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Che fine ha fatto l’industria 4.0?
Il Piano dell’ex ministro Calenda aveva portato la questione all’ordine del giorno e dato il via agli investimenti delle imprese, ma ora sembra che il vento stia cambiando. Ecco cosa ha spinto le aziende a tirare i remi in barca e cosa dobbiamo aspettarci
C’era una volta il Piano Industria 4.0, ma c’è ancora? E, soprattutto, ci sarà in futuro? Si parla di nuove tecnologie, di IoT, Cloud Computing, Big Data, A.I., Realtà virtuale e Realtà aumentata, tutti driver dell’imminente Quarta rivoluzione industriale, ma in Italia ci vorrebbero aruspici e fondi di caffè per capire se il Paese stia cavalcando l’onda o se invece ne stia venendo travolto. Un rapido flashback. Nel 2016, il ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, annuncia il Piano Industria 4.0, incardinato nella legge di Bilancio 2017. Si tratta di un pacchetto di misure di ampio respiro che servono a mettere il sistema Paese sui binari giusti. Il 2017 si chiude con una crescita spettacolare degli investimenti delle aziende (+11%, 13 miliardi di euro: 10 in macchinari e 3,3 in beni immateriali) grazie ai 20 miliardi di euro messi in campo dal governo, ai quali si aggiungono i 9,8 miliardi del 2018. Poi, però, il governo cade e ne arriva un altro, che lo scorso agosto si suicida, per essere sostituito dal terzo governo in tre anni. E ora? I dati dell’Unione costruttori italiani macchine utensili, cioè di coloro che producono quei macchinari che chi vuole investire nella Rivoluzione 4.0 deve comprare, sono più utili della sfera di cristallo. Fu questa associazione a certificare il successo del Piano Calenda ed è la stessa a dire che il vento sta cambiando: nel secondo trimestre dell’anno si è registrato un calo degli ordinativi del 31,4%, frutto di un forte rallentamento della domanda interna (-43%) ed estera (-28%). Cos’è successo? Una prima risposta la fornisce il vicepresidente per la politica industriale di Confindustria, Giulio Pedrollo. «Non si è data la dovuta continuità a Industria 4.0, un piano di politica industriale che non si vedeva da decenni. Questo pacchetto di interventi coordinati prevede contemporaneamente azioni su investimenti innovativi, finanza, infrastrutture di rete, competenze ecc. È evidente che quando io modifico anche solo uno dei parametri fondamentali di un progetto integrato, do alle imprese un segnale di incertezza, che si traduce in una immediata paralisi degli investimenti», spiega il manager veronese.
Il contesto internazionale ha contribuito a gelare l’ottimismo degli imprenditori, ma molto ha inciso il passaggio da Industria 4.0 a Impresa 4.0, piano varato dalla coalizione gialloverde che inizialmente prevedeva, tra le altre cose, la sparizione di una misura molto cara alle imprese. «Ci vogliono orizzonti di almeno un triennio per investimenti del genere. Il super-ammortamento in particolare lo abbiamo sempre considerato un paracadute. Chi non fosse riuscito a beneficiare dell’iper-ammortamento, poteva planare su un altro cuscinetto. Qualora, però, quest’ultimo fosse stato eliminato, si sarebbe aperta una voragine nei conti dell’azienda», riassume la questione il dirigente di Confindustria. «Le imprese hanno bisogno di continuità», ragiona Marco Bettucci, Category Leader in Operations e Supply Chain Management di Sda Bocconi School of Management. «Molte hanno avviato un percorso, lavorando su processi innovativi, nuove linee di produzione, robotica: nel momento in cui finissero questi finanziamenti, diverse di loro smetterebbero di investire. È necessario che questi investimenti in innovazione non vengano concessi una tantum, divenendo come spesso accade una droga del mercato, ma siano più continuativi, anche perché le nostre imprese sono state ferme per anni e non è pensabile che possano colmare il gap tecnologico in un anno solo».
Però la questione è complessa. Nell’equazione che risolve il mistero della risposta italiana alla sfida 4.0, ci sono altri termini da considerare. Per esempio, la cultura imprenditoriale italiana e la propensione delle aziende a investire in assenza di pacchetti di stimolo. Una questione direttamente legata alla precedente riguarda la destinazione degli investimenti: su cosa si è investito? A questa domanda risponde il docente della Sda Bocconi: «Se andiamo a vedere i progetti che sono stati poi finanziati, notiamo che molti avrebbero potuti esser sviluppati anni fa; sono quelli che potremmo chiamare poco innovativi. Però, va detto, che le aziende hanno investito in cose che servivano per il proprio business, e questo è positivo».
Se l’obiettivo era quello di ridurre il gap tecnologico con i concorrenti stranieri, c’è ancora poco da festeggiare. Secondo l’EY Digital Manufacturing Maturity Index 2019 elaborato da Ernst&Young, solo il 14% delle imprese tricolore ha raggiunto un livello avanzato di sviluppo digitale e interconnessione, il 29% si affida ancora alle tecnologie tradizionali e soltanto il 12% ha approntato un programma per dotarsi delle competenze richieste dall’industria 4.0. Per l’85% del campione di imprenditori intervistati, l’ostacolo principale allo sviluppo è la scarsa cultura imprenditoriale. E, infatti, un rapporto del Mise del luglio 2018 evidenziava che l’86,9% delle imprese italiane non utilizza tecnologie 4.0 né ha in programma di farlo. A tal proposito, il professor Bettucci ha un’idea chiara: «Quello che probabilmente succederà, lo si intuisce guardando a come si sta muovendo l’Ue, è che il tema dell’industria 4.0 verrà fatto convergere su quello della sostenibilità. In breve, si potrebbe scegliere di investire risorse non sull’innovazione in generale, ma quella più utile in termini di sostenibilità». Si tratterebbe di un modo furbo di rinnegare l’austerity senza dire che questa ha fallito. Ma agli imprenditori italiani interessa poco: loro scrutano il cielo e aspettano cenni dal nuovo esecutivo, sperando che il piano Calenda non diventi il piano calende. Greche, naturalmente.
Articolo pubblicato su Business People, novembre 2019
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