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Occhio all’information overload

Cresce la sindrome da pensiero destrutturato. Sempre più connessi, sempre più multimediali. Ma è sempre un bene? Così la comunità scientifica mondiale descrive quella che è già stata definita connection addiction. E a rischio sono soprattutto i manager…

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Qualche mese fa, Newsweek è uscito con uno strillo di copertina così concepito: «iCRAZY. Panic. Depression. Psychosis. How Connection addiction is rewiring our brains». Da quest’anno il Dsm (Manual of mental disorder), la bibbia degli psichiatri di tutto il mondo, ha deciso di inserire tra le sindromi ufficialmente riconosciute anche l’Ias (Internet addiction syndrome) che così da oggi non è più soltanto un fantasma agitato da conservatori incapaci di comprendere le magnifiche e progressive sorti dello sviluppo tecnologico multimediale. Un numero crescente di aziende sta sconsigliando ai propri manager di essere sempre connessi anche fuori dall’orario di lavoro, per evitare ad esempio di essere continuamente disturbati dai segnali acustici dell’arrivo di un messaggio o di una mail in piena notte, spediti da colleghi dall’altra parte del mondo. Un gran numero di psicologi, psichiatri, studiosi di scienze cognitive, sottolinea che questo stato di continua allerta finisce per provocare disturbi del comportamento, ansia, stress, che inevitabilmente hanno riflessi negativi sulle prestazioni lavorative. Così fioriscono i manuali di sopravvivenza, come iBrain, di Gary Small, neuroscienziato, direttore dell’Ucla Memory and Aging Research Center. Dopo aver esaminato per 25 anni gli effetti dell’esposizione all’incessante sviluppo dei device tecnologici di oltre 30 mila tra bambini, studenti e adulti americani, Larry Rosen, professore di psicologia alla California State University, ha scritto iDisorder, per cercare di «aiutarci a convivere con questo tumultuoso sviluppo senza perdere la nostra umanità». Di qua e di là dall’Oceano sta spopolando Internet ci rende stupidi?, di Nicholas Carr, che molti ritengono degno del Pulitzer. Carr è un saggista da molti anni impegnato nello studio dei rapporti tra tecnologia, economia e cultura, scrivendone su New York Times, Financial Times, Wired, solo per citare i più conosciuti. È anche membro del comitato di consulenti editoriali dell’Enciclopedia Britannica. Carr ci invita a riflettere su come l’uso sempre più distratto di innumerevoli frammenti di informazioni finisca per farci perdere le capacità di concentrazione e ragionamento. Quando mi sono imbattuto in tutta questa letteratura, mi sono reso conto che le osservazioni che stavo facendo da alcuni anni, e che ho condiviso con gli oltre quaranta docenti del network Athena di tutte le discipline e sparsi in tutta Italia (i docenti amici di Pubblicità Progresso), erano assai ben fondate. Tutto è cominciato quando, dopo una vita professionale passata tra pubblicità, vecchi e nuovi media, ho cominciato a insegnare in diverse Università, prima La Sapienza di Roma, poi il S. Raffaele e ora lo Iulm di Milano (che ha insignito Alberto Contri della Laurea H.C. in Relazioni Pubbliche delle Imprese e delle Istituzioni). Ciò che mi colpiva sempre di più era l’osservare che, a fronte della rapidità nel raccogliere informazioni, si stava riducendo l’attitudine a riflettere, concentrarsi, rielaborare. Secondo me, la causa era innanzitutto da rilevare in un pericolo dal quale, già vent’anni fa, autorevoli studiosi di mass media come Nicholas Negroponte e Ira Carlin ci mettevano in guardia: l’information overload, che oggi viene indicata addirittura come uno degli elementi scatenanti le sindromi da stress correlate alla Internet Addiction Syndrome. Proprio su Wired, il periodico di riferimento del web, si poteva leggere: «Con la mente fissa sull’informazione, la nostra attenzione svanisce. Dedichiamo sempre meno tempo a un numero sempre maggiore di singoli pezzi di media, e così finiamo per collezionare frammenti». Esattamente quello che fanno i ragazzi di oggi, immersi in una forma di costante attenzione parziale, illudendosi che il loro cervello possa diventare “multitasking” come quello di un computer. C’è oramai una mole di studi scientifici che dimostrano – anche con l’uso di avanzate tecniche di imaging diagnostico (per esempio quelli di Jon Hamilton, pubblicati su Science), che le aree del cervello destinate a immagazzinare i ricordi (che inoltre sono frutto di complesse interazioni tra meccanismi biochimici, elettrici, emotivi e altro ancora) possono fare non più di una o due operazioni contemporaneamente, pena l’esclusione dal proprio orizzonte cognitivo della terza e delle altre, relegate in “buffer” estremamente volatili, tanto per usare un linguaggio informatico.

Se guardiamo la foto in cui la nostra studentessa, novella dea Khalì, fa con tutte le sue braccia tante operazioni differenti nello stesso momento, abbiamo una chiara idea di cosa significa vivere nell’era della “costante attenzione parziale”: è del tutto evidente che dedicando una porzione sempre inferiore della sua attenzione a molteplici attività di carattere emotivo/cognitivo (gioco, emozione, informazione), il soggetto tende ad incamerare frammenti di realtà. E quando si troverà nella necessità di doverli rielaborare, inevitabilmente ricostruirà nel migliore dei casi un quadro composto di frammenti, e nel peggiore dei casi un pensiero destrutturato del tutto privo di senso critico, che è per sua natura frutto di una vera e propria ginnastica di concentrazione, nella fattispecie assai poco presente. Su questo tema la letteratura scientifica è oramai vastissima, anche quella che parla delle ricadute sulla formazione dei giovani manager. Ancora su Wired, Brandon Keim scriveva nel 2009: «Il sovraccarico digitale sta friggendo i nostri cervelli». Chiarisce Patricia Greenfield, insigne psicologa dell’età evolutiva docente all’Ucla: «Ogni medium sviluppa abilità cognitive sempre a scapito di altre…per cui c’è da chiedersi se le nuove potenzialità di intelligenza visivo-spaziale valgano il prezzo dell’indebolimento dell’elaborazione profonda, che è alla base dell’acquisizione attenta di conoscenze, dell’analisi induttiva, del pensiero critico, dell’immaginazione e della riflessione».Le nuove sfide della competitività richiedono una classe di manager dotati di competenze sia verticali che interdisciplinari, capaci di sfruttare al meglio le potenzialità della rete e dei nuovi media. Ci si arriverà insegnando a convivere con la costante rivoluzione tecnologica, ma ridisegnando anche la filiera educativa. Come? Reintroducendo il riassunto alle scuole elementari, ridando spazio a greco e latino come palestra di logica, orientando bambini e adolescenti a un uso non compulsivo di Tv e Internet, privilegiando per esempio i giochi di ruolo. Vietando drasticamente cellulare e computer in classe se non per sperimentazioni guidate, e incrementando le interrogazioni in forma di dialogo. Con questo semplice manuale di comportamento potremmo sperare di poter immettere nel mondo del lavoro personalità complete in grado di governare i cambiamenti, invece che esserne schiavi.