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Lo spot è (ancora) femmina

In tempi di “bunga bunga” e del ritorno del femminismo militante conviene ancora usare il corpo della donna per la pubblicità? Ebbene sì. Perché quando mancano le idee il gioco vale sempre la candela

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Ma con tutto quel che è successo, con il milione e passa di donne che sono scese in piazza il mese scorso per protestare contro il “bunga bunga” e dintorni, vale ancora la pena di sbattere una ragazza mezza nuda – o in atteggiamenti inequivocabili – su un annuncio pubblicitario e sperare di “farla franca”? La risposta è sì. E non ci sono associazioni di consumatori in rivolta, minacce di sanzioni e nemmeno possibili stop dell’Autodisciplina pubblicitaria che tengano: trattare la donna in pubblicità come un’“arma” di seduzione di massa è una scelta che continua a pagare, anche quando il prodotto, il brand o il servizio da promuovere c’entrano poco o nulla con l’universo femminile.

Pensate alle tariffe promozionali della Tim. Basta metterci una bella ragazza in top e shorts e lasciare che ammicchi al pubblico, magari con in sottofondo la hit musicale del momento. Se poi le curve della testimonial rischiano di prendere il sopravvento sulla notorietà del brand, niente panico: morta (in senso figurato) una testimonial, se ne fa un’altra. Ed ecco che alla “scandalosa” Belén Rodriguez succede la più algida Bianca Balti, top model che continuerà a usare il linguaggio del corpo, anche se forse in maniera meno provocante, per parlare di Sms e Internet mobile.

Chi si ricorda invece dei famosi spot pubblicitari di Saratoga, il silicone sigillante, in voga a partire dagli anni ‘90? Il prodotto passava sugli schermi televisivi letteralmente offuscato dal fondoschiena di una bellissima mora (alcuni addetti ai lavori sostengono che si trattasse della compagna del signor Saratoga) che entrava e usciva da vasche, docce, piscine, tutte meravigliosamente sigillate dal silicone del claim. La campagna del brand di utensileria realizzata nel 2007 era invece immersa in un’atmosfera decisamente diversa. Siamo sulla scena del delitto, un “problema di infiltrazione” e una ricercatrice – mora – in camice bianco stile Csi individua con sicurezza il colpevole: un silicone poco affidabile. Salvo poi mettere in evidenza il vero marchio di fabbrica: si sfila il camice e si immerge in una vasca dalla tenuta perfetta. L’ultima campagna del marchio è invece giocata tutta sugli ammiccamenti: una donna e la sua collaboratrice domestica (Giovanna, vestita come una provocante cameriera in minigonna e giarrettiera) dipingono una cancellata usando una vernice Saratoga, e il marito, tra il sospettoso e l’ironico, notando la complicità tra le due fa i complimenti alla domestica. Questo è uno degli spot su cui si è accanita di più Luciana Littizzetto a Che tempo che fa, dove si diverte a mettere alla berlina il modo in cui la pubblicità racconta le donne.

Ma non è nulla rispetto a quello che è successo lo scorso autunno a una campagna affissioni di Sisley. L’annuncio in cui Ashley Smith, la modella immortalata dal fotografo Terry Richardson sdraiata per terra circondata da cetrioli e nell’atto di portarne uno alla bocca, è stato al centro di una durissima polemica. Dopo la denuncia di diverse associazioni dei consumatori, l’intervento diretto della Regione Lazio e l’azione dell’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria, la campagna è stata fermata. Ma il bello è che tutto il bailamme scoppiato attorno a questo caso ha reso l’iniziativa di comunicazione popolarissima, esattamente la stessa cosa che è successa alla semi-sconosciuta griffe Silvian Heach: qualche giorno fa, a Milano, una gigantesca affissione che ritraeva una modella con un vestito tirato su fin sopra le natiche (l’autore dello scatto, manco a dirlo, è sempre Richardson) ha fatto puntare tutti i riflettori sul nuovo scandalo pubblicitario .

