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Pirelli diventa cinese: parte l’opa di ChemChina

Il gruppo orientale entra come socio di maggioranza. Prezzo fissato a 15 euro ad azione. Dirigenza, sede e ricerca restano italiani, la presidenza ai nuovi padroni

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Il gruppo cinese ChemChina entra come socio di maggioranza in Pirelli al 65%, mentre il restante 35% rimane ai russi Rosneft e a Camfin (Tronchetti Provera e storici alleati, Unicredit e Intesa Sanpaolo).

Più nel dettaglio, l’operazione prevede l’acquisto del 26,2% della Bicocca da Camfin, da parte della subholding di ChemCina Cncr: il prezzo ad azione è stato fissato a 15 euro, per un totale di 1,85 miliardi. Dopodiché tutti i rivenditori reinvesteranno nei nuovi veicoli. Questi, una volta ottenuto il via libera dell’Antitrust e del governo cinese, lanceranno un’opa sul flottante Pirelli, sempre a 15 euro ad azione.

Si prevede che l’operazione termini entro l’estate: una volta conclusa, Camfin e Rosneft potranno risalire di quota, passando dall’iniziale 35% fino al 49,9%. Di riflesso, il peso di ChemChina scenderà dal 65% al 50,1%.

In seguito, Pirelli Truck si fonderà con Aeolus Tyre, ossia il braccio cinese nel settore pneumatici, mentre Pirelli Tyre tornerebbe in Borsa nel giro di quattro anni, forte di multipli probabilmente più elevati.

TESTA TRICOLORE. «La partnership con un player globale come ChemChina rappresenta una grande opportunità. L’approccio al business e la visione strategica di Cnrc garantiscono lo sviluppo e la stabilità di Pirelli», sottolinea Tronchetti Provera, che rimane al comando con la carica di Chief Executive e vicepresidente operativo. La presidenza della newco Pirelli sarà invece cinese.

L’accordo prevede infatti la continuità e l’autonomia dell’attuale vertice di Pirelli. Restano italiane anche la squadra, la ricerca e la sede. Insoddisfatti, però, i sindacati che bocciano l’operazione: per Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, 1la vendita di un pezzo pregiato del nostro sistema industriale, quale è Pirelli, a capitali stranieri non sarebbe in sé un dramma se il capitalismo italiano fosse in grado di reggere le sfide della competizione internazionale e il governo avesse una politica industriale capace di indirizzare e tutelare le energie produttive che pure esistono in Italia».

Le fa eco Anna Maria Furlan, numero uno della Cisl: «E’ l’ennesima sconfitta per il nostro capitalismo finanziario, incapace di difendere i marchi storici italiani e di investire nelle aziende di grande qualità del nostro paese».