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Rivoluzione digitale per l’arte
All’indomani della prima fiera specializzata, una breve riflessione sul futuro della media art, sempre più attraente per i collezionisti: il suo enorme potenziale culturale non si è ancora tradotto in un adeguato valore economico. Ma lo farà presto

Spesso, quando si visita una fiera d’arte contemporanea, un museo o una galleria, si ha l’impressione che la rivoluzione digitale – la più significativa rivoluzione dei mezzi di espressione dai tempi della stampa – non abbia lasciato tracce consistenti in un territorio che, vale la pena ricordarlo, ha eletto l’avanguardia a sistema e il nuovo a criterio di valore. È come se una delle aree più aperte alla sperimentazione della cultura del Novecento non fosse mai stata in grado di superare il varco del nuovo millennio. Gli artisti sembrano restii a confrontarsi con i linguaggi e i temi del nostro presente. Unica eccezione, i supporti: gli schermi al plasma e i Mac Mini usati per i video, le enormi stampe digitali che hanno rilanciato il successo commerciale della fotografia, i tablet che subentrano ai portfolio nelle mani delle gallery girls. Attraverso il filtro del mercato, l’arte contemporanea sembra per lo più un anacronismo vivente, una pratica conservatrice ed estenuata. A dire il vero, gli artisti hanno cominciato a confrontarsi con i temi e i linguaggi della rivoluzione digitale ben prima che questa avesse un impatto significativo sulla nostra esistenza quotidiana. I primi esperimenti di quella che allora veniva chiamata “computer art” datano alla fine degli anni Sessanta. Risale al 22 gennaio la triste notizia della scomparsa di Douglas Davis, che negli anni ’60 e ‘80 sperimenta con la comunicazione satellitare e nel 1994 lancia una delle prime opere d’arte in Rete: aveva ottant’anni. Ma per anni si è trattato di pratiche di confine, che non avevano, e non cercavano, una presenza nel mercato e nelle collezioni. Poi sono arrivati il personal computer, il World Wide Web, gli iPod e gli smartphone, e oggi verosimilmente il più giovane artista esposto in una fiera non ha mai conosciuto un mondo senza computer e senza rete. Ormai, non c’è accademia che si rispetti che non abbia un dipartimento dedicato ai cosiddetti “nuovi media”. Eppure, il mercato resiste. Resiste per pura inerzia, per ignoranza, per il gap generazionale che ancora affligge galleristi e collezionisti, e per il timore che suscita la difficile collezionabilità dei nuovi linguaggi. Comunque, qualche segnale di cambiamento sta arrivando. Uno di questi è il varo, lo scorso 17 gennaio a Monaco di Baviera, di Unpainted, un evento fieristico dedicato esplicitamente alla “media art”. Unpainted imbocca la via, per certi versi discutibile, dell’evento specializzato (perché non puntare piuttosto a rafforzare la presenza di questi linguaggi nelle piazze mainstream?) e lo fa con esiti alterni di qualità (cosa peraltro naturale in una prima edizione). Ma mette il dito nella piaga, riuscendo a raccogliere l’adesione di una sessantina tra gallerie, istituzioni e singoli artisti, creando senza dubbio una piattaforma di incontro e di dibattito di cui si sentiva l’assenza, come ha dimostrato il diffuso entusiasmo che si respirava nei giorni della fiera. Ma di cosa stiamo parlando? Fare oggi un discorso generico sulla “media art” è pressoché impossibile, considerata l’onnipresenza dei dispositivi digitali. Altrettanto improprio è parlare oggi dei media digitali come meri strumenti: si tratta piuttosto, di volta in volta, di contesti sociali, culture, pratiche diffuse, nuove forme di azione politica. Ogni artista vi si confronta a modo suo. L’americano Casey Reas (Dam Gallery, Berlino) scrive e vende software, ma dà vita a lavori di forte impatto visivo che esplorano le estetiche del codice; i programmi di Quayola (Bitforms, New York) rimodellano immagini della tradizione, poi convertite in ipnotici video e colossali sculture in cui i poligoni del 3D si innestano sui corpi in tensione del Rinascimento. L’olandese Rafael Rozendaal (Steve Turner, Los Angeles) lavora sulla percezione, creando siti Web animati che restano pubblici anche quando passano di proprietà, ma anche stampe lenticolari di grandi dimensioni in cui il movimento è prodotto da quello dello spettatore di fronte al lavoro. L’americana Petra Cortright (Steve Turner, Los Angeles), che ha conquistato il Web con i suoi Webcam video, porta in fiera questi ultimi assieme ad alcune bellissime stampe su alluminio dei suoi dipinti digitali; mentre Addie Wagenknecht (Xpo, Parigi) interviene su dispositivi come videocamere di sorveglianza e modem wireless, trasformandoli in lussuosi gioielli senza rinunciare alla loro funzionalità; e il francese Jacques Perconte (Galerie Charlot, Paris) sfrutta gli errori di compressione video per convertire scenari banali in paesaggi ipnotici dal forte gusto pittorico.Dopo i fasti della fiera, una cosa è certa: la “media art” ha ormai una forte rete di supporto, e si rivela sempre più attraente per i collezionisti, che vi riscontrano un enorme potenziale culturale che non si è ancora tradotto in un adeguato valore economico.
UNA LUNGA STORIALA SOLIDITÀ CULTURALE DI ALCUNI FILONI DI RICERCA RECENTI DELLA MEDIA ART SI SPIEGA ANCHE CON LA PRESENZA DI UNA LUNGA TRADIZIONE, PERLOPIÙ POCO VISIBILE IN QUANTO CONFINATA PER ANNI NEI LABORATORI DI RICERCA, NELLE UNIVERSITÀ E NEI FESTIVAL DI SETTORE. UNPAINTED L’HA OMAGGIATA CON UNA SEZIONE DEDICATA –, MUSEUM A CURA DI WOLF LIESER – E CON ALCUNE PRESENZE SIGNIFICATIVE NEGLI STAND DELLE VARIE GALLERIE. SI VA DAI PRIMI ESEMPI DI “COMPUTER ART” (IMMAGINI GENERATE AL COMPUTER E STAMPATE CON PLOTTER PRIMITIVI DA PIONIERI COME VERA MOLNAR O MANFRED MOHR) AGLI INTERVENTI PERFORMATIVI DI PETER WEIBEL (ARTISTA E DA ANNI DIRETTORE DELLO ZKM DI KARLSRUHE, UNO DEI TEMPLI DI QUESTE PRATICHE) ALLE INSTALLAZIONI INTERATTIVE DI CHRISTA SOMMERER E LAURENT MIGNONNEAU, CHE DAI PRIMI ANNI NOVANTA ESPLORANO TEMI COME LA VITA ARTIFICIALE. |
Un particolare della fiera, all’interno del Postpalast
