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Ma quale ripresa?

Gimkana tra i dati macroeconomici per scoprire “a che punto è la notte”. Disoccupazione in calo (o no?), PIL in crescita (o no?) E risparmio stabile (o no?). I numeri dell’economia italiana non sono mai stati così contraddittori e nessuno, o quasi, si azzarda a fare previsioni. L’unica certezza è che il mondo sarà trainato da paesi non occidentali. E dai loro consumi. Ecco perché

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A che punto è la notte» si legge nella Bibbia, libro di Isaia, nel contesto delle profezia sulla caduta di Babilonia. La domanda suona bene, è intrigante, adattabile a tante situazioni ed è diventata infatti, in tempi non così remoti, un libro della coppia Fruttero&Lucentini, un film di Nanni Loy, un brano di Francesco Guccini. La domanda è anche attualissima se la si vuole utilizzare nel tormentato campo dell’economia: come siamo messi? Si intravvede l’uscita dal tunnel della crisi? La ripresa è finalmente incominciata? Il problema di questo interrogativo, oggi, è che non si sa a chi porlo, a chi girarlo: gli economisti, che dovrebbero essere i destinatari naturali, sono francamente diventati interlocutori poco affidabili. Giovanni Sartori, commentatore principe del Corriere della Sera, sostiene che sono perfettamente inutili visto che non hanno saputo prevedere, nemmeno lontanamente, quello che stava per succedere sui mercati dopo il fallimento della Lehman Brothers. Con Sartori sono d’accordo in tantissimi e non senza buone ragioni. La realtà è che l’economia è diventata così complessa che è difficile decifrarla, misurarla. Proprio i dati sulla tanto invocata uscita dalla crisi lo confermano: fino a poco tempo fa tutti i grandi centri di previsione, dall’Ocse allo stesso Fondo monetario internazionale, per citare solo i più famosi, parlavano di cifre di crescita molto modeste per il 2010. Poi, nelle prime settimane dell’anno, hanno rivisto le loro stime. Gli ultimi dati parlano di un possibile aumento del prodotto interno lordo (Pil, vedere riquadro) del 4% a livello globale. Quasi un punto percentuale in più del forecast precedente. Agli inizi di gennaio è stato comunicato il dato relativo all’economia statunitense del quarto trimestre 2009: ha segnato un più 5,7%, molto al di sopra di tutte le aspettative. E questo riduce al 2,4% la caduta economica americana dell’anno scorso, che rimane tuttavia la peggiore dal 1946 a oggi. Lo stesso mutamento in positivo è stato registrato per quasi tutti gli altri Paesi: l’Inghilterra ha finalmente mostrato un segno più dopo un lungo periodo in profondo rosso; Francia e Germania si confermano come i Paesi più forti del Vecchio continente; anche l’Italia sta meglio di quanto si diceva fino a poco fa e crescerà nel 2010 a un tasso superiore all’1%. Un dato che potrà anche non entusiasmare, visto che da oltre un decennio il paese conosce tassi di sviluppo inferiori a quelli dei suoi concorrenti, ma è pur sempre meglio del -4,7 subìto lo scorso anno.Quindi le Cassandre, di fronte a questi aggiornamenti, a queste messe a punto migliorative delle stime congiunturali dovrebbero tacere, o per lo meno parlare con voce sommessa perché la realtà sembra smentirle. Soprattutto se si guarda ai protagonisti della nuova società opulenta internazionale, ai quattro Paesi cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina): queste, che sono diventate ormai le vere locomotive dell’economia internazionale, viaggiano con tassi di crescita vicini alle due cifre. La Cina, in particolare, quest’anno si svilupperà a un ritmo del 10% e l’anno prossimo continuerà la sua corsa, anche se con un lieve rallentamento (si parla comunque sono di qualche decimale in meno). Ed è sempre più vicino il giorno del Grande sorpasso, quando cioè l’economia della superpotenza asiatica sorpasserà nella formazione del Pil mondiale quella statunitense. Già oggi, comunque il suo potere finanziario è tale da condizionare l’intero sistema: è Pechino, con le riserve derivanti dal suo incredibile, crescente surplus commerciale, il principale sottoscrittore dei titoli di debito pubblico americani e di molti altri Paesi. Quando è esplosa la crisi della Grecia, si è parlato di un prestito che potrebbe arrivare proprio da lì. Ed è chiaro che la sola ipotesi non fa che aumentare il peso politico del governo cinese sulla scacchiera internazionale.

