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Tutti quanti voglion fare il jazz
Il genere che fa dell’improvvisazione il suo segno distintivo si è evoluto, dalla nascita, all’insegna della contaminazione. E dopo anni di “esilio” nella nicchia delle musiche colte, sembra pronto a tornare alla ribalta
La musica è finita. Ora si può cominciare a suonare jazz. Pare che funzionasse così ai tempi di Charlie Parker, Bud Powell, Max Roach e Dizzy Gillespie, gli allegri ragazzi scombinati che accompagnavano a ritmo di swing i cantanti di grido nelle big band più popolari degli anni ‘40.
Trombe che squillano acute e sassofoni che si agitano in sezione, a far da contrappunto alla batteria indiavolata che incalza la voce solista. Bello, far ballare i giovani. E ancora più bello è girare il Paese in lungo e in largo con il pullman dell’orchestra. Ma, chiuso il sipario dei concerti, quei ragazzi senza sonno se la filano in fretta per scendere nei night della 52esima strada di New York, la via del jazz.
È UN COCKTAIL CHE INCROCIA CULTURA
AFRICANA, BLUES E CLASSICA EUROPEA
Rimangono in pochi su piccoli palcoscenici o assiepati dietro a un piano: sax, tromba, basso e batteria. E giocano con quelle canzoni che ogni sera ripetono nelle esibizioni in big band. Improvvisano su quelle melodie di successo, dilatano le armonie, destrutturano ritmi e cadenze, si lanciano in citazioni musicali, scavalcano tonalità e il bon ton del suono pulito e aggraziato, perdendosi in un cocktail sonoro che incrocia cultura africana, blues, e musica classica europea.
Nasce così alle prime ore d’alba, quasi senza pensarci, il bebop, il jazz moderno, quello che oggi viene considerato “mainstream”: melodia di un vecchio o nuovo standard musical, improvvisazione dei solisti su quelle note, quasi a battagliare per il titolo del più virtuoso, e poi tutto di nuovo da capo. Sono gli anni in cui il pianista classico Vladimir Horowitz fa la coda pur di andare a sentire a tarda notte il collega jazzista, di colore e semicieco, Art Tatum.
E a chi gli chiedeva cosa fosse davvero il jazz, il grande band leader e pianista Duke Ellington rispondeva con gli occhi spalancati: «Nient’altro che musica». Forse aveva ragione lui. Ma a quasi cento anni dal primo disco inciso con la parola jazz sull’etichetta (Original Dixieland Jazz Band, band di musicisti di origine siciliana), la musica afroamericana caduta nel museo della musiche colte (perciò ascoltate poco o niente) sembra pronta a tornare in scena.
TRA ALTI E BASSI
A 84 anni suonati, è il caso di dirlo, Sonny Rollins soffia dentro il suo sassofono con la stessa forza con cui spediva in cima alle classifiche uno degli album di jazz di maggior successo: Saxophone Colossus. Era il 1956. Il disco viene considerato il suo capolavoro, uno dei più grandi album jazz di sempre. Oggi, il più grande sassofonista vivente, è stato scritturato dalla Sony Records in un progetto ambizioso, dove l’etichetta conta di arruolare almeno una decina di musicisti l’anno per sfornare altrettanti dischi.
Per farlo Sony ha scelto di andare controcorrente, resuscitando OKeh, storica label specializzata nel jazz. Una scommessa che di questi tempi poche etichette se la sentono di affrontare. Nel 2003, secondo le stime di Nielsen SoundScan, in America sono stati venduti 23 milioni di dischi jazz, l’anno scorso il carrello della spesa si è ridotto a meno di 5 milioni. Insomma, le difficoltà della musica afroamericana vanno ben oltre la crisi della discografia tra scaffali dei negozi, streaming e download illegali. E ha a che fare con un ricambio generazionale, di artisti e di pubblico, che spesso tende a non incontrarsi. Tuttavia in Italia il jazz attraversa una nuova fioritura. Spiega Luciano Rebeggiani, direttore classical & jazz Sony Italia: «Il mondo del jazz, nonostante la crisi, tiene. Perché c’è un pubblico che è interessato alle proposte e al disco fisico. Inoltre su tanti impianti casalinghi il disco suona meglio rispetto al digitale. Il problema è di tipo distributivo. Mancano i negozi: tolti la Feltrinelli e pochissimi indipendenti, ormai il luogo di acquisto di un album è il concerto».
