Gusto
Aria Restaurant: dallo street food al fine dining
Siciliano d’origine, campano d’adozione, a Napoli lo chef Paolo Barrale crea piatti di alta cucina ispirandosi alla tradizione del cibo di strada propria di entrambe le regioni
Dal pastificio di famiglia nella natia Cefalù, in Sicilia, all’esperienza a Roma con Heinz Beck fino al passaggio in Irpinia al Marennà in casa Feudi San Gregorio: Paolo Barrale aspettava solo la consacrazione in una grande città come Napoli, dove è approdato con tante aspettative due anni fa, ampiamente ripagate da una stella Michelin arrivata appena cinque mesi dopo l’apertura di Aria Restaurant.
Un salotto elegantissimo, che nella sua proposta fa al contempo da filtro e amplificatore del nostro meridione, fondendo suggestioni mediterranee e rigore continentale in una cucina sempre stimolante e ricca di contaminazioni. Come questo sia possibile, in un format come il fine dining che pare essere messo sempre più in discussione, lo chiediamo allo stesso Barrale e alla maitre e sommelier Serena De Vita.
La cucina oggi sterza sempre più su vegetali e materie prime “povere”, quali sono quelle più importanti che la Campania mette nel piatto?
Paolo Barrale: Tutto ciò che viene dal passato va maneggiato con attenzione, perché non lo si deve contaminare troppo. Lo scopo della cucina, oggi, è mescolare ispirazioni e storicità creando pace e non agitazione. Sto sempre, però, molto attento a non perdere in immediatezza e freschezza, altrimenti la noia nel pubblico è sempre in agguato. Penso al mio Ramen fuori dalla Norma, essenza siciliana in chiave asiatica, con brodo di melanzane, pomodoro fresco, ricotta stagionata di mandorla, basilico, semi di basilico e cipollotto. Oppure agli Spaghetti con le vongole, serviti con un curry verde mediterraneo, al prezzemolo, e friggitello salernitano.
Serena De Vita: La tradizione culinaria campana attinge a un paniere ricco di specialità, soprattutto vegetali. A seconda della stagione che si attraversa, direi le varie brassicaceae e asteraceae o l’oro rosso, il pomodoro, che si presta a ricettazioni più o meno elaborate.
Cosa c’è della Sicilia nella sua cucina?
PB: Mi sembra di grondare sicilianità in ogni cosa che cucino. L’amore principale è quello per gli agrumi della mia isola, benché qui non manchino limoni o arance. Altro aspetto che ritengo molto siculo è l’uso (e abuso) che faccio della ricotta, ma non dimentichiamo che la metà dei dolci campani sono proprio a base di ricotta! Alla fine, è difficile distinguere cosa abbia origini campane e cosa siciliane. E non mi dispiace affatto.
Delle tante tradizioni napoletane e campane legate alla tavola quali sono quelle cui nessuno riesce a rinunciare?
PB: In termini di storia e contemporaneità, la cucina napoletana è street food, cucina di strada nel senso pieno de termine, in cui includo anche la pizza, che nasce proprio così. Tra i miei piatti, penso alla rielaborazione del tradizionale O’ per e o’ muss, il muso per l’appunto, che da noi assume forma di terrina, abbinata una panna acida e del caviale, accompagnata da ravanelli all’agro e da un infuso di mela annurca. E Palermo, con i suoi fritti e taralli, è l’altra grandissima capitale dello street food italiano. In pratica tutta la mia cucina nasce da lì!
SDV: Adoro tutto quanto attinge al retaggio familiare. Per esempio, il rituale della preparazione del ragù per il pranzo della domenica.
Quali sono gli abbinamenti particolarmente riusciti con i piatti in carta?
SDV: Specie per le pietanze ispirate a ricette del territorio, il match è affidato ai vini campani: Lacryma Christi Rosso per la nostra Royale di coniglio all’ischitana, Coda di Volpe macerata per l’omaggio ai Quartieri Spagnoli (pasta, patate e astice). Il caleidoscopio varietale e alcune nuove espressioni della nouvelle vague viticola campana sono il giusto espediente per approfondire la narrazione della Regione, soprattutto con gli ospiti stranieri; pertanto lo spazio dedicato ai vini locali in carta è importante, circa un quinto della totalità delle referenze. Quando, invece, gli elementi del piatto lo permettono, non rinuncio ad abbinamenti alternativi: il sakè, per esempio, che fa gioco anche a portate con componenti vegetali in primo piano; oppure i cocktail che, a seconda del distillato utilizzato in miscelazione, preferisco aprano o chiudano il percorso. Queste incursioni danno ritmo sincopato all’abbinamento, senza togliere rilevanza al vino.