Che vuol dire? Che il gioco vale sempre la candela, come ammettono senza troppi problemi gli stessi creativi.«È un concetto basico: il corpo della donna è bello. Fa piacere vederlo, è un’associazione positiva di belle sensazioni», dice schietto Giorgio Brenna, amministratore delegato di Leo Burnett, che ha curato tra le campagne sgradite a molte donne quella con Rocco Siffredi, l’uomo che le patatine le ha provate tutte, e i già citati annunci Tim con le grazie di Belén Rodriguez in bella mostra. «Certo, dagli anni ‘80 in poi, a cicli più o meno alterni ma con una con tendenza di fondo in aumento, c’è stato un utilizzo sempre più esasperato e spudorato del corpo femminile, anche su prodotti che obiettivamente poco avevano a che fare con una donna nuda. Questo, in linea teorica, è l’utilizzo del corpo femminile più sbagliato che si possa fare in pubblicità».E tuttavia, nonostante qualche volta si ecceda, per i direttori creativi c’è sempre un contesto da tener presente e che in parte giustifica alcune scelte. «L’advertising, specialmente quello televisivo, non può essere considerato come una cosa a sé stante. Va a interrompere un contenuto. E siamo onesti: spesso il messaggio pubblicitario è più nobile di quel che va a interrompere», dice Alessio Riggi, direttore creativo esecutivo insieme a Geo Ceccarelli della sede romana di TBWA\Italia. In realtà Alessio Riggi ha la coscienza a posto. In TBWA, come nelle altre agenzie in cui ha lavorato, non è mai ricorso al corpo della donna come acceleratore di notorietà di un brand. Eppure non ha nulla da rimproverare ai colleghi che lo fanno. Perché la responsabilità è prima di tutto del committente. «Se il cliente chiede a un’agenzia di usare il corpo della donna e l’agenzia gli risponde di no, ne trova altre 15 disposte a farlo», continua Riggi. «Esistono fior di ricerche che dimostrano che il fattore “donna”, usato in quella maniera, funziona, aiuta a vendere di più. È il paradigma inaugurato dall’allora Omnitel con Megan Gale. Ma io sono convinto che la donna svestita è solo una scorciatoia, nemmeno troppo efficace, alla stregua di un testimonial usato male. Noi per fortuna abbiamo sempre incontrato clienti intelligenti, dotati di un certo gusto e di un determinato tipo di professionalità, clienti che richiedono l’idea, prima di ogni altra cosa», rivendica Riggi.E in effetti è proprio quando manca l’idea che si fa più forte la tentazione di ricorrere a seni e glutei. «Me lo diceva anche un vecchio creativo all’epoca in cui io ero un tenero virgulto: se ti manca l’idea usa un bambino, un cucciolo di cane o una donna nuda», dice sorridendo Daniela Greco, al vertice con Cesare Casiraghi dell’agenzia Casiraghi&Greco, che annovera tra i suoi brand Che-Banca!, Genialloyd e Mareblu, e che nel 2007 ha realizzato la prima campagna Saratoga in cui non erano le forme di una donna l’assoluto protagonista dello spot. «In quel caso, quando il cliente ha dato il brief al mio socio, gli ha chiesto esplicitamente di inserire quell’icona, quel codice di riconoscimento nella campagna. E lui l’ha rivisitato cercando di limitarlo al massimo, dando vita a una storia. Ma non fu un problema di morale: semplicemente secondo noi il corpo femminile non vende il prodotto, a meno che non parliamo di creme per la cellulite. Se c’è un prodotto che ha qualcosa da comunicare, banalmente deve comunicare quello. Invece la maggior parte delle volte si vedono in pubblicità donne nude senza che se ne capisca il motivo». Ma forse la questione è più semplice di quel che si pensa. «I clienti non fanno che rispecchiare la società. È compito delle agenzie serie parlare con loro per discutere sul come rappresentarla», dice Nicola Lampugnani, direttore creativo esecutivo della sede di Milano di TBWA\Italia insieme con Francesco Guerrera. «È dal dialogo che escono proposte e idee. Noi siamo riusciti a non fare mai un uso indiscriminato della donna, perché abbiamo sempre puntato su progetti di comunicazione a lungo termine. Chi ci cerca lo sa e ci sceglie di conseguenza. Detto questo si può utilizzare il corpo femminile anche con intelligenza, con risultati artistici. Penso per esempio alle campagne Campari Red Passion, che tra le altre hanno avuto come protagoniste Salma Hayek e Jessica Alba».«Del resto se si ingaggia una bella attrice – penso a Nicole Kidman o anche a Uma Thurman, al centro della nostra campagna sulla Alfa Romeo Giulietta – non se ne sfrutta l’immagine solo perché ha un bel corpo», conferma Giorgio Brenna. «Tutto sta nei pesi e nelle misure. È vero, il corpo femminile in pubblicità fa vendere di più, ed è per questo che il fenomeno non conosce nessuna inversione di tendenza. Di sicuro c’è maggior attenzione al suo utilizzo indiscriminato e oltre il buon gusto: con la diffusione capillare di Internet e l’avvento dei social network si capisce subito se si è esagerato. Ma qualche volta è proprio l’effetto desiderato dal cliente, un rischio calcolato per il battage e se serve noi pubblicitari non ci tiriamo indietro, lo facciamo e basta. La campagna Amica Chips con Rocco Siffredi, per esempio, fece uno scalpore pazzesco, ed era proprio quello che volevamo».Probabilmente in Italia farebbe ancora più scalpore l’idea di Daniela Greco. «A me sinceramente non dà fastidio vedere il corpo nudo di una donna in pubblicità. Però mi chiedo: se il corpo umano è bello, perché non usare anche i corpi maschili? Mi piacerebbe vedere una campagna con un uomo nudo accanto a un’automobile».