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Europa, più versiamo meno abbiamo

Oltre al rilevante contributo al fondo salva-Stati (mai utilizzato), ogni anno l’Italia dà a Bruxelles molto più di quanto riceva sotto forma di finanziamenti, peraltro spesso sprecati per progetti di dubbia utilità. Colpa dell’inefficienza cronica della nostra amministrazione

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All’aeroporto Sant’Anna di Crotone, è difficile trovare la fila al banco check-in. Ogni anno, infatti, dallo scalo calabrese partono appena 30 mila viaggiatori, meno di un terzo rispetto ai 100 mila che vi transitavano nel 2007 e circa un decimo in rapporto ai 300 mila che le autorità cittadine e regionali ambivano a raggiungere in poco tempo. Invece di aumentare negli ultimi anni i viaggiatori sono purtroppo diminuiti, mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’aerostazione.

Peccato, però, che le mire espansionistiche del Sant’Anna siano costate al bilancio dello Stato oltre 1,7 milioni di euro per lavori di ampliamento, coperti in parte con 740 mila euro provenienti dai fondi strutturali dell’Unione Europea. Se ne sono accorti pure i giudici della Corte dei Conti del Lussemburgo che, nel vigilare su come vengono utilizzati i soldi dell’Ue, hanno citato proprio l’aeroporto di Crotone quale esempio di spreco delle risorse comunitarie.

Di vicende simili a quella capitata in Calabria, i giudici del Lussemburgo ne hanno trovate parecchie anche all’estero. Tuttavia, se è vero che qualche Paese straniero non può darci troppe lezioni, una cosa resta comunque certa: quando si tratta di utilizzare le risorse europee, l’Italia incappa spesso in brutte figure a livello internazionale. Non a caso, siamo lo Stato con il numero maggiore di frodi sui fondi comunitari. Soltanto nel 2013, ne abbiamo fatte 302 contro le 97 della Bulgaria, che si classifica in seconda posizione in Europa, ma a lunga distanza dalla Penisola.

Meglio rinunciare ai fondi

Non possiamo farne a meno

QUANTO CI COSTA. I problemi legati all’utilizzo dei fondi Ue da parte dell’Italia, però, vanno ben al di là delle vicende giudiziarie. Il fenomeno delle frodi, che vale nel complesso 60 milioni di euro l’anno, non è certo trascurabile ma è ben poca cosa rispetto alle più ampie criticità che riguardano i costi e i benefici che il nostro Paese ricava dall’essere membro dell’Unione Europea.

Pochi mesi fa, il ministero dell’Economia ha inaugurato sul proprio sito Web un’intera sessione che si chiama #prideandprejudice (orgoglio e pregiudizio) in cui vengono snocciolati alcuni dati sui fondamentali economici dell’Italia, allo scopo di smentire molti luoghi comuni. Tra le cifre ricordate dal ministero, c’è per esempio quella sul contributo che il nostro Paese ha dato al Fondo Salva-Stati e al Meccanismo europeo di stabilità, i due organismi che hanno il compito di aiutare le nazioni di Eurolandia finite sull’orlo del fallimento.

Il tesoretto versato dal governo di Roma ammonta alla bellezza di 60 miliardi di euro, il 18% circa del totale. Soltanto la Francia e la Germania ci superano, giacché i contributi da pagare sono proporzionali al Pil di ciascun Paese. Non va dimenticato, però, che l’Italia non ha mai avuto neppure un centesimo di aiuti dal Fondo salva-Stati, a differenza della Grecia, del Portogallo, dell’Irlanda e persino della Spagna, che ha messo in sicurezza le proprie banche con i soldi garantiti dagli altri membri dell’Eurozona.

Ma c’è un altro dato, che il sito del ministero dell’Economia non cita e che fa ben capire l’impegno finanziario del nostro Paese nei confronti dell’Ue. Ogni anno, per il funzionamento dell’Unione Europea, il governo di Roma paga infatti ben 16,5 miliardi di euro di contributi e riceve da Bruxelles circa 10- 11 miliardi di trasferimenti (dati aggiornati al 2013). Dunque, in valore assoluto, l’Italia dà all’Ue più di quel che ottiene in cambio, con un disavanzo di circa 5 miliardi.

Nulla di scandaloso, se si tiene conto di un particolare importante: la Penisola, per lungo tempo, ha incassato dalle autorità comunitarie più di quel che ha pagato. La differenza è divenuta negativa soltanto da pochi anni, con l’allargamento dell’Ue ai Paesi dell’Est. A parte questo dettaglio, però, una cosa è fuori discussione: stare in Europa rappresenta per l’Italia un costo non trascurabile.

NON BISOGNA DIMENTICARE

CHE IL SALDO E’ DIVENUTO

NEGATIVO SOLO DI RECENTE

CON L’ALLARGAMENTO

DELL’UNIONE AGLI STATI DELL’EST

IL DISASTRO DEI FONDI. Sarebbe bello, dunque, se il nostro Paese riuscisse almeno a mettere a frutto questo impegno finanziario, spendendo al meglio i soldi che arrivano da Bruxelles. E invece, secondo gli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi, le cose vanno al contrario di come dovrebbero andare.

In uno studio dal titolo assai eloquente, Il disastro dei fondi strutturali europei (pubblicato sul sito Lavoce.info), Teoldi e Perotti giungono all’amara conclusione che, per l’Italia, sarebbe meglio rinunciare a buona parte delle risorse in arrivo dall’Ue, in cambio un sostanzioso sconto sui contributi da versare.

Per quale ragione? L’analisi dei due economisti si sofferma soprattutto sull’utilizzo dei fondi strutturali, che ogni anno ammontano a 3 miliardi di euro in tutto e sono destinati all’Italia attraverso due veicoli: il Fondo sociale europeo (Fse), che si occupa prevalentemente di lavoro e formazione professionale, e il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr), che serve per dare sussidi alle imprese e finanziare le infrastrutture.

