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Secondi al mondo

Appena dopo la Germania e ben al di sopra della Cina, il Belpaese non ha complessi d’inferiorità quando si tratta di vendere all’estero. Ed è il caso di dirlo: la qualità conta più della quantità. Peccato solo che la nostra industria abbia ancora qualche remora nel fare davvero sistema…

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Per andare in Australia o nell’Estremo Oriente partendo da Pasturo, località di circa 2 mila abitanti immersa nel verde della Valsassina, a pochi chilometri da Lecco, occorre affrontare un viaggio che sembra quasi infinito. Ma la distanza di migliaia di chilometri non ha impedito ai prodotti del caseificio Emilio Mauri, che ha un giro d’affari di oltre 35 milioni di euro ed esporta il 30% del fatturato, di raggiungere comunque l’altra parte del globo, per finire sulle tavole di Sidney o di Hong Kong, oppure in Corea, in Canada e persino a Cuba e a Santo Domingo. Perché i formaggi del caseificio Mauri, che a Pasturo ha uno dei suoi stabilimenti principali, portano con sé un marchio inconfondibile che, in tutto il mondo, è considerato ancora sinonimo di qualità. È il marchio del made in Italy, accompagnato dall’etichetta Dop (denominazione di origine protetta), che attesta lo stretto legame dei prodotti Mauri, come il taleggio o il gorgonzola, con il territorio della Valsassina e le sue tradizioni gastronomiche. «Nessuno riuscirà mai a copiare i nostri formaggi, tanto meno i cinesi», dice con orgoglio Nicoletta Merlo, amministratore delegato della società e nipote del fondatore. Ma la storia del caseificio Mauri è soltanto un esempio di come l’export italiano sia ancora molto competitivo sui mercati internazionali e rappresenti oggi una risorsa preziosa per l’economia del nostro Paese.Ne è convinto Marco Fortis, docente di economia industriale alla Cattolica di Milano e vicepresidente della Fondazione Edison, che da anni tenta di sfatare molti luoghi comuni, che dipingono la nostra industria nazionale come ormai avviata sulla strada di un inesorabile declino. Per Fortis, invece, la realtà e ben diversa perché l’export della Penisola ha conservato intatta la propria forza, almeno in buona parte, anche durante la rovinosa crisi economica dell’ultimo quinquennio. Per avvalorare la propria tesi, il vicepresidente della Fondazione Edison snocciola una lunga serie di dati e cifre, che provengono da fonti assai autorevoli. A cominciare dall’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto), che ha realizzato una classifica della competitività nell’export di ben 184 Paesi, sulla base di un particolare indicatore, il Trade performance index, che prende in esame 14 diversi settori merceologici e cinque differenti parametri: il valore delle esportazioni nette di una nazione, l’export pro-capite, la quota di mercato mondiale, e il grado diversificazione dei prodotti e della presenza geografica. Ebbene, secondo il Trade performance index, nell’export l’Italia è la seconda nazione più competitiva al mondo, alle spalle della Germania e ben al di sopra della Cina.

