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Lifestyle

Gucci: un secolo di stile

Da piccolo laboratorio artigianale a marchio di moda tra i più influenti. La griffe fiorentina festeggia il sui primi cento anni sulla cresta dell’onda e si prepara ad affrontare un futuro in continuo cambiamento

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G come Gucci: chi altri? Gucci è tra i marchi di moda più influenti al mondo, il più grande brand moneymaking del gruppo Kering, quello che i giovanissimi inseguono nelle loro stories su Instagram, quello che le celebrity di mezzo mondo indossano. Originale, innovativo, inclusivo, sempre bravo a giocare (apposta) fuori dalle righe: incanta, stupisce, disarma. Da ormai sei anni è una creatura plasmata a immagine e somiglianza di Alessandro Michele, direttore creativo, e Marco Bizzarri, Ceo: Gucci si muove tra eclettismo e romanticismo, tra fasti antichi e viaggi nel futuro. Fluido e unisex: piace ai teenager delle metropoli, alle lady dai portafogli importanti, ai gentlemen contemporanei. Piace (moltissimo) agli artisti nostrani (vedi alla voce Achille Lauro) e agli intellettuali, alle top-model (come Giselle Bündchen) e alle influencer di ogni orientamento sessuale: perché Gucci è Gucci, capace di trasformare ciò che appare eccessivo (o persino banale, per non dire brutto) in qualcosa di unico. I dati parlano chiarissimo: Gucci rappresenta oltre il 60% del profitto operativo del gruppo Kering cui appartiene, possiede più di 500 negozi in tutto il mondo e supera i 10 mila dipendenti. Celebra dunque col botto il suo primo centenario, e vale davvero la pena ripercorrere la storia del marchio toscano, che ha saputo catturare l’interesse non solo del fashion system, ma anche dei più scafati investitori sul mercato.

La felice intuizione di Guccio Gucci

Bisogna tornare allora alle origini, con Guccio Gucci (1881-1953). Figlio di un fabbricante di paglie, il fiorentino Gucci prima si trasferisce a Parigi e poi a Londra per cercar fortuna: è un tipo sveglio, sveglissimo. Fa il liftboy – il commesso che fa salire e scendere gli ascensori – al Savoy Hotel: ha l’occhio lungo e studia la vita della ricca clientela, affinando il suo gusto per il bello, l’eleganza, la ricercatezza. Messe da parte un po’ di sterline, se ne torna a Firenze e nel 1921 apre il suo primo piccolo laboratorio in via della Vigna. Guccio punta sull’equitazione: vende articoli di selleria e accessori da viaggio. Nasce così il marchio Gucci, e in meno di un decennio ottiene il favore della clientela locale tanto da dover ampliare la produzione: sul Lungarno apre il primo stabilimento e, agli articoli sportivi per l’equitazione, affianca anche borse, borsoni e valigie. Il mondo dei cavalli resta tuttavia fondamentale e non a caso i motivi del morso e della staffa diventano subito l’emblema della casa fiorentina. Le vendite crescono e, nonostante l’Italia stia vivendo la dura stagione autarchica, nel ‘38 – mentre imperversano le leggi razziali – Gucci apre a Roma il suo negozio. Dove? In via Condotti, ovviamente. Con intelligenza, consapevole della carenza di materie prime adeguate, Guccio Gucci introduce nelle sue creazioni nuovi materiali di più facile reperimento: sono la canapa, la juta e il bambù. È un’ottima strategia che gli permette di differenziarsi dagli altri produttori di pelle. Nel frattempo, i quattro figli maschi entrano in società, e Gucci apre a Milano, in via Montenapoleone.

