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Quanto mi costa il federalismo

Tutti dicono che “la strada è quella giusta”, ma converrà veramente alle aziende? Le imprese potrebbero pagare più tasse, soprattutto sugli immobili. E c’è chi sostiene che parte delle risorse sarà distribuita in maniera disomogenea a causa della compartecipazione dell’Iva. Come lo vedono le Confindustrie di Lombardia, Lazio e Sicilia

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Il federalismo fiscale municipale non sarà del tutto indolore per le aziende. Se lasciamo da parte i possibili vantaggi di una maggiore efficienza degli enti locali, che dovranno gestire con più oculatezza le proprie risorse (ma si sa, è solo un auspicio), da un punto di vista strettamente fiscale il rischio di sovraccarichi è quanto mai reale. Non sono i punti salienti della riforma a dover impensierire gli imprenditori, tanto è vero che a prima vista sostanzialmente non cambia nulla. Bisogna andare a fondo, leggere tra le righe. Il punto è la discrezionalità che avranno i comuni nello stabilire rincari o diminuzioni dell’Imu, l’imposta municipale unica che dal 2014 sostituirà l’Ici, l’Irpef e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari attinenti ai beni non locati, per la componente immobiliare. La base imponibile dell’Imu sarà la stessa dell’Ici, d’accordo, e la misura è fissata allo 0,76%. Ma i comuni potranno variarla, diminuendola o aumentandola, sino a 0,3 punti percentuali. Ed è qui che scatta il rischio del sovraccarico fiscale, anche perché i comuni hanno l’esigenza di recuperare i mancati introiti causati dalla manovra da 2,5 miliardi che Tremonti ha varato la scorsa estate. Non è tutto: la compartecipazione dei comuni all’Iva prevista dalla riforma potrebbe creare problemi sperequativi tra i territori in cui operano le società, oltre che complicazioni amministrative di chi gestisce l’impresa. Ci si può per lo meno consolare pensando che la nuova burocrazia non graverà troppo sull’attività dei commercialisti che, giurano, non rivedranno i loro onorari al rialzo con l’arrivo del sistema tributario federalista. Ma andiamo con ordine. Come si è detto, l’unica vera, costosa novità riguarda l’Imu. «Mentre i privati cittadini possessori di seconde case con l’introduzione di un tributo che ne sostituisce due andranno in pareggio o magari ci guadagneranno, le aziende vedranno aumentare le tasse da pagare su immobili industriali, laboratori, negozi e uffici», spiega Claudio Carpentieri, responsabile dell’ufficio Politiche fiscali Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa). «Questo perché per le imprese non c’è tassazione sulla rendita, e il calcolo del tributo da pagare sull’immobile strumentale avviene attraverso il reddito d’impresa generato dal suo utilizzo. In pratica c’è una mera sostituzione tra Ici e Imu, che se a livello globale rimane invariata, spostandosi da un comparto all’altro causa una perdita per le aziende». Le variazioni sulle imposte da pagare sono ben esemplificate qui in basso, nella tabella con gli effetti dell’Imu sulle imprese ad aliquota massima. Che succede per esempio a un’azienda che ha un immobile industriale del valore di 987 mila euro? Oggi con l’Imu ad aliquota ordinaria fissata allo 0,76% e l’Ici al 5 per mille si pagano 2.566,20 euro. Applicando una variazione dell’Imu dello 0,3% come legittimamente i comuni potrebbero decidere di fare, lo stesso immobile genererebbe tasse per 5.527,20 euro. Più del doppio. E la situazione può persino peggiorare al mutare delle condizioni di partenza.Il discorso che riguarda l’Iva compartecipata dai comuni non ha invece direttamente a che fare con le aziende, ma per il responsabile delle Politiche fiscali del Cna merita ugualmente di essere messo in evidenza, per gli effetti indiretti che può sortire sul contesto in cui opera un’azienda. «Il criterio scelto per il versamento dell’Iva è quello del territorio in cui viene consumato il bene finale», dice Carpentieri. «Questo sistema di distribuzione non crea problemi all’impresa, è vero, ma secondo me provoca sperequazione sulterritorio. Saranno avvantaggiati i comuni che ospitano centri commerciali e outlet rispetto ai comuni limitrofi, visto che riceveranno parte dell’Iva sui prodotti venduti in quegli esercizi. Volendo adottare un sistema più equilibrato, si dovrebbe legare il versamento dell’Iva in riferimento alle possibilità di spesa del cittadino nel proprio comune. Ma a quel punto un’impresa dovrebbe chiedere a ogni soggetto a cui vende un prodotto o un servizio la sua residenza. Sarebbe semplicemente pazzesco». E far versare la quota compartecipata nel comune in cui c’è la sede legale dell’azienda in questione per Carpentieri sarebbe ancora peggio: «Pensiamo a una insegna della distribuzione moderna che ha sede legale in Lombardia, ma con punti vendita in tutta Italia. Si verrebbe a creare una sperequazione che va oltre il livello delle amministrazioni locali, e che coinvolgerebbe addirittura le regioni».

