Gusto
I vini dell’Unità
Controstoria italiana attraverso i bianchi, i rossi e i marsala che hanno scritto pagine fondamentali degli ultimi 150 anni

Il rosso della nostra bandiera simboleggia il sangue che molti italiani hanno versato per unificare il Paese. Ma anche il rosso, inteso come vino, ha avuto un ruolo dell’Unità italiana. Anche solo limitandoci alla spedizione dei Mille, ce ne sarebbero di storie da raccontare…Il nome di Camillo Benso Conte di Cavour è senz’altro il più citato tra i protagonisti dell’epica della nostra Unità nazionale. Tra le varie celebrazioni del 150esimo non sta passando inosservata la polemica tra il governatore Roberto Cota (Lega) e i langaroli che ogni anno dal 1830 fino ad oggi hanno prodotto il vino con le uve del vigneto originario di proprietà del Conte a Grinzane (a turno e gratuitamente se ne sono occupate varie aziende e cantine sociali, almeno finché il vino è stato imbottigliato per il Premio Letterario Grinzane Cavour, oggi caduto in disgrazia). Molti dei produttori vorrebbero ricominciare la distribuzione del vino in occasione del 150esimo dell’Unità ma Cota sembra non gradire che nella “sua” regione rinasca un altro simbolo nazionalistico sabaudo. Eppure è stato proprio grazie a Camillo Benso se nella seconda metà del 1800 il Barolo smise di essere un “chiaretto”, spesso vinificato dolce e senza pretese, per divenire uno dei più sontuosi rossi al mondo. Fu infatti allora che divenne secco, a maggioranza di uve nebbiolo e con lungo affinamento in legno, tra passaggi tuttora validi e via via perfezionati. Cavour in realtà non fece tutto da solo ma fu determinante l’aiuto della Marchesa Juliette Colbert (proprietaria del Castello di Barolo) e del suo enologo Oudart che portò in Piemonte il modo di fare vino tipico di Bordeaux. Si racconta che Cavour usasse ripetere: «Plures amicos mensa quam mens concipit» (cattura più amici la mensa che la mente), ed era così persuaso della capacità diplomatiche del vino che non lasciava partire nessuno dei suoi ambasciatori verso l’estero senza una scorta di Barolo in carrozza, vino “ambasciatore” del nostro paese ancora prima che questo nascesse. In particolare il primo Barolo sembra sia stato imbottigliato nelle cantine del castello di caccia di Carlo Alberto in Verduno ma sono numerosi i riferimenti sabaudi nel mondo del vino piemontese, basti pensare alle numerose cantine che riportano tuttora in etichetta la menzione di “fornitore della real casa Savoia”. Tutta particolare la storia della tenuta di Fontanafredda, acquistata nel 1858 da Vittorio Emanuele II dove sono sempre visitabili le ampie cantine ottocentesche, la Cattedrale, le Scuderie, la Cantina privata del Re. All’interno di questa tenuta viene prodotto tuttora il Barolo Vigna La Rosa, dedicato a Rosa Vercellana, amante e poi moglie morganatica di Re Vittorio Emanuele II a cui il re regalò questi possedimenti. Da notare che i primi vini di Fontanafredda in realtà uscirono solo alla morte di Vittorio Emanuele nel 1878 per opera del figlio naturale Emanuele Guerrieri e sotto l’etichetta Mirafiore, marchio che è stato recentemente rispolverato con una linea di prodotti improntati alla naturalità e rispetto per la tradizione contraddistinti da una beva schietta ed elegante in pieno stile piemontese. E i Mille? Partirono il 5 maggio 1860 da Quarto, quartiere di Genova che non ha mai rappresentato una zona molto felice per il vino eccetto la produzione di vini bianchi a base di bianchetta genovese e altri vitigni autoctoni regionali. Vini onesti, schietti e ottimi da consumare in riva al mare e nelle trattorie di città anche se con un passato importante dato che in un documento del 1190 si legge di “vino bianco di Quarto” da inviare alla corte del Re di Francia.
