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Customer Experience: il nuovo imperativo dei brand
Costruire relazioni personali ed esperienziali con i clienti. È la nuova strategia dei brand di tutti i settori, lusso compreso, che hanno arruolato tra le proprie fila figure come i Chief Experience Officer. Ecco come stanno evolvendo tutti i canali di vendita, digitali e non
Mai come negli ultimi dieci anni le vendite al dettaglio stanno vivendo una profonda trasformazione. A questo riguardo, abbiamo una buona notizia e una cattiva. Quella buona è che a dispetto di cifre e classifiche diffuse più o meno responsabilmente dai vari istituti di ricerca, il settore retail non è per niente in crisi. Il dato degli acquisti online aumenta, ma parliamo di una percentuale stimata per il 2019 al 13,7% del totale, e che – secondo il portale Statista – sconta comunque un rallentamento significativo dei tassi di crescita dal 2014 a oggi. La cattiva notizia, invece, è che quell’86,3% di differenza, se vuole prosperare, deve passare le forche caudine delle nuove forme che assume il processo d’acquisto e che coinvolgono tutti gli aspetti del settore, a cominciare dal brand.
Il segreto è nel focus: non è importante come, ma perché. Capito questo, non solo online sale e flagship store non sono più nemici, ma addirittura potrebbero aiutarsi l’un l’altro. Come? Puntando su un cavallo vincente chiamato customer experience. In una intervista rilasciata al New York Times, Nicholas Sala, della prestigiosa maison di gioielli Boucheron, ha dichiarato che «il suo obiettivo primario non è la vendita, ma la creazione di una storia con il cliente». Sala, infatti, che si fregia dell’insolito titolo di Omni-channel and Client Experience Director fa parte di quei profili di cui il mondo retail non può più fare a meno: si chiamano Chief Experience Officer o Chief Client Officer, professionisti addestrati a pensare e a sentire con il cuore e la mente di chi compra, cercando di intercettarne le aspirazioni e costruire un percorso emozionale di cui l’acquisto è la naturale conclusione.
Tutto si gioca in una sorta di “terra di mezzo” tra emozioni e transazioni vere e proprie, come spiega Fab Dolan, direttore marketing di Google Canada; vince il brand che riesce a padroneggiarne le regole, vale a dire a comunicare al suo cliente con una voce chiara e inconfondibile i propri valori. Parole come inclusione, equità, solidarietà, sostenibilità entrano nel retail marketing quali potenti influencer. Sono ambiti dai contorni sfumati, dove gli errori costano caro. Fece discutere, ad esempio, il caso scoppiato nel novembre scorso quando il Ceo di Victoria’s Secret, Ed Razek, a chi gli chiedeva se nel prossimo show sarebbero state incluse modelle transgender o curvy, replicò con un secco «no», motivandolo con un «lo show vuole essere una fantasia». Una risposta che ha provocato l’immediata reazione di ThirdLove, brand americano di lingerie che si rivolge esplicitamente alle donne di qualunque taglia o forma, secondo cui Victoria’s Secret vende alle donne una fantasia maschile e non le apprezza per come sono. A Ed Razek questa scivolata è costata il posto: la sua posizione era incompatibile con i valori dell’azienda. Perché sono ciò che fa vendere tutto il resto. Perfino un gigante come Nike ha scelto per la campagna 2018 Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers fermo da oltre due anni: era stato bloccato dalla Federazione per essersi inginocchiato all’inizio di un incontro, a protesta contro gli abusi della polizia statunitense nei confronti degli afroamericani. Così facendo, il marchio di abbigliamento ha sposato il tema della giustizia sociale.
I grandi del settore del luxury l’hanno intuito e sono passati all’azione. Il problema è che le nuove figure in grado di interpretare e costruire il corredo valoriale ed emotivo intorno ai brand si basano su competenze trasversali molto recenti e di difficile definizione, che ancora non si studiano nelle università o nei master. L’approccio esperienziale prescinde dal mezzo e dall’oggetto, e maison come Givenchy e Kenzo hanno affidato questo ruolo così delicato a professionisti provenienti da settori completamente diversi ma dove si vive di esperienze, come il luxury travel e i motori di ricerca; e non è raro nemmeno il contrario, cioè che dal settore retail si passi a costruire un immaginario per l’e-commerce: è il caso di Francesca Danzi, che dalla consulenza nel commercio al dettaglio è diventata Chief Experience Officer per il brand online del lusso accessibile Tory Burch. Tale interrelazione di professioni e settori apparentemente lontanissimi si rifà tuttavia a una teoria: il “retailtainment”, termine coniato dal sociologo americano George Ritzer che già nel suo saggio del 1999 sui meccanismi del consumo – Enchanting a Disenchanted World, Revolutionising the Means of Consumption – teorizzava che la molla per incentivare il fatturato nel prossimo futuro (questo) fosse l’intrattenimento del cliente. Un’intuizione dell’animo umano che gli antichi romani, distribuendo panem et circenses, avevano avuto da un pezzo…