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L’Imu sostituisce l’Ici e l’Irpef sulla componente immobiliare di immobili non locati

Il versamento dell’Iva è compartecipato dai comuni (in misura ancora da stabilirsi)

Le pubbliche amministrazioni hanno nuove funzioni di controllo sull’evasione fiscale

La riforma invece non preoccupa i commercialisti, per i quali il quadro che sta emergendo adesso è molto meno problematico di quello che si era prefigurato all’inizio, quando sembrava che ci sarebbe stata proliferazione di tributi a livello comunale e regionale. «A livello comunale invece la grande rivoluzione si traduce per l’appunto nella trasformazione dell’Ici e dell’Imu», conferma Enrico Zanetti, coordinatore dell’Ufficio studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti. «È probabile che per le aziende ci sia così un aggravio in termini impositivi, ma rispetto ai costi della consulenza non ci sarà alcun tipo di variazione. E anche per quanto riguarda il versamento dell’Iva non cambierà nulla: cambieranno solo le modalità in cui stato regioni e comuni si divideranno il gettito prodotto: sono problematiche che appartengono al back office del sistema fiscale, non riguardano il contribuente».

Avanti tutta (quelli che possono)Alberto Barcella – Presidente di Confindustria Lombardia«Il cosiddetto federalismo municipale va considerato solo come uno dei tasselli del più vasto federalismo fiscale: l’importante è che l’impianto generale regga alla prova dei fatti. Le imprese italiane sono convinte di un’evoluzione federale del sistema, purché sia accompagnata dal decentramento di responsabilità e decisioni con l’incremento dell’efficienza della macchina amministrativa. Uno dei rischi della riforma federalista è che la pressione fiscale non si riduca, ma addirittura peggiori. L’incremento degli oneri esiste, non va sottovalutato, però non bisogna prenderlo come un pretesto per bloccare un tentativo di riforma che va nella direzione giusta. L’auspicio è che il meccanismo si muova rapidamente, soprattutto là dove può dare migliore prova di sé. Non vorrei che si condannasse il Paese ad andare alla velocità del vagone più lento. Bisogna sganciare i vagoni che sono in grado di sfruttare subito l’esperienza del federalismo, come la Lombardia e il Veneto, e beneficiare del loro ruolo di locomotive. Il nostro slogan in questo senso è: scateniamo le imprese, scateniamo la Lombardia. Dobbiamo essere messi in condizione di sperimentare gli aspetti virtuosi del federalismo senza doverci attenere alla capacità di adeguamento di altri parti del Paese. Per evitare che le altre regioni vengano abbandonate a loro stesse si possono trovare altre formule».

Non c’è sviluppo senza solidarietàMaurizio Stirpe – Presidente di Confindustria Lazio«La riforma del federalismo sarà utile nella misura in cui riuscirà a coniugare efficienza a solidarietà. Il federalismo non potrà dispiegare i propri effetti se non riesce, attraverso il fondo di perequazione, a rendere minori le distanze che ci sono nel nostro paese. È giusto che i tributi confluiscano direttamente nei comuni dove la gente risiede, ma non ci si può dimenticare di chi ha meno fortuna. Sono comunque convinto che per le aziende cambierà poco o niente. Nel Lazio noi abbiamo un altro problema, il decreto che istituisce Roma capitale, e una delle questioni che più ci sta a cuore è il riequilibrio tra la crescita di Roma e quella della provincia. La riallocazione delle risorse può dare spinta alle zone periferiche, ma ripeto, solo se il federalismo è coniugato con il concetto di perequazione. Il futuro assetto istituzionale del Lazio rimane comunque per noi il punto da cui partiranno tutte le considerazioni per capire quale sarà la sorte delle province, e se sarà possibile creare un business plan regionale capace di privilegiare le specialità dei territorio. Devo ammettere però di avere delle perplessità per quanto riguarda la capacità dell’amministrazione di gestire la riforma».

La priorità: responsabilizzare la politicaIvanhoe Lo Bello – Presidente di Confindustria Sicilia«Il federalismo fiscale municipale può essere per noi industriali un fondamentale elemento di supporto. Siamo convinti che provocherà una forte responsabilizzazione delle classi dirigenti: la politica, soprattutto quella meridionale, non ha mai messo tra le sue priorità la lotta alle inefficienze e agli sprechi, spende ma non risponde politicamente ai cittadini. D’ora in poi le amministrazioni locali avranno due possibilità: se sono efficienti potranno diminuire la tassazione, se sono inefficienti dovranno per forza aumentarla. In questo modo le loro capacità saranno finalmente misurabili e i cittadini potranno sanzionarle politicamente. Certo, siamo consapevoli che ci potranno essere, per lo meno all’inizio, costi aggiuntivi per le imprese. Ma mettendo sulla bilancia le incognite che riguardano l’implementazione di un sistema che dovrà andare a regime in tempi che non sono ancora chiari, e la possibilità di costituire una classe politica finalmente responsabilizzata, noi non abbiamo dubbi su cosa scegliere».