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Se ti fondi, paghi meno tasse
A che punto è la notte? L’economia internazionale, dopo la crisi perfetta iniziata con il caso dei subprime e il fallimento della Lehman Brothers, ha dato qualche segnale di ripresa. Gli interventi degli stati nell’economia per salvare le banche, prima di tutto, e poi i settori del manifatturiero a più alto contenuto di occupazione (come l’automobilistico) sono riusciti. Ora gli istituti di previsione parlano di un Pil di nuovo in crescita: l’America è in positivo già nell’ultimo trimestre dell’anno; l’Europa dovrà aspettare invece il 2010, ma anche qui la risalita sta per iniziare. Certo ci vorranno anni per recuperare quanto si è perso nel 2008-2009. E la nuova ondata keynesiana dei governi ha portato a un aumento esponenziale di deficit pubblici cui prima o poi si dovrà porre rimedio. Così come si dovrà far fronte al potenziale inflazionistico generato da tutta la carta moneta messa in circolazione per non far mancare al sistema liquidità. Insomma, anche se il buio più fitto è ora squarciato da un po’ di luce, l’oscurità rimane. E nel 2010 prevarrà il chiaro o l’ombra? E in particolare nell’economia italiana che cosa succederà? Business People ne ha parlato con Alberto Quadrio Curzio, preside della Facoltà di Scienze Politiche della Cattolica di Milano, editorialista del Sole24Ore, uno degli osservatori più ascoltati della realtà politica, economica e sociale italiana.
A guardare freddamente i dati statistici sembra che l’Italia esca dalla crisi certo non brillantemente, però con meno ossa rotte di molti altri Paesi anche economicamente più reputati e più solidi. È un’impressione fondata?Direi di sì. Finora il Paese ha resistito meglio di altri in Europa.
Il solito stellone italico?No. Sono tre le ragioni che ci hanno permesso di poter vantare questo risultato. La prima va cercata nel nostro sistema bancario, che era esposto meno di tanti altri in operazioni a rischio. Le banche italiane si sono mosse, tutto sommato, con prudenza. Aiutate anche dai risparmiatori che, malgrado la crisi si sia fatta sentire su tutti, hanno continuato a mettere da parte qualcosa, a generare risparmio. La struttura finanziaria delle famiglie italiane si è dimostrata solida, fatto molto importante in momenti di crisi.
La seconda ragione?Va fatta un’altra considerazione di ordine generale. L’Italia ha un sistema economico ben equilibrato. Nel senso che siamo secondi in Europa, dopo la Germania, nel settore manifatturiero; siamo ancora secondi dietro la Francia nell’agricoltura; nel turismo abbiamo perso alcune posizioni, ma siamo pur sempre ben piazzati; il nostro settore terziario, poi, non è sbilanciato verso la finanza. In definitiva, l’Italia ha un mix economico corretto. E anche questo ci è di aiuto.
Ci ha permesso di limitare i danni.Esatto. Assieme a un terzo elemento: il clima sociale ha tenuto, si è avuta prova di una forte coesione. Di fronte alla crisi industriale, ai posti di lavoro messi in pericolo, c’è stato un comportamento molto responsabile da parte di tutti. Di questo bisogna dare atto anche ai sindacati.
E il governo, come si è comportato? Che giudizio dà?I ministri più esposti verso i temi della crisi, quello dell’Economia, Giulio Tremonti, e quello del Welfare Maurizio Sacconi, hanno fatto quello che si poteva. Era difficile fare di più.
E per il futuro che cosa si deve fare? Alcuni, all’interno della stessa maggioranza di governo, chiedono misure per rilanciare i consumi. Si può agire in questa direzione?Io credo che sia molto difficile introdurre misure per ridurre la pressione fiscale, visto il livello del nostro debito pubblico. Non dimentichiamo che il differenziale fra titoli di Stato tedeschi e italiani stava andando verso i tre punti: ora è sceso a 0,80. Segno che i mercati hanno capito che il governo non ha intenzione di aprire la borsa, che il ministro del Tesoro tiene la barra dritta.
È d’accordo con quello che ha dichiarato Tremonti: si può aumentare il deficit pubblico solo se bisogna rifinanziare gli ammortizzatori sociali?Sì, è una posizione che condivido.