Determinante lungo il viaggio di trasferimento verso la Sicilia fu la sosta in Toscana dove i Mille approdarono presso Talamone, vicino Orbetello e l’Argentario per fare rifornimento di vettovaglie e fucili. Pare che la sosta si protrasse per due giorni perchè il Capitano De Labar non era pronto ad esaudire le richieste dell’eroe dei due mondi. Di certo, rifornendosi ad Orbetello il vino sarà stato l’antenato del Morellino di Scansano attuale e quindi da uve sangiovese e ciliegiolo, una varietà locale molto antica. Oltretutto da Talamone partì la mini spedizione della colonna Zambianchi, un manipolo che doveva far nascere una insurrezione nello Stato Pontificio, azione bloccata quasi sul nascere da Cavour che ritenne troppo pericoloso andare ad occuparsi di Roma e del papato così presto. Di certo si sa che Zambianchi passò da Fonteblanda e Scansano per giungere infine a Pitigliano, ottimo osservatorio sul confine con lo stato della Chiesa ma anche e soprattutto storica terra di vini bianchi (all’epoca greco, verdello, trebbiano e ansonica, oggi anche vermentino come dimostra l’ottimo Poggio al Tufo della famiglia veronese Tommasi). E anche terra ancestrale del vitigno ciliegiolo che oggi ritroviamo grazie alla riscoperta di vecchissimi vigneti sotto forma di prodotti eccezionali come il Ciliegiolo in purezza di Sassotondo e il nuovissimo “Vallerana Alta” di Antonio Camillo (la prima annata verrà presentata a Vinitaly il prossimo mese) distribuito da Poggio Argentiera il cui proprietario Gianpaolo Paglia (originario di Orbetello) è da anni impegnato nella ricerca e valorizzazione del patrimonio ampelografico più antico in questa zona impervia della Maremma, dove la colonna fece perdere le sue tracce. Ben più importante è Marsala, città d’approdo dei garibaldini e inizio della loro avventura nel regno delle due Sicilie. Marsala è legata da sempre al vino liquoroso che si ottiene dalle uve bianche grillo damaschino, cataratto e inzolia (versioni oro e ambra) e dalle uve rosse pignatello, nero d’Avola e nerello mascalese (versione rubino). Un vino che però ha origini, per così dire, inglesi. Il vino Marsala fu infatti “inventato” quasi per caso dal commerciante John Woodhouse che nel 1773 fu costretto da una tempesta a fermarsi a Marsala dove assaggiò il vino locale detto “perpetuum” e ne spedì un carico a Londra unendolo a dell’acquavite locale. Il risultato piacque tantissimo e i Woodhouse fondarono nel 1812 la prima casa vinicola a Marsala seguita dai primi italiani, i Florio, nel 1832. In tempi di unità Italiana le cantine italiane di una certa levatura erano già tre con l’aggiunta di quella di Don Diego Rallo (1860), di Vito Curatolo Arini (1875) e la Carlo Pellegrino (1880). E sembra verosimile che sia stata proprio la presenza di queste navi inglesi nel porto, pronte a esportare il primo Marsala, ad aver impedito ai Borboni di sparare sulle navi di Garibaldi rendendo di fatto possibile lo sbarco. E ai Mille, appena arrivarono in città, proprio il Marsala venne offerto. Tornato due anni dopo, Garibaldi andò a cercare quel vino che aveva assaggiato la notte dello sbarco (pare fosse la tipologia Marsala Dolce Superiore) che venne ribattezzato “Garibaldi Dolce” in suo onore. Oggi la menzione “Garibaldi” è tuttora prevista ufficialmente nel disciplinare della Doc (la prima denominazione italiana a nascere, nel 1969). Tra gli elementi caratteristici del Marsala non solo l’aggiunta di alcol ad una miscela di vini bianchi o rossi da uve locali ma anche il particolare affinamento (usato oggi solo per le versioni più prestigiose) in botti disposte secondo il metodo soleras ovvero secondo strati di botti una sull’altra in base all’età che permette di avere un prodotto composto da annate diverse, cangiante sfaccettato, ogni anno diverso ma sempre riconoscibile. Per averne un’idea, cercate ad esempio il Donnafranca Marsala Superiore Riserva Ambra semisecco di Florio, dove la dolcezza è espressione del sole siciliano e dell’accoglienza di questa terra con rimandi speziati e alla frutta secca che ne fanno un vino da conversazione eccezionale. Il Marsala può essere vino simbolo dell’Italia anche per il fatto che lo sfruttamento selvaggio della denominazione ha portato in mezzo secolo un vino di prestigio conteso tra le corti europee a divenire un vino da scaloppine… Fortuna che l’opera di persone come Marco de Bartoli (che polemicamente imbottiglia il proprio vino marsala più pregiato “Vecchio Samperi” da sole uve Grillo rinunciando alla Doc) e di alcune famiglie storiche come i Florio, i Rallo e i Pellegrino sta facendo sì che questo vino compaia in molte carte dei vini riconquistando il blasone che gli spetta e un posto in tavola che non sia solo accompagnamento ai dessert ma molto più vario. Anche Teano ha qualcosa da raccontare. Il 26 ottobre del 1860 vi si conclude idealmente la spedizione dei Mille con Garibaldi che incontra Vittorio Emanuele II e gli consegna le chiavi del meridione. Si risale addirittura al De Re Rustica di Terenzio Varrone (I sec. a. C.) e alla tradizione latina per certificare Teano come un luogo d’eccellenza per il vino. Qui il vino si produceva forse ancora prima della dominazione romana con i Sidicini. E Teano oggi, ai piedi del vulcano di Roccamonfina, è la porta ideale per scoprire i vini di questa porzione di Campania felix in grande spolvero. Ipotizzando una cena con il futuro re d’Italia e Garibaldi, possiamo pensare che in tavola si sia iniziato con un bianco fresco e minerale per poi darsi ad un trittico di rossi storici e importanti come un Barolo (che il re aveva quasi sicuramente con sè), dell’Aglianico campano prodotto in loco e del Sangiovese rimasto tra le vettovaglie raccolte a Talamone: la sintesi ideale delle grandezze enologiche italiane data da tre vitigni che tutto il mondo ci invidia!