La svolta degli anni 50

Gli anni 50 rappresentano un altro momento di svolta: la produzione si allarga ancora e a Firenze occupa il grande Palazzo Settimanni, oggi lo showroom storico. Gucci comincia a produrre anche i nastri di lana o cotone, nei caratteristici colori (l’abbinamento verde-rosso-verde o blu-rosso-blu) e, con una lungimiranza che ha pochi eguali, punta dritto verso New York, per ampliare il mercato. È Aldo Gucci, figlio di Guccio, a inaugurare la prima vetrina sulla 58esima Strada: i foulard sono già un grande classico, anche grazie al fatto che donne del calibro di Grace Kelly, Audrey Hepburn, Jackie Kennedy e Maria Callas sono affezionate clienti. La corsa sembra inarrestabile: aprono altri store a Londra, Parigi, Palm Beach. Il logo GG – che omaggia il fondatore – diventa vero e proprio motivo ornamentale per borse, pelletteria, oggetti, tessuti. Nemmeno la rovinosa alluvione di Firenze, quella del ‘66, ferma l’azienda che anzi, per stare dietro all’espansione ormai internazionale del marchio, si trasferisce in una nuova grande fabbrica, in quel di Scandicci, poco fuori il capoluogo toscano. Dopo l’invasione sul mercato americano, l’avanzata verso il Sol Levate e il Dragone: Gucci, prima di altri marchi del made in Italy, intuisce le potenzialità dell’Oriente e apre nuovi negozi a Tokyo e a Hong Kong. Tutto questo, senza dimenticarsi delle origini: gli storici della moda concordano nel sottolineare che lo sviluppo industriale dell’azienda non abbia mai spinto a rinunciare agli schemi artigianali degli inizi. Tradotto, significa che il design e la produzione sono sempre gestiti nella “casa fiorentina”, con rigorosi controlli sulla qualità.

Tom Ford: l’artefice del rilancio

Gli anni 80 sono turbinosi: la “Milano da bere” e il boom economico dell’Italia non portano bene al marchio, che patisce alcune scelte strategiche sbagliate. Il timone passa al nipote Maurizio, figlio di Rodolfo, che mantiene la presidenza ma cede a una finanziaria anglo-araba la metà delle azioni: alla vigilia degli anni 90, Gucci non è più una realtà italiana e anche la famiglia Gucci avrà un ruolo sempre più marginale. Maurizio – la cronaca ce lo ha raccontato – muore prematuramente nel ‘95, freddato nell’androne della sua casa milanese da un sicario ingaggiato dalla ex moglie Patrizia Reggiani (e proprio la scorsa primavera si è girato in Italia il film sulla vicenda, con Lady Gaga nei panni della mandante). Maurizio Gucci fa comunque in tempo a nominare, per il rilancio del marchio, lo stilista che avrebbe rivoluzionato per sempre la storia dell’azienda: l’americano Tom Ford. È lui, insieme al presidente Domenico De Sole, il responsabile della “rinascita” della griffe: direttore creativo corteggiato dal circo della moda per il suo fascino visionario, Ford ridisegna l’identità del marchio e, grazie a un felice mix di classico e moderno, lo conduce alla conquista dei mercati mondiali. Non c’è più solo la pelletteria, ma anche l’abbigliamento uomo e donna: Gucci è ormai a tutti gli effetti un marchio che esprime un particolare tipo di lifestyle.

Il cliente Gucci si identifica con i modelli di Tom Ford: uomini splendidi, adoni che non passano mai inosservati, con quello stile un po’ retrò che fa molto Grande Gatsby. Le donne sono tutte femme fatale (poco) vestite di abiti intriganti e seducenti, quasi sempre neri: sono gli anni dei poster pubblicitari più espliciti, quasi pornografici e ogni campagna fa discutere. In Borsa, il marchio fa gola al grande Bernard Arnault che, con il colosso Lvmh, vorrebbe “mangiarsi” anche Gucci: l’azienda reagisce con un piano di azionariato per i dipendenti e con un’alleanza con l’acerrimo rivale di Arnauld, Monsieur François-Henri Pinault. Nei primi anni Duemila, dopo 13 anni di successi, Ford e De Sole lasciano: la linea di abbigliamento donna viene affidata alla giovane e promettente Alessandra Facchinetti, quella uomo a John Ray, entrambi cresciuti sotto l’ala di Tom Ford. Accanto a loro, cresce un altro talento: è Frida Giannini, stylist di rara finezza, che impone il suo garbo al marchio e che per nove anni è la venerata “ape regina” e direttrice creativa di un’azienda sempre sulla cresta dell’onda, con pezzi iconici come le borse Bamboo e Jackie. Il sodalizio tra Frida Giannini e Gucci termina però in modo brusco nel 2015: spesso, nella moda, è così che vanno le cose. Oggi, a cento anni dall’intuizione d’impresa dell’ex liftboy Guccio, Gucci surfa con Alessandro Michele tra le onde di un mercato dei consumi in continua evoluzione: il futuro prossimo, con la pandemia che ha contratto i consumi del lusso e trasformato il modo di concepire le sfilate, segnerà di certo un nuovo cambio di passo per la casa di moda.

Credits Images:

La collezione Aria, presentata da Alessandro Michele per il centenario di Gucci, rappresenta una riflessione personale del direttore creativo sulla mitologia del brand, con un’eco al mondo equestre, emblema della tradizione della Maison © GettyImages