Sotto l’etichetta OKeh sono stati incisi già quattro dischi Made in Italy: Gege Telesforo, Chiara Civello, un omaggio dei jazzisti italiani a Lucio Dalla, e un concerto live del 2002 del cantautore bolognese con il quartetto di Stefano di Battista. «Il nostro obiettivo», continua Rebeggiani, «è puntare sulla contaminazione, sul jazz che incontra altre correnti musicali. Questo per aprire nuove frontiere a un pubblico sempre più grande». E in Italia sta tornando di moda. Tanto che le vendite di dischi jazz valgono circa il 5% del totale. Anche se si tratta sempre di una minoranza, la tendenza è in crescita.
Una buona fetta di merito spetta a Stefano Bollani, l’istrionico pianista che tra un pezzo di bravura e l’altro non riesce a fare a meno di raccontare, spiegare la musica e, perché no anche a far ridere il pubblico. Con il programma Rai Sostiene Bollani, ha portato nelle case una musica fresca, che nel corso degli anni aveva preso tanta polvere tra teatri e club per intellettuali.
IN ITALIA STA TORNANDO DI MODA,
MERITO ANCHE DEL PIANISTA
STEFANO BOLLANI
PER UNA NUOVA ERA
Gli anni ruggenti, quelli compresi tra il 1918 e il 1928, dalla fine della I Guerra mondiale all’inizio della grande depressione, sono considerati – probabilmente a torto – il periodo più luminoso della musica afroamericana. Con buona pace di Francis Scott Fitzgerald e de Il grande Gatsby, i suoni di New Orleans, ancora legati al blues e alla musica da ballo, con puntate nel dixieland di Bix Beiderbeck, nel ragtime di Jelly Roll Morton, e nell’affascinante ascesa di Louis Armostrong, erano le prime, seppur folgoranti, gestazioni del jazz moderno. Che vedrà il suo compimento, e la sua età dell’oro, negli anni ‘50 e ‘60, con l’affermarsi degli artisti più rappresentativi della sua storia.
È in questo periodo che si fanno i muscoli i colossi della genere, quelli a cui ancora oggi gli studenti di musica si ispirano: Miles Davis, John Coltrane, Charles Mingus, Bill Evans, Jim Hall. A loro va il merito di aver portato oltre i confini del puro intrattenimento quella musica, che nasceva nei bordelli di New Orleans per poi smarcarsi dalle grandi orchestre nei localini della New York notturna. Ma la tecnologia fu galeotta. È, infatti, del 1949 la nascita del disco a microsolco, che permette di registrare brani dai tempi più lunghi. Oltre quei due o tre minuti che ingabbiavano i musicisti nella “vecchia” forma canzone. È tempo di sperimentare.
NOTE DA BERE: intervista a Josè Rallo
Il jazz diventa un’arte ma lentamente si allontana dai gusti del grande pubblico.
Nella sua lunga carriera Miles Davis (1926-1991) ha aperto tutte, o quasi, le strade possibili dell’esplorazione musicale. È stato compagno di Charlie Parker, nel be-bop, un alfiere del cool jazz, pioniere della musica modale (oltre la tonalità classica della forma canzone, tra Schoenberg e la musica africana) e poi di quella elettronica. John Coltrane ha di fatto creato il sassofono moderno, viaggiando nei luoghi lontani del free jazz e della spiritualità musicale. Charles Mingus ha reso la musica un’arma per i diritti civili, mentre Bill Evans ha elevato le sue composizioni in jazz al rango di musica classica. Negli anni ’70 si apre la stagione della contaminazione, nella jazz fusion, incrocio con il rock, il funky e il soul. È il momento delle nuove generazioni (Herbie Hancock, Wayne Shorter, Joe Zawinul, Keith Jarreth, Chick Corea, Pat Metheny), che si affacciano sui palcoscenici facendo breccia tra i più giovani. È l’ora della contaminazione del con la musica pop e la world music. Sfida che non piace ai puristi, ma che è nel Dna della musica afroamericana, nata e cresciuta meticcia.