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Subscription economy: cos’è e perché ha tanto successo

Meglio abbonarsi a un servizio per usufruire di un prodotto anziché acquistarlo. È la tendenza nata nei Paesi anglosassoni ben prima dello scoppio della pandemia e ormai dilagante in tutta Europa. Ma quali sono i pro e i contro di questa nuova mania internazionale, che le imprese italiane stentano a cavalcare?

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Acquisto? No, noleggio. Cambia il modo di consumare e, com­plice anche la pandemia, che è stata un vero e proprio accele­ratore in tal senso, ci sono alcuni modelli di business che nel mondo anglossassone sono già esplosi e in Italia si stanno af­fermando con sempre maggior convinzione. Fra questi si affer­ma sul podio la subscription economy, l’economia della sotto­scrizione, con la quale si preferisce usufruire di beni o servizi in abbonamento, anziché possederli.

Il fenomeno è in crescita costante e per capirlo meglio è possibi­le partire da uno dei report che le ha dedicato la società di con­sulenza strategica McKinsey. Negli Stati Uniti, la subscription economy è aumentata di oltre il 100% all’anno dal 2011 al 2016, arrivando a un volume di vendite nel 2016 di 2,6 miliardi dai 57 milioni di dollari del 2011, attraendo investimenti e favorendo la creazione di decine di start up e piattaforme. Anche in Europa, questo trend si sta affermando con insistenza. Secondo una ricer­ca della banca tedesca online N26 del maggio 2021, il 31% degli europei possiede di gran lunga più abbonamenti rispetto all’ini­zio della pandemia.

I tre fattori di successo della subscription economy

La società di consulenza ha individuato tre macro-categorie, che però, come fa notare a Business People Fulvio Iori, Strategic Advi­sor e specializzato proprio in digital innovation e subscription economy, è necessariamente generica e serve a fare comprendere una materia che si arricchisce di continuo. A livello macroscopi­co, quindi, possiamo dire che McKinsey individua nell’economia della sottoscrizione tre grandi generi. Il primo è il rifornimen­to di merci. Il motivo principale per cui si sceglie questo tipo di subscription è che fa risparmiare tempo e denaro. Il secondo è quella dedicata ai materiali di consumo, e qui spesso ad attirare gli abbonati è la varietà di prodotti proposti, spesso adattati alle loro preferenze e alle esigenze. Il terzo, infine, è rappresentato dagli accessi premium, che fanno ottenere a chi li sottoscrive determinati vantaggi.

Secondo una ricerca di Barclays, a livello globale, il 27,5% degli abbonati predilige i prodotti legati alla cura della persona, il 26% cibi e bevande e il 16,3% prodotti per la salute e il benessere. E poi c’è il “fenomeno nel fenomeno” dei servizi di streaming (Netflix, Disney+ & company, per intenderci), che da solo fa oltre il 39% della quota totale.

Questo articolo è tratto dal numero di Business People di ottobre 2022, per leggere la versione completa e approfondire altri temi della rivista, può scaricare il numero in versione digitale cliccando qui

Ma come mai la subscription economy ha ottenuto tanto successo? «I fattori», spiega Fulvio Iori, «sono molteplici: citerei, tra i più significativi, il cosiddetto peace-of-mind, ovvero la semplificazione nell’approvvigionamento e riordino dei beni di consumo frequente, il miglioramento continuo delle piattaforme digitali nella gestione della personalization (costruzione di offerte su misura in base al tracciamento dei gusti e degli stili di acquisto), il cambio di paradigma, che è passato dal possesso dei beni durevoli al loro utilizzo, l’evoluzione dei sistemi di pagamento elettronico, la rivoluzione nella logistica di prossimità. La recente pandemia non ha fatto che favorirne ulteriormente lo sviluppo in tutte le fasce demografiche. Per i Millennial, soprattutto nei Paesi anglosassoni (Gran Bretagna in testa), stava già divenendo il new standard nelle abitudini di acquisto». Tutti abbonati, felici e contenti, quindi. Ma, anche in un settore in crescita e che può svilupparsi ulteriormente grazie alle nuove frontiere messe a disposizione dal digitale, le insidie da cui guardarsi ci sono e possono impattare in modo forte sulla riuscita del business. McKinsey non ha dubbi, per le compagnie che si occupano di e-commerce, l’ostacolo più pericoloso è il churn, ossia il tasso di abbandono degli abbonati. Rimpiazzare chi decide di lasciare la piattaforma ha un costo che influisce negativamente sulle riserve di denaro, che invece devono essere impiegate per soddisfare le aspettative di chi sottoscrive la membership. L’imperativo, quindi, è sapere costruire un rapporto che sappia consolidarsi sul lungo termine.