Però qualcosa bisognerà fare per favorire la crescita, per far ripartire l’economia nel 2010. Lei che suggerimenti dà?Bisogna premettere che, se il quadro dell’economia globale non migliora, difficilmente le misure prese dall’Italia da sola potranno avere efficacia. Comunque qualcosa di concreto da fare c’è, soprattutto per rendere più competitivo il nostro apparato produttivo. Noi dovremmo prendere della misure concrete per favorire quello che si chiama “il quarto capitalismo”, vale a dire le imprese che fatturano fra i 50 milioni e i 3 miliardi. Sono circa 4.500, rappresentano il 25% del fatturato diretto del settore manifatturiero; il 40% se si considera anche il fatturato indiretto.
E lei dice che bisognerebbe aiutare queste aziende medio-grandi?No. Io dico che bisognerebbe aiutare le imprese minori, le 500 mila piccole aziende che costituiscono la gran parte della forza produttiva italiana, ad accorparsi e crescere. Se il nostro apparato produttivo potesse contare su, diciamo, 10 mila imprese medio-grandi invece che 4.500, allora avrebbe una capacità di competere a livello internazionale ben superiore ai livelli attuali. Perché non dobbiamo dimenticare che per reggere la concorrenza globale occorrono delle dimensioni minime: la piccolissima industria fa molta più fatica.
Ma come si fa a convincere i piccoli, i Brambilla, a concentrarsi, a fondersi con altri Brambilla, magari loro acerrimi concorrenti?Bisogna pensare a strumenti finanziari specifici. Penso per esempio a dei fondi di private equity, espressione del sistema bancario, finalizzati proprio a favorire queste operazioni. Credo anche che simili strumenti dovrebbero essere favoriti dalla fiscalità. Questa è un’idea che è stata ripresa anche dal presidente della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti, e dallo stesso Tremonti.
Questa idea potrà essere utile per rafforzare il sistema produttivo italiano. Però potrà dare risultati solo a mediolungo termine. Nell’immediato che cosa si potrebbe fare?Bisognerebbe aprire il capitolo delle infrastrutture: potrebbe mettere in moto tutto.
C’è però un problema serio: come si finanziano?Io condivido quanto ha detto Tremonti all’ultimo Ecofin: bisogna che l’Europa di svegli, che affronti con progetti di respiro questa crisi. L’Unione potrebbe fare un’emissione di titoli europei, di bond, anche per una cifra consistente, diciamo mille miliardi di euro, per finanziare le grandi infrastrutture. È una cifra che rappresenta circa il 10% del prodotto interno lordo europeo e potrebbe essere garantita (non finanziata) dalle riserve auree delle banche centrali.
Sarebbe una specie di piano Marshall autoprodotto?Sì, qualcosa di simile al grande piano di finanziamenti varato dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale per rilanciare l’economia. Solo che questa volta gli europei farebbero da soli. Io credo che non sarebbe difficile piazzare sul mercato dei bond di questo tipo, anche a lunghissima scadenza, per esempio 30 anni.
Sinceramente: è realistico questo progetto? L’Europa, con le sue divisioni e le sue diffidenze, può avviare un’operazione finanziaria di questo respiro e di questa durata?Capisco lo scetticismo, è giustificato. Ma dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo. Se l’Europa vuole ripartire, deve pensare a grandi progetti, a grandi infrastrutture. Come fa la Cina.
Speriamo che in Europa prevalga la saggezza, la voglia di accettare sfide così importanti. Ma nel frattempo l’Italia ce la farà? Che cosa ci aspetta nel 2010?L’Economist ha scritto che saremo il primo Paese a riportare il rapporto deficit/Pil sotto il 3%. E questo è un giudizio incoraggiante.
Sì, ma abbiamo anche accumulato un debito pubblico enorme, dal quale non sarà facile rientrare. È vero che anche gli altri Paesi hanno imboccato questa strada, ma il nostro problema resta.Il nostro stock di debito a fine anno sarà superiore al 115% del prodotto interno lordo. È ovvio che preoccupa: come dice Tremonti, è difficile gestire il terzo debito pubblico del mondo senza essere la terza economia. Però, se l’economia riparte e il rapporto debito/Pil ritorna attorno al 104-105%, allora è sostenibile. Ce la facciamo. Bisogna però che quello stock non aumenti ancora.
Credits Images:Alberto Quadrio Curzio è professore ordinario di Economia politica alla facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica dal 1976 e preside dal 1989. Nel 1977 ha fondato il Centro di ricerche in Analisi economica Cranec dell’Università, di cui è direttore. È stato per dieci anni rappresentante degli Economisti italiani al Cnr, presidente dell’Istituto Lombardo e presidente della Società Italiana degli Economisti