PIL fragile

Ma a parte l’exploit della Cina e dei Bric, l’ottima performance americana dell’ultimo trimestre 2009 e i sintomi di miglioramento degli altri Paesi che comunque marciano a passo assai più lento, questa ripresa appare molto debole. Gli osservatori sono divisi su tutto, ma su questo punto sono d’accordo. Le basi del rilancio non sono solide. Perché? Prima di tutto perché ci sono troppe disparità fra i vari Paesi. «Il sentiero della ripresa resta accidentato e disuguale», dice l’ultimo rapporto del Centro studi della Confindustria, «la Cina e gli altri Paesi emergenti hanno un ritmo spedito, mentre gli Usa e soprattutto l’Europa rimangono indietro».Ma c’è un altro elemento che raffredda il partito degli ottimisti: è il cosiddetto sentiment degli operatori. Si tratta delle valutazioni, raccolte periodicamente nei principali Paesi del mondo, fra tutti i responsabili degli acquisti delle grandi imprese, un termometro approssimativo, ma indicativo, della tendenza dell’economia reale. Questo indice è tornato negli ultimi tempi lievemente positivo, ma solo perché le industrie, dopo mesi di blocco quasi completo, hanno dovuto ricostituire le scorte. Gli indici che misurano invece le propensioni al consumo del pubblico hanno ancora un andamento piatto: la gente si tiene alla larga dai negozi, non compra o se lo fa cerca di spendere il meno possibile. La disoccupazione ha ridotto il potere d’acquisto complessivo; ma anche chi non ha perso il posto di lavoro si è fatto prudente.Ecco, il secondo grande interrogativo sulla ripresa si chiama proprio tasso di disoccupazione che è salito a livelli record: in Europa è – mediamente – al 10%, in Italia è lievemente al di sotto: 8,9. Però questo dato nazionale, come ha avvertito la stessa presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, è viziato dalla Cassa integrazione. Questo ammortizzatore sociale (sacrosanto, ci mancherebbe, nessuno pensa di toglierlo) permette però di considerare occupato (perché formalmente lo è) un lavoratore che in realtà è fuori dal sistema produttivo. Un lavoratore che, in altri Paesi, sarebbe conteggiato fra i disoccupati. Quindi attenzione a lasciarsi andare in Italia perché il dato statistico è appunto alterato dal massiccio ricorso alla Cig: un miliardo di ore. Questo la dice lunga su quello che la crisi ha significato per l’apparato produttivo italiano: fra l’ottobre 2008 e il dicembre 2009 sono state autorizzate più di 634 milioni di ore di cassa ordinaria e oltre 370 milioni di straordinaria.

Effetto debito

Questo – è ovvio – rappresenta un costo per il Tesoro italiano. Così come è stato, ed è, un costo per tanti Paesi (Italia inclusa) aiutare imprese che altrimenti rischierebbero grosso: il settore auto sarebbe agonizzante, negli Stati Uniti come in Europa senza sussidi pubblici arrivati sotto varie forme (dai prestiti agli incentivi). Ma qui sta proprio il terzo, grande interrogativo su questa ripresa, quello che più preoccupa gli esperti: il ciclo economico è stato falsato, drogato dall’intervento pubblico. Gli Stati sono intervenuti pesantemente per evitare che l’economia internazionale piombasse in una grande depressione paragonabile a quella del 1929. Per farlo hanno sfondato tutti i tetti posti al deficit e questi sono esplosi facendo salire oltre i livelli di guardia gli indebitamenti pubblici. L’Italia, per stare a casa nostra, ha uno stock del 116% del Pil, ma anche gli altri Paesi europei, una volta esempio di virtù, sono messi malissimo. Il problema di questi stratosferici debiti pubblici, in attesa di una exit strategy, è che devono essere finanziati. Nel 2010 i governi di decine di Paesi inonderanno i mercati con richieste di prestiti per sanare i loro bilanci in rosso. Si calcola che nei prossimi mesi, soltanto in Europa, verranno emessi titoli pubblici per 2.200 miliardi di euro. E non sarà facile collocare presso il pubblico una simile quantità di carta. La Grecia, come detto in gravi difficoltà finanziarie, deve offrire rendimenti reali attorno al 9% se vuole riuscire a piazzare i propri titoli. Altri Paesi considerati a rischio (come il Portogallo) si trovano di fronte allo stesso problema. Che potrebbe aggravarsi, estendersi: ora sotto tiro è Atene e, forse, Lisbona; ma in prospettiva potrebbe toccare a Madrid, a Dublino e a Roma stessa che con il terzo debito pubblico al mondo (pur non disponendo della terza economia del mondo, come ricorda sempre il ministro Giulio Tremonti) non può dormire sonni completamente tranquilli.In Italia è diffusa la convinzione che il nostro sistema economico, pur soffrendo la crisi, sia riuscito a reagire meglio di tanti concorrenti europei. C’è un partito di ottimisti caldeggiato dallo stesso ministro Giulio Tremonti; c’è anche Francesco Forte, professore di economia di lungo corso, editorialista di vari giornali, che quasi quotidianamente intrattiene i suoi lettori sulla grande tenuta e sulle prospettive incoraggianti per l’Italia. Recentemente una ricerca dell’Aspen e della Fondazione Edison ha dato un tonico al partito degli ottimisti pubblicando un rapporto con moltissime indicazioni positive: l’Italia, vi si legge, è il secondo sistema produttivo europeo dopo la Germania, ha sì un alto debito pubblico ma compensato dalla forte propensione al risparmio delle famiglie (fra le meno indebitate del mondo); ha una eccellente capacità competitiva e un “buon livello assoluto della ricchezza delle famiglie”. Sono dati che però sembrano contenere molto ottimismo della volontà. Non si vede, per esempio, come possano essere considerate ricche le nostre famiglie se percepiscono le retribuzioni più basse d’Europa. Quando la disoccupazione, se calcolata tenendo conto della cassa integrazione, ci metterebbe sullo stesso piano degli altri. Quando il sistema bancario continua a rifiutare di prendere rischi, non dà credito alle imprese e preferisce fare utili con la finanza. Alberto Alesina, professore ad Harvard, presentando recentemente a Milano il suo ultimo libro L’Italia fatta in casa, ha invitato a non farsi troppe illusioni. «Non so come si possa dire che l’Italia abbia resistito alla crisi meglio degli altri quando nel 2009 ha perso il 4,7% del suo Pil», ha detto. «E da più da dieci anni il Paese cresce meno degli altri». Se non si corre presto ai ripari, non ci aspetta un avvenire invidiabile. Con buona pace degli ottimisti.

ITALIA SÌ, ITALIA NO

+ 1%: tasso di crescita previsto per il 2010

– 4,7%: tasso di crescita del 2009

8,9%: tasso di disoccupazione in Italia

10%: tasso di disoccupazione medio dell’UE

un Milione: ore di cassa integrazione tra ottobre 2008 e dicembre 2009