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Chi ha paura delle aziende zombie?
L’Ocse le ritiene dannose per la crescita economica e le condanna al fallimento, ma sono sempre di più gli esperti in disaccordo. Perché gli indicatori di bilancio non dicono tutto di un’impresa. E chiuderle rischierebbe solo di peggiorare la crisi italiana
Non sono più vive ma non sono nemmeno morte, vivono in un limbo, attaccate a un respiratore che sono le linee di credito garantite da banche disperate. Sono le cosiddette aziende zombie, definizione irrispettosa ma folgorante che identifica imprese con oltre dieci anni di età e che da tre anni o più non riescono nemmeno a ripagare gli interessi sul debito. Sarebbero tecnicamente fallite, ma vengono tenute in piedi per volontà dello Stato o, più spesso, delle stesse banche creditrici che, in caso di fallimento, dovrebbero iscrivere a bilancio la perdita, con ovvi riflessi sul loro stato patrimoniale, e quindi preferiscono continuare a prestare. Una lettura di questo tipo è molto netta. Da un punto di vista mediatico, è quella prevalente, anche perché a suffragarla ci sono documenti come l’Economic Policy Paper n°21, Confronting the Zombies: Policies for Productivity Revival, pubblicato dall’Ocse lo scorso dicembre. In breve, le aziende moribonde sono dannose perché provocano un rallentamento della produttività e, quindi, della crescita economica. Operando in perdita, infatti, creano distorsioni del mercato; causano credit misallocation, cioè sperpero di capitali che potrebbero essere impiegati più produttivamente, se prestati ad aziende sane; infine, insieme al rischio medio, fanno aumentare il costo del denaro, con il risultato che imprese più meritevoli devono spendere di più per finanziarsi.
Il problema è molto diffuso in tutto il mondo. Solo per stare nell’Unione Europea, secondo uno studio del Center for Economic Policy Research, dei 540 miliardi di prestiti erogati tra il 2012 e il 2015, l’8% sarebbe finito ad aziende sull’orlo del fallimento. Ma questa è solo una media. Ci sono Paesi virtuosi e l’Italia non è tra questi. Per l’Ocse, è seconda in Europa (dopo la Grecia) per capitali sprecati, e con la crisi le cose sono peggiorate. Se nel 2007 andava a imprese in agonia il 7% dei capitali, nel 2013 la percentuale era salita al 19%. In quello stesso anno, era configurabile come zombie il 6% delle aziende tricolore, che assorbivano il 10% della forza lavoro. La soluzione, allora, è semplice: farle fallire. Report così asettici e tagliati con l’accetta, però, non trovano molti consensi tra gli esperti del settore. «Il problema di analisi come quella dell’Ocse e di gran parte della stampa economica è che si concentrano quasi esclusivamente su uno dei due elementi che caratterizzano le aziende zombie, cioè la distruzione di ricchezza. L’Ocse su questo punto picchia duro. Certo, gli indicatori di bilancio sono importanti però non raccontano tutto di un’azienda», spiega a Business People Antonio Corvino, professore di Strategie e politiche aziendali all’Università di Foggia. «Quelle zombie sono imprese che si caratterizzano soprattutto per un business model desueto, non più adatto all’arena competitiva. È questo il vero problema. La loro non è una crisi passeggera perché il loro modello industriale è quasi incrostato, e il top management o il proprietario non sono in grado di modificarlo né di intervenire», spiega il docente. Manca il business model, cioè l’elemento che può raccontare il futuro di un’impresa. «E questo è un altro film». A parlare è Jimmy Clarini, fondatore e amministratore unico di Entriage, una delle principali società italiane specializzate in quello che in gergo si chiama turnaround aziendale, l’attività di chi prende un’azienda con difficoltà più o meno gravi e la risana. «Prima di intervenire», continua l’esperto di ristrutturazioni aziendali, «valutiamo se l’impresa è salvabile e facciamo una prima diagnosi ma velocemente, perché un’azienda che sta esaurendo la liquidità, che è la spia principale della crisi, potrebbe non avere molto tempo. Il turnaround ha tre livelli di intervento: il tattico per gestire la liquidità nel breve, quello industriale per rimodellare il modello di business e l’organizzazione, e poi c’è il turnaround finanziario. In breve, si fa ripartire prima la liquidità, perché l’azienda possa stare in piedi da sola, e in parallelo si lavora su margini e redditività, perché possa tornare in pareggio o crescere. Così si può invertire la rotta della nave».
Per sapere se questa navighi in buone acque o è il caso che cominci a preparare le scialuppe, un primo elemento da considerare sono i rating elaborati da società specializzate come, in Italia, Cerved, Crif e Modefinance, le cui valutazioni sono elaborate in base a modelli statistici e con l’impiego dell’Intelligenza Artificiale. Secondo l’ultimo report di Cerved, pubblicato a giugno di quest’anno, sono a rischio (livello massimo di pericolo) o vulnerabili (un gradino sotto) rispettivamente il 5,5% e il 15,1% delle grandi imprese, il 9,7% e il 21% di quelle medie, l’11,2% e il 26,1% di quelle piccole e il 19% e il 33,3% di quelle micro. I dati rivelano che quanto più diminuisce la dimensione, tanto più aumenta il rischio. Si arriva così a una delle grandi questioni del sistema industriale italiano, fondato sulla piccola-media impresa, ma con una preponderanza di microimprese. La taglia ridotta non è una maledizione; la creazione dei distretti industriali ha consentito all’Italia di trovare una sua via allo sviluppo. Ha però una conseguenza: che aziende molto piccole si sono finanziate prevalentemente attraverso prestiti bancari, piuttosto che tramite il mercato.
Nel caso italiano, quest’ultimo è preponderante e questa è un’altra caratteristica che spiega la debolezza sulla quale punta il dito l’Ocse. Si pensi al caso Autostrade: la nuova proprietà non ha investito risorse proprie, sono state le banche a mettere gli 8 miliardi per l’acquisto. «Tante aziende medio-piccole per svilupparsi non hanno utilizzato capitale proprio, ma hanno utilizzato la leva bancaria, indebitandosi oltremisura; con la crisi del 2008 e l’attuale stagnazione, molte imprese, quelle con rating negativo, non generano liquidità sufficiente a restituire il debito. In Germania, Regno Unito e Francia, le aziende hanno un rapporto mezzi propri/mezzi di terzi che è paritetico, quando i primi non sono superiori. In Italia è il contrario», spiega Clarini.
E questo determina una situazione paradossale. La crisi del 2007/2008 è nata sui mercati finanziari, sui quali, in Europa, si erano esposte le banche francesi e tedesche, più propense ad attività speculative. Ma quando la crisi ha raggiunto l’economia reale e le aziende hanno smesso di rimborsare i debiti, ad andare in tilt è stato il sistema bancario italiano. La stretta creditizia che ne è seguita ha aumentato le difficoltà delle imprese. Per le autorità europee, Bce in testa, è questa la strada da battere: maggiore severità nella concessione del credito. A farne le spese, però, sono prevalentemente le piccole imprese, cioè la spina dorsale del sistema produttivo italiano. Secondo Cerved, tra il 2016 e il 2017, le banche italiane hanno già ridotto la loro esposizione per 46 miliardi di euro verso le imprese più a rischio. Una politica apparentemente neutra e inappuntabile, in linea teorica, che però fa il gioco dei principali competitor di Roma, come Francia e Germania. Paesi i quali, questo l’Ocse non lo dice, hanno messo in sicurezza i loro sistemi bancari con ingenti fondi pubblici.
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