LA CLASSIFICA DEI PRINCIPALIPAESI ESPORTATORI

1. Germania

6. Giappone

2. ITALIA

7. Turchia

3. Cina

8. Stati Uniti

4. Francia

9. Russia

5. Australia

10. Indonesia

Trade Performance Index-Unctad/Wto

Su 14 settori presi in esame, il nostro Paese primeggia in tre (contro gli otto dei tedeschi) mentre arriva secondo in quattro comparti, uno in più della Repubblica Popolare e due in più rispetto alla Francia. Ma i dati che sorprendono maggiormente sono quelli pubblicati di recente dall’Istat e da Eurostat (l’Istituto europeo di statistica) secondo i quali, tra il 2003 e il 2011, l’export italiano è cresciuto complessivamente di oltre il 21%, meno della Germania (+56%), ma molto più della Francia (+17%) e della Gran Bretagna (+18%). E allora, viene spontaneo chiedersi, perché in passato molti economisti hanno fatto a gara nel suonare le campane a morto per la competitività del made in Italy? La spiegazione è riconducibile a un dettaglio tecnico, non facilmente comprensibile da chi non è esperto di analisi macroeconomiche. Le ultime cifre pubblicate dall’Istat sono infatti il frutto di una revisione del vecchio metodo di calcolo delle esportazioni utilizzato fino all’anno scorso, che non fotografava in maniera adeguata la realtà e penalizzava eccessivamente il nostro Paese.Nella sostanza, la questione si può riassumere così: fino al biennio passato, per rapportare i valori correnti dell’export a quelli degli anni precedenti (e calcolarne le variazioni) l’istituto di statistica usava dei parametri giudicati poi dagli esperti un po’ troppo rudimentali, perché non tenevano conto di un fattore importante: i prezzi medi dei prodotti all’esportazione. «Non ci si era accorti», spiega Fortis, «che molti imprenditori del nostro Paese hanno risposto prontamente alle sfide del mercato e alla concorrenza crescente dei Paesi emergenti». Secondo il vicepresidente della Fondazione Edison, infatti, parecchie aziende della Penisola (soprattutto nel settore tessile, ma non solo) si sono spostate in maniera progressiva su produzioni di alta gamma che, proprio per questo loro pregio, oggi vengono comprate dagli stranieri a un prezzo medio più alto. È vero dunque che molti imprenditori italiani esportano un numero minore di prodotti, ma non è detto che abbiano perso terreno sui mercati internazionali: più semplicemente, gli imprenditori vendono all’estero merce di maggiore qualità e continuano a guadagnare. Per questo, le precedenti rilevazioni dell’Istat erano fuorvianti, anche se sono state prese come oro colato da diversi osservatori: tra il 2003 e il 2010, le vecchie statistiche avevano infatti calcolato una diminuzione dell’export italiano dello 0,5%, contro l’aumento complessivo del 12% registrato da Francia e Gran Bretagna. «È un segno del declino», dicevano molti economisti. Poi, però, con l’arrivo delle nuove metodologie statistiche, il risultato si è completamente ribaltato e si è capito, appunto, che la competitività all’estero dell’industria del nostro Paese è invece cresciuta.Il made in Italy è ancora forte, insomma. E la scarsa crescita del Pil, registrata nel nostro Paese negli ultimi anni, a detta di Fortis va imputata principalmente ad altri fattori, a cominciare dalla stagnazione dei consumi interni, la perdita di potere di acquisto dei salari, il deficit energetico, la carenza di infrastrutture moderne o l’inefficienza dell’apparato burocratico e amministrativo. Le piccole imprese della Penisola, che si fanno in quattro per aggredire i nuovi e promettenti mercati asiatici o quelli delle altre nazioni in via di sviluppo, hanno dunque ben poco da rimproverarsi. Non a caso, secondo le rilevazioni del Wto, il nostro Paese primeggia ancora in molti settori dell’industria manifatturiera mondiale, nonostante la concorrenza dell’Estremo Oriente e dei Paesi emergenti. L’export made in Italy, per esempio, conserva ancora la leadership nell’abbigliamento, nella produzione di pellami e nell’intera industria tessile.

BENVENUTA SVALUTAZIONE!

Un’ulteriore crescita dell’export tricolore potrebbe dipendere dal deprezzamento del cambio dell’euro, che per il 2012 gli economisti prevedono pari al -25% (come il deprezzamento della lira nel 1993). Se ciò accadesse – anche a fronte dei tassi in discesa e della crisi della moneta unica, ancora irrisolta – i produttori italiani guadagnerebbero competitività su cinesi, svizzeri e americani (zona extra euro) per il 55% dell’export tricolore, con un aumento delle nostre esportazioni del 10,5% (era dell’8% nel 2010-2011).

