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Brand extrastrong

Il marchio è come una persona. Con il suo carattere e il suo stile. Che deve conquistare chi gli sta intorno e non farlo andare più via. Ecco come si fa a scegliere la strategia vincente

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Proviamo a immaginare il brand come una persona. Una persona che si deve presentare agli altri tutti i giorni nella sua forma migliore. E per riuscirci deve prepararsi, deve studiarsi, deve conoscersi e conoscere ciò che gli altri si attendono da lui. Il brand non è, allora, un semplice marchio, una facciata, ma è l’insieme di un’infinità di particolari ognuno dei quali deve essere definito con precisione. Altrimenti il risultato è un pacchiano cortocircuito. Ecco: il brand è coerenza con una visione strategica nella quale conta lo stile della pubblicità che lo promuove, la forma con cui l’addetto alla vendita lo propone, l’ambientazione nella quale è venduto. È la materializzazione delle virtù dell’azienda proiettate verso un pubblico di riferimento.Il valore di un’azienda consiste sempre più nel valore dei suoi asset intangibili. Tra questi il più importante è proprio il brand che in alcuni casi raggiunge cifre addirittura superiori al “prezzo” vero dell’azienda. Secondo la recente classifica Best Global Brands, realizzata da Interbrand, il marchio Cola Cola vale 68,7 miliardi di dollari rispetto a ricavi per 31,9 miliardi. Il marchio Ibm, secondo in classifica, vale 60,2 miliardi di dollari rispetto a ricavi per 103,6 miliardi mentre il brand Microsoft vale 56,7 miliardi di euro a fronte di ricavi per 60,4 miliardi di dollari. Insomma non è raro che il marchio valga più dell’azienda che lo ha generato, vuoi per la notorietà che ha raggiunto presso i consumatori, vuoi per la sua riconoscibilità, vuoi ancora per l’universo di significati di cui è portatore o per lo stile di vita che incarna.

Le leve in giocoVeniamo al punto: come è possibile costruire un brand forte? «Il punto di partenza» spiega Maurizio Di Robilant, presidente e fondatore della società di consulenza RobilantAssociati «consiste nell’individuare il talento guida delle aziende, che è la summa del suo patrimonio di competenze, know how, storia, cultura, attitudini e modi di fare, la sua personalità. Questa personalità si trasferisce sul marchio ed è una sorta di timone che consente di prendere ogni tipo di decisione strategica. È necessario pensare alla marca come a un essere vivente, fare in modo di costruire un set preciso di tutti gli elementi connotanti il suo profilo, dal prodotto alla comunicazione fino al punto vendita. Il peso di ciascun elemento di questo mix cambia in funzione delle peculiarità del marchio e del settore in cui opera». Oltre che naturalmente del tipo di obiettivo che si intende raggiungere. Se l’azienda punta a far conoscere il proprio prodotto a un pubblico ampio e indifferenziato forse lo strumento più efficace sarà la pubblicità su una Tv generalista, mentre se vuole conquistare i trendsetter, modaioli e cosmopoliti, utilizzerà strumenti come riviste, portali web specializzati e negozi ad alto contenuto emozionale. «Il retail è il territorio, il luogo, il teatro preferenziale» spiega Emanuele Sacerdote, vice president business development division in Moleskine e autore di Strategie Retail nella moda e nel lusso e Travel Retailing «nel quale il marchio può esprimere appieno la sua essenza e la sua anima, dove può far scatenare le suggestioni, i magnetismi e le emotività più forti nel consumatore. Qui l’azienda ha la possibilità di rappresentarsi nella maniera più esclusiva, completa e integrale, mostrando tutti gli elementi portanti della sua identità. In questo senso il retail viene utilizzato come “vettore di potenza” per proiettare il marchio al livello di megamarchio, che cioè ha la capacità di generare patrimonio aggiunto, per quanto intangibile, per l’azienda. La quale, a sua volta, può, attraverso di esso, generare una profittabilità maggiore. Il retail diventa uno strumento competitivo per potenziare le altre strategie e per far crescere il brand arricchendolo di contenuti, significati e senso».«Il punto vendita è diventato oggi fondamentale» conferma Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi e docente alla facoltà di Scienze della comunicazione e dell’economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. «In passato aveva una funzione solamente distributiva, ma oggi il controllo diretto della rete vendita, attraverso negozi monomarca e flagship store, ha una funzione non solo economica, perchè permette di incamerare il margine altrimenti lasciato al distributore, ma anche strategica, perchè permette di creare una relazione con il consumatore e così sintonizzare la strategia in funzione del feedback che ne riceve». Poi c’è la comunicazione vera e propria. Per Codeluppi «oggi più che mai il marchio può contare su una quantità di strumenti enorme. Il problema è diventato sviluppare un progetto unitario che sia coerente nel tempo. I brand di successo sono, infatti, quelli che sono riusciti a mantenere immutato per decenni il proprio messaggio, come ha fatto Nike che pur utilizzando linguaggi innovativi e sempre diversi, dagli anni ‘70 ha continuato a puntare sul concetto della sfida individuale, del mettersi alla prova, del “just do it”».

Sbagliare e correggersiE se si prende una strada sbagliata? Nel marketing l’errore è sempre dietro l’angolo. «Nei suoi lunghi anni di finanziarizzazione e monopolio» spiega Maurizio Di Robilant «Fiat aveva tralasciato aspetti come la propria storia, le proprie caratteristiche e la propria personalità. Dagli anni ‘70 a quando è stata attuata la recente operazione di rebranding la marca ha prodotto le vetture più brutte della storia. Il cambiamento è avvenuto quando l’impresa si è rimessa nel suo alveo naturale, che è quello industriale, e ha ricominciato a realizzare auto in grado di soddisfare le reali esigenze del suo target, ritrovando piano piano la sua anima, che è calda, vicina e morbida». Ma è il caso anche di brand come Eataly e Vertu. Il primo è un’insegna per la vendita di prodotti alimentari di alta qualità, provenienti da filiera corta e spesso caratterizzati da una produzione artigianale. Il secondo è un marchio di telefonia mobile di altissima gamma. «Entrambi utilizzano concept retail» afferma Emanuele Sacerdote «rappresentativi dell’identità di marca, unici nel loro genere e focalizzati sul loro consumatore ideale e potenziale. Eataly è un’esperienza di grande distribuzione secondo il concept dello slow food, dell’eccellenza, della qualità, dell’esclusività in un contenitore fortemente evocativo. Mentre Vertu offre prodotti di lusso e li vende in un environment di lusso. In passato utilizzavano come rete distributiva orologerie di alto livello, tuttavia la telefonia è un ambito nel quale è fondamentale spiegare il prodotto. Per questo motivo hanno creato dei negozi monomarca, dove proporre il loro cellulare proprio come un gioiello». In generale, conclude Vanni Codeluppi: «il marchio vincente è quello che riesce a trasformare un successo esplosivo in uno duraturo. È il caso di Timberland che da fenomeno di moda è diventato un brand permanente. Sono esempi eccellenti nel tempo Apple, Nike e Sephora a livello internazionale, mentre Barilla e Ferrero entro i confini nazionali».