forse ai boomer e alla televisione commerciale. Z e Millennial guardano la storia di Wanna Marchi su Netflix.