C’è poi un altro comparto produttivo dove le aziende italiane hanno scalato i vertici della classifica mondiale: è il settore dei macchinari non elettronici destinati all’uso industriale, dove spesso le imprese della Penisola (anche e soprattutto quelle di piccola e media dimensione) si sono specializzate in settori di nicchia, ad alto valore aggiunto, accumulando un know how industriale sconosciuto ai concorrenti esteri, tanto meno a quelli dei Paesi emergenti. Senza dimenticare altre produzioni importanti, come gli elettrodomestici o la rubinetteria, dove le aziende italiane hanno conquistato posizioni di leadership in quasi tutti e cinque i continenti. Ne sa qualcosa Lucio Pinetti, presidente di Confida, l’associazione rappresentativa dei produttori di macchine per la distribuzione automatica, di alimenti, bevande fredde, tè e caffè. Anche in questo settore, il Belpaese è leader mondiale ed esporta il 70% della propria produzione. «Circa tre macchine su quattro, tra quelle attualmente installate in Europa, hanno il marchio italiano», ricorda Pinetti, che sottolinea un aspetto tutt’altro che trascurabile: dal 2008 in poi, mentre la produzione per il mercato nazionale ha sofferto parecchio, l’export made in Italy di dispositivi per la distribuzione automatica ha sostanzialmente tenuto, consentendo al nostro Paese di conservare le proprie posizioni su scala globale. In alcuni segmenti di prodotto, come i dispositivi per l’erogazione del caffè, addirittura «non c’è partita», dice ancora Pinetti, «perché le macchine italiane mantengono il primato assoluto». Tuttavia, il presidente di Confida non rinuncia a mettere in evidenza qualche aspetto problematico che il made in Italy si trova oggi da affrontare. Purtroppo, a detta di Pinetti, le aziende del nostro Paese spesso dimostrano ancora una scarsa capacità di “fare sistema”, cioè di unire le forze, per contare di più a livello internazionale. «Per esempio», aggiunge, «nella federazione europea che riunisce tutte le associazioni del nostro settore, l’Italia non gode di una rappresentanza nei posti-chiave adeguata al suo peso industriale». Lo chiamavano IceIl Belpaese, dunque, presenta una contraddizione che lo affligge da tempo: può contare sull’inventiva e la creatività dei singoli imprenditori ma, quando si tratta di ragionare con logiche di squadra, evidenzia un pesante deficit organizzativo. Ma c’è pure un altro aspetto importante che viene sottolineato da Stefano Modena, senior partner della società di consulenza Governance Consulting. «Il made in Italy rimane un sinonimo di qualità in tutto il mondo ma, da solo, non basta più», afferma Modena. Secondo il consulente, infatti, per aggredire in maniera efficace alcuni mercati geograficamente molto lontani, a cominciare da quelli dei Paesi emergenti, occorre anche uno sforzo di tipo culturale, perché gli ottimi prodotti forniti dalle imprese del nostro Paese non necessariamente sono una garanzia di successo. Le aziende devono cioè capire che, in certe nazioni, le abitudini di acquisto dei consumatori sono profondamente diverse dalle nostre e vanno studiate con attenzione, prima di mettere in capo una determinata strategia commerciale. Il che, a detta di Modena, pone spesso gli imprenditori di fronte a una sfida importante: la necessità di attuare un cambiamento significativo nella governance, inserendo nei posti-chiave del proprio organico (anche nel consiglio di amministrazione) delle figure manageriali che hanno una vasta esperienza internazionale e una conoscenza approfondita dei mercati di frontiera che l’azienda intende aggredire. In altre parole, le imprese sono chiamate a una migliore gestione delle diversity, le diversità culturali che oggi si incontrano nell’ambiente economico circostante o all’interno della stessa forza-lavoro dell’azienda. Uscire da una logica troppo provinciale, insomma, è il primo passo da compiere per competere in un mondo globalizzato. Se il made in Italy ci riuscirà, secondo Modena, sarà vincente anche nei prossimi decenni. «La ricchezza del nostro tessuto produttivo rappresenta tuttora un grande patrimonio, con notevoli potenzialità di crescita», sostiene il consulente, «soprattutto nel variegato e vitale mondo dei distretti industriali che esistono in tutta la Penisola, non solo al Nord ma anche al Sud».