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Risorgere dalle ceneri
Il crollo di Wall Street e il suo impatto sulla società americana. Sono passati 80 anni dal martedì nero che segnò la fine della prosperità economica usa e l’inizio di una nuova era,di cui furono portavoce artisti come Charlie Chaplin, Ernst Lubitsch, Frank Capra, John Steinbeck, Duke Ellington, Benny Goodman e una giovanissima Billie Holiday
Coloro che comprarono azioni nella metà del 1929 e le tennero, videro passare la maggior parte della vita da adulti prima di ritornare in pareggio». Sono passati 80 anni dalla crisi del ‘29, ma l’essenza e il ricordo di quella deflagrazione e di tutto ciò che ne seguì sono ancora assai vivi. Dopo la Grande Guerra gli Stati Uniti avevano conosciuto un periodo di prosperità e progresso, sullo slancio soprattutto del settore automobilistico (che aveva trascinato con sé quello metallurgico, petrolifero, dei trasporti, edile). Tuttavia, agli investimenti e al continuo aumento della produttività non corrispose una proporzionata crescita del potere d’acquisto. Nei primi anni dopo la Grande Guerra lo sviluppo era stato sostenuto dai risparmi accumulati negli anni bellici e dai bassi tassi d’interesse: ma non furono posti limiti alle attività speculative delle banche e della Borsa, dovute alla volontà da parte degli acquirenti di detenere titoli per aumentare il proprio capitale. A tutto questo va aggiunta la responsabilità degli uomini d’affari, rappresentanti di holding che avevano interesse affinché i titoli si alzassero. Le dichiarazioni ottimistiche si sprecavano, spingendo i risparmiatori all’acquisto. L’aumento del valore delle azioni industriali, però, non corrispondeva a un effettivo aumento della produzione e della vendita di beni tanto che, dopo essere cresciuto artificiosamente per via della speculazione diffusasi in quegli anni, scese rapidamente e costrinse i possessori a una massiccia vendita, che provocò il crollo della Borsa. Il 29 ottobre, il famigerato Martedì Nero, il mercato vide svanire 14 miliardi di dollari di valore, portando la perdita della settimana a 30 miliardi, dieci volte di più del budget annuale del Governo Federale, molto più di quanto gli Usa spesero in tutta la Prima Guerra Mondiale.
Un nuovo inizioDopo una prima fase di vuoto e disperazione, gli americani parvero ricordare che la ricchezza è frutto del lavoro e della fatica e non dell’arricchimento facile e della speculazione priva di leggi. Votarono in massa, nel 1934, Roosevelt e il suo New Deal, un pacchetto di interventi che creava lavoro e cercava di rilanciare l’economia. Rinacque la voglia di conoscere e di studiare che contribuì alla nascita di un’industria culturale di massa. Non è un caso se fu negli anni ’30 che il cinema americano raggiunse il massimo splendore: e non solo per tentare di svagare lo spettatore triste e senza il becco di un quattrino, ma anche per veicolare un nuovo modello di cittadino…un onesto lavoratore lontano anni luce dai modelli precedenti, gangster o avventurieri che fossero. Così, il cinema finì per avere un ruolo fondamentale per la ripresa psicologica della popolazione, rilanciando ottimismo, fiducia e valori come il matrimonio, la famiglia, il lavoro, la virtù, la vita sociale. Per raggiungere tali scopi serviva una produzione cinematografica comprensibile da ogni strato della popolazione, e il compito fu in gran parte assolto ricorrendo a modelli come il romanzo ottocentesco (“alla Dickens” o “alla Balzac”), dove l’intrattenimento si mescolava al linguaggio ricercato e a temi solidamente tradizionali. Per giungere a un numero più ampio possibile di spettatori, era necessario un grande apparato produttivo, capace di far fronte a una domanda enorme: la risposta fu il sistema degli Studios. A partire dagli anni ‘30, col massiccio migrare degli autori dall’Europa, il cinema mondiale si concentrò quasi tutto attorno a Hollywood, culla di grandi investimenti e di forti guadagni. Fu anche il periodo dei film di denuncia del capitalismo sfrenato, delle sue contraddizioni e dei suoi ritmi di lavoro (come gli indimenticati capolavori di Chaplin, Luci della città e Tempi Moderni), della commedia sofisticata “alla” Ernst Lubitsch (la cui punta di diamante è Trouble in Paradise, in italiano Mancia competente), dei film sognanti e commoventi di Frank Capra come La follia della metropoli e Accadde una notte.Ancora più impressionanti i cambiamenti nella letteratura, se si pensa ai vari romanzi di John Steinbeck culminati nel capolavoro Furore, che ancora oggi resta una delle fonti storico-letterarie più adeguate per meglio comprendere la Depressione (ne fu tratto un film meraviglioso di John Ford con Henry Fonda, dove il finale cupo fu cambiato in ossequio al New Deal), alle opere di Faulkner, O’Hara, Howard Fast (che con Il cittadino Tom Paine e L’ultima frontiera mise in discussione radicale la conquista del West).Anche il jazz divenne una valvola di sfogo per gli americani. Negli anni dell’affermazione di talenti leggendari come Duke Ellington, Benny Goodman e una giovanissima Billie Holiday, la crisi spingeva a ballare, al ritmo della musica suonata da orchestre che, senza dubbio, permisero una maggiore partecipazione e consapevolezza da parte dei neri dei propri diritti di cittadinanza.La ristrutturazione non riguardò solo la cultura, ma anche la scuola e l’università, che con il New Deal subirono riforme consistenti nei programmi e nei finanziamenti, permettendo un rilancio dell’istruzione. Tra gli anni ’30 e ’40 fiorì così uno straordinario dibattito di idee in campo letterario, economico, sociale, filosofico e scientifico. Dalla Grande Depressione rinacque un’America diversa, multietnica e multiculturale, che aveva ritrovato un senso di cittadinanza comune. La crisi offrì agli Stati Uniti l’occasione di ripensare il modello di società e di ricostruire un tessuto economico, politico e finanziario, senza comprimere i diritti individuali e allargando quelli sociali.