Nell’analisi, vengono dunque tralasciate volutamente le risorse impiegate nei sostegni all’agricoltura, che in Italia ammontano a circa 6 miliardi di euro all’anno su un totale di 11 miliardi di trasferimenti (dati aggiornati al 2013).

Per quel che riguarda i fondi strutturali, Perotti e Teoldi disegnano un fallimento del nostro Paese su tutti i fronti. Nella formazione professionale, per esempio, i soldi europei si disperdono in una miriade di progetti. Tra il 2007 e il 2012, per esempio, le iniziative in questo campo sono state oltre 500 mila e hanno assorbito ben 7,4 miliardi di euro di risorse, di cui 3,5 miliardi stanziati dal Governo, altri 3,5 pagati dall’Ue e 400 milioni messi dalle Regioni.

Con quali risultati? È difficile rispondere a questa domanda perché, a detta dei due economisti, non esiste un sistema di valutazione efficace e non ci sono indici ben precisi per stabilire se un determinato corso di formazione o un sussidio alle imprese finanziato dall’Ue servano davvero a creare lavoro. Spesso, l’unica cosa che producono è una pletora di funzionari e consulenti che ruotano attorno al business dei fondi strutturali, le cui risorse finiscono non di rado in progetti discutibili.

TUTTO IN MANO A REGIONI E PROVINCE. Perotti e Teoldi citano per esempio l’esperienza di Giovani Eccellenze Lucane, che ha visto la Regione Basilicata spendere più di 2,5 milioni di euro per dare una borsa di studio di oltre 33 mila euro a 76 neolaureati. Peccato, però, che il progetto abbia avuto la durata di un solo anno, alla fine del quale i beneficiari dell’assegno di ricerca si sono ritrovati tutti a spasso, senza che fosse previsto per loro un programma di inserimento nel mondo del lavoro.

Quanto avvenuto in Basilicata, tuttavia, è soltanto un caso su migliaia, viste le numerose vicende riportate dai giornali, che raccontano di come i fondi europei siano spesso serviti per attuare iniziative di dubbia utilità come un concerto di Elton John a Napoli o un concorso ippico internazionale a Caserta. Eppure, il sistema di erogazione dei fondi europei si basa su un meccanismo di per sé efficiente.

Per far sì che i Paesi beneficiari siano responsabilizzati e non buttino via i soldi, ogni progetto deve infatti essere cofinanziato in parti uguali: metà dei costi sono a carico dell’Europa e metà gravano sullo Stato che utilizza le risorse. Poiché il diavolo si annida nei dettagli, però, Teoldi e Perotti mettono in evidenza come il sistema del cofinanziamento, almeno in Italia, sia in realtà fallimentare.

La quota nazionale delle spese necessarie per mettere in atto i progetti, infatti, è in gran parte a carico dello Stato centrale, mentre l’ideazione e la gestione di ogni iniziativa spetta alle Regioni e alle Province, che contribuiscono ad appena il 4% dei costi complessivi. Con questo sistema, gli enti locali sono ben poco incentivati a non sprecare le risorse, perché si trovano a gestire dei soldi che arrivano in gran parte da Roma, oltre che da Bruxelles. Di conseguenza, si assiste spesso a una corsa degli amministratori provinciali e regionali a mettere in campo progetti poco utili o a volte strampalati, soltanto per non perdere il treno dei finanziamenti europei.

ALMENO IN TEORIA, IL SISTEMA DI EROGAZIONE

SI BASA SU UN MECCANISMO EFFICIENTE.

PER RESPONSABILIZZARE I PAESI,

OGNI PROGETTO DEVE ESSERE

COFINANZIATO IN PARTI UGUALI

OLTRE I LUOGHI COMUNI. Tra gli studiosi che si occupano da anni di analizzare come vengono spesi i fondi comunitari, c’è tuttavia anche qualcuno che ha una posizione meno severa rispetto a quella di Perotti e Teoldi. È il caso di Gianfranco Viesti, professore dell’Università di Bari, che ha scritto diversi saggi sull’utilizzo delle risorse dell’Ue e ha redatto, assieme alla collega Patrizia Luongo, un documento dal titolo: I fondi strutturali europei, otto lezioni dall’esperienza italiana.

Si tratta di un’analisi in cui l’economista pugliese avanza proposte concrete per aumentare l’efficienza e l’efficacia delle iniziative comunitarie, invitando però ad andare oltre i luoghi comuni. In realtà, non mancano i casi in cui i soldi di Bruxelles vengono spesi bene, pur essendoci molti margini di miglioramento. In particolare, anche Viesti sostiene la necessità di introdurre criteri molto più efficaci per la valutazione dei risultati e riconosce che, non di rado, il personale delle Regioni e degli enti locali non ha una preparazione adeguata per gestire le risorse.

Inoltre, secondo il professore, è innegabile che i fondi europei vengano impiegati per finanziare un po’ troppe iniziative in campi diversissimi tra loro, dalla banda larga all’ambiente fino alla formazione professionale. C’è dunque bisogno di una programmazione migliore, in modo che le Regioni e gli enti locali siano costretti a muoversi su binari prestabiliti.

Per Viesti, insomma, i fondi strutturali sono una spia dei problemi che affliggono il Sistema-Italia, più che esserne la causa. Se la pubblica amministrazione funziona male, anche i soldi di Bruxelles vengono spesi male. In qualunque modo la si pensi, tuttavia, una cosa resta certa: se il nostro Paese non riesce a mettere a frutto la propria appartenenza all’Ue, la colpa è solo e soltanto degli italiani e non dell’Europa.

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