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Chi ha paura dell’economista cattivo?
La categoria degli economisti nel suo complesso è tra i grandi imputati della crisi, ma dietro il suo discredito si cela un pericolo: rischiamo di dimenticare cosa ha frenato il sistema e cosa serve per ripartire. Ne discutiamo con alcune figure emergenti nel panorama italiano
La teoria economica ha un pessimo pr. Se per secoli è stata chiamata la scienza triste, ora è il primo imputato della crisi. Mentre la regina d’Inghilterra in visita alla London School of Economics chiede «perché non avete saputo anticipare il crollo?» e Christian de Boissieu, presidente del Conseil d’Analyse Économique, appare in televisione su France-culture per tentare di giustificare la categoria, cerchiamo invece di capire cosa ha da offrire la più recente ricerca in economia a chi è in cerca di una bussola per tornare a crescere e in che modo invece minaccia rendite e potentati. Ne discutiamo con alcune figure emergenti nel panorama macroeconomico italiano Alberto Mingardi, direttore generale del think tank Ibl Istituto Bruno Leoni, Tommaso Monacelli, research fellow dell’Innocenzo Gasparini Institute for Economic Research e research affiliate del Cepr di Londra, e Alessandra Casarico, professore associato dell’università Bocconi e research affiliate del Cepr. Scopriamo così che c’è bisogno di teoria economica. I governi sembrano infatti esser passati dal ritornello «Finché la musica va, si continua a ballare» – con le parole di un autorevole partecipante del forum di Davos nel gennaio 2008 – al «Si salvi chi può», un atteggiamento che porta all’improvvisazione di una serie di misure che si susseguono convulsamente, appena lanciate e subito vecchie, inadeguate. Si rischiano così di dimenticare i punti fermi su cui gli addetti ai lavori hanno raggiunto un certo consenso tanto da essere diventati parte della cultura economica generale. Questi principi però, chissà perché, raramente riescono a tramutarsi in politiche.
La concorrenza non è un mostro
«Una questione che era abbastanza percepita e oggi lo è molto meno» comincia Mingardi « è il tema della concorrenza. È evidente che siamo in un momento in cui il libero mercato gode di una minore buona stampa a livello internazionale e si fa più fatica a portare avanti progetti di liberalizzazione. Ma soprattutto per servizi che sono molto inefficienti e molto costosi in Italia, in un momento in cui si ha una diminuzione del reddito disponibile, le liberalizzazioni sono più interessanti e non obsolete». La concorrenza, infatti, innesca una spirale positiva che porta i prezzi a calare. «Adesso, con la crisi in corso, sembrerebbe una bestemmia pensare di liberalizzare, per esempio, il mercato del credito» aggiunge Monacelli «ma l’Italia è paradossale da questo punto di vista. Si vanta di avere banche al sicuro dalle turbolenze finanziarie ma, se davvero non fossero in pericolo, sarebbe solo perché da vent’anni sfruttano rendite monopolistiche sui consumatori. Sono istituti di credito che, protetti dal legislatore, hanno innovato pochissimo e hanno fatto profitti su attività molto tradizionali, facendogli pagare prezzi più alti in Europa».
Ma il mercato non è onnipotente
Se mercati ingessati del credito e del lavoro impediscono al merito di emergere e non valorizzano le idee migliori, al tempo stesso il libero mercato non è una panacea per tutti i mali. Ci sono situazioni a cui le discipline economiche fanno riferimento come fallimenti del mercato in cui l’equilibrio raggiunto autonomamente dalle forze della domanda e dell’offerta non è efficiente. È il caso di mercati non concorrenziali o monopolistici, con esternalità ecologiche e sociali pesanti o gravi asimmetrie informative. Secondo Casarico: «È importante ridare centralità ai temi del fallimento del mercato: bisogna comprendere come l’esplicita considerazione di queste caratteristiche modifichi le indicazioni e le prescrizioni di politica economica. Una visione troppo “fiduciosa” del funzionamento dei mercati ha influenzato negli ultimi anni la formulazione di misure economiche che hanno poi contribuito alla crisi attuale». E anche quando il libero mercato si presenta come la scelta ottimale, spesso una regolamentazione è necessaria. Monacelli ritiene questo principio basilare: «Esiste una profonda differenza tra mercati liberi e mercati non regolati. Bisogna tornare a pensare in maniera profonda la teoria della regolamentazione. Negli ultimi vent’anni, il tema era considerato residuale, perché si riteneva di vivere in un’epoca di grande moderazione dovuta a politiche più scientifiche, in grado di garantire la stabilità monetaria, e mercati finanziari più sviluppati, che ridistribuiscono il rischio in modo globale tra tutti gli operatori economici. Quando un’economia rende più profondi i suoi legami su scala mondiale, però, diventa più vulnerabile a eventi a bassa probabilità che, quando accadono, hanno effetti catastrofici». La crisi è scoppiata anche perché la valutazione del rischio fatta dalle singole istituzioni finanziarie era tarata sul rischio individuale e non considerava il fatto che il comportamento analogo di tanti operatori creasse le condizioni perché si verificassero proprio quegli eventi considerati improbabili. Come assicurarsi da questo rischio macroeconomico? «È un classico caso in cui la teoria economica sostiene il bisogno di più regolamentazione» spiega Monacelli.