L’indagine condotta dalla compagnia, mostra come un terzo degli abbonati disdica entro tre mesi e la metà cancelli entro sei. Le percentuali sono ancora più elevate nel settore alimentare, dove le rinunce nei primi mesi possono arrivare anche al 60-70%. Davanti a tassi del genere, le piattaforme devono fare attenzione a non offrire periodi di prova gratuita troppo prolungati o sconti eccessivi, che non hanno un ritorno tangibile. Chi si abbona può stare decisamente più tranquillo, ma, anche qui, attenzione. «Per quanto riguarda gli svantaggi della subscription economy», aggiunge Iori, «traccerei una linea spartiacque fra B2B e B2C. Nel primo caso di svantaggi non ne vedo. Nel B2C i consumatori devono ovviamente stare attenti al budget mensile. In generale, molto dipende da come le aziende approcciano la tematica, da come si disegna la strategia evolutiva di breve, medio e lungo termine. La subscription è una tematica altamente strategica, olistica, che investe tutti i reparti aziendali e, perché abbia successo, non ci si può improvvisare».

Le ricadute (positive) sull’ambiente

Ma c’è un aspetto che rende questo mega trend ancora più interessante, e per il quale conviene conoscerlo meglio. La subscription economy, infatti, può avere numerose ricadute positive sull’ambiente. Il primo aspetto che viene in mente è quello della mobilità condivisa, che nel futuro contribuirà sempre di più a immettere nell’ambiente meno tonnellate di biossido di carbonio. Quello a cui si pensa meno è che l’accesso crescente a servizi di streaming e in generale alla multimedialità, ha come conseguenza la riduzione drastica di supporti come cd, dvd, chiavette usb e anche dischi fissi. La subscription economy può impattare in modo positivo anche in un altro campo, dove di solito si tende a essere più spendaccioni, con buona pace dell’ambiente: la moda. I siti di mercato dell’usato, dove si può vendere quello che non si usa più e comprare capi dismessi da altri, sono ormai un trend presente da diversi anni. Negli ultimi tempi, però, sta prendendo piede il noleggio di vestiti che, una volta arrivati a fine ciclo, vengono venduti dalle aziende a prezzi vantaggiosi. Grandi opportunità, insomma, anche per diventare consumatori più attenti e consapevoli.

Il ruolo dell’Italia nella subscription economy

Sorge spontanea una domanda. Nel panorama della subscription economy, l’Italia come è messa? Gli abbonamenti sono in crescita, ma rispetto al mondo anglosassone siamo ancora indietro, soprattutto se si pensa al potenziale che deriva da questo modello di business. Fulvio Iori non ha dubbi: «In Italia, purtroppo, vedo poche competenze di alto livello e molta improvvisazione, soprattutto da parte degli operatori tradizionali nel digital, che nei Paesi anglossassoni fanno quasi sempre da implementatori e non da strateghi. È imbarazzante poi constatare come da noi la grande distribuzione e il retail non sembrino essersi accorti dell’impatto epocale che la pandemia ha prodotto, a giudicare dalle esperienze di acquisto che sono rimaste pressoché invariate».

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