Produttività: crescita zero
Sicuramente poi l’Italia è un Paese sostanzialmente fermo, che non riesce a ripartire perché la sua produttività non cresce. Monacelli argomenta: «La produttività non aumenta perché le istituzioni italiane non lo consentono. Negli ultimi 20-25 anni si è compreso che per i Paesi in via di sviluppo la chiave della crescita è proprio nelle buone istituzioni ma è evidente che anche nei Paesi a elevata prosperità avere istituzioni valide è essenziale perché la crescita continui. Bisognerebbe ripensare il design istituzionale italiano, ma il mio timore è che, miopi di consenso di breve periodo, continuiamo a vivacchiare con piccole misure che hanno poco a che fare con la gravità dei nostri problemi». Per questo rischiamo di uscire dalla crisi ancora meno produttivi di Paesi più coinvolti di noi, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, se l’intervento statale lì non sarà troppo distorsivo. Le crisi infatti aiutano a ridistribuire le risorse dai settori meno produttivi (come l’auto) a quelli più produttivi. «Per tornare in pista, l’Italia avrebbe bisogno di una serie di riforme simultanee», continua Monacelli. «Finora ci sono state forti pressioni per la liberalizzazione del mercato del lavoro e le assunzioni a termine sono diventate predominanti, ma il loro effetto sulla produttività è stato nullo perché è mancata la riforma simultanea del mercato dei beni e del credito e una riforma dell’apparato giudiziario. La disoccupazione è calata, ma il Paese non ne ha tratto benefici in termini di benessere. Le fasce più marginali del mondo del lavoro e quelle più deboli, come i giovani, hanno subito la flessibilità senza percepirla come un’opportunità perché, in un sistema ingessato e incapace di valorizzare il merito, non ha aperto opportunità verticali di ascesa sociale ma solo orizzontali, da un impiego precario all’altro. Così è aumentata la concentrazione del reddito nelle fasce più ricche della popolazione e questo è rischioso, soprattutto in un momento di crisi». La teoria economica parla a questo proposito di occupazione senza crescita. Secondo Mingardi, l’Italia non sembra investire nel suo futuro. C’è stato molto rumore per la classifica sulla libertà economica di Wall Street Journal e Heritage Foundation in cui il Paese è 76esimo dopo il Kirghizistan e la Namibia. Commenta Mingardi: «Questo studio dà solo una visione condensata della realtà, ma serve a capire quali barriere gli stati frappongono all’iniziativa economica e quali Paesi, negli anni a venire, incentiveranno uno sviluppo impetuoso dell’economia, e quali no. Noi abbiamo troppe norme troppo complesse che rendono difficile per le persone fare impresa, e la situazione può solo peggiorare ora che avremmo più bisogno di stimolare la creatività individuale».
Un po’ di autocritica
Se sicuramente la politica avrebbe da imparare dalla teoria economica, è vero anche che la disciplina nel suo complesso non ha compreso i rischi a cui il sistema andava incontro (con autorevoli eccezioni come i Nobel Stiglitz e Krugman). «All’origine della crisi è stata sì la follia di una parte del sistema finanziario» afferma Monacelli «ma anche un fallimento individuale degli economisti. Chi studiava finanza in modo molto tecnico parlava solo con chi comprendeva la finanza in modo molto tecnico e i macroeconomisti né la comprendevano a quel livello né la consideravano importante, giudicandola un insieme di modelli matematici molto fini a sé stessi. Così nessuno aveva capito le possibili ripercussioni macro degli elementi tecnici dei contratti finanziari. Da ora in poi finanza e macroeconomia dovranno parlarsi molto di più». Più in generale, conclude Casarico: «L’economia dovrebbe tornare a essere uno strumento di interpretazione della realtà».
Concorrenza: per servizi inefficienti e costosi, in un momento di crisi, le liberalizzazioni sono più interessanti e non obsoleteRegolamentazione: mercati liberi e mercati non regolati non sono sinonimiFallimenti del mercato: bisogna comprenderli e gestirli Istituzioni: sono essenziali per lo sviluppo dei Paesi a basso reddito come per la crescita dei Paesi avanzatiRiforme: del mercato del lavoro, dei beni, del credito e dei titoli,dell’apparato giudiziario devono essere simultanee e incentivare la mobilità sociale
L’Ibl ha elaborato un progetto per lo sviluppo dell’imprenditoria nel meridione, Mingardi lo spiega così: «Sarebbe interessante e utile sostituire gli aiuti diretti allo sviluppo con l’istituzione di una no-tax region, cioè esentare dal pagamento delle imposte tutte le imprese dell’area. Questo avrebbe un costo limitato per lo stato ed eviterebbe le distorsioni. Se tutti possono godere di una condizione di favore per dieci anni, infatti, non solo i soldi degli aiuti non vanno agli amici degli amici, secondo una logica politica, ma anche le imprese estere o di altre regioni possono beneficiarne investendo lì. Questo porta a un innesto di competenze e di fattori produttivi essenziali per lo sviluppo».