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Banda larga in Italia, ecco quanto può valere

Potrebbero volerci 12 miliardi rispetto ai sei stanziati dal governo per l’Internet veloce, ma in ballo ci sono un aumento dello 0,3% del pil, l’incremento della produzione nonché la diffusione di business innovativi: riusciranno i nostri eroi a portarci in pari con le altre nazioni Ue?

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I manager dell’americana Netflix, la più grande piattaforma al mondo dedicata al noleggio di film e di serie Tv via Internet, ci stanno pensando da anni. E nel 2015, dopo aver temporeggiato parecchio, potrebbero finalmente decidersi a investire anche da noi, visto che la loro società si è già insediata con successo in gran parte d’Europa, dalla Norvegia all’Austria, passando per la Gran Bretagna, la Francia e la Germania. A frenare le mire espansionistiche dei creatori di House of Cards a Sud delle Alpi, però, c’è una debolezza strutturale del sistema Italia, che presto rischia di trasformarsi in un vero e proprio tallone d’Achille per il nostro Paese. Si tratta della scarsa diffusione in tutta la Penisola della banda larga (o ultralarga), cioè della rete che consente di navigare alla velocità della luce, facendo viaggiare spediti sul Web i Megabyte di traffico necessari a trasmettere i film di un big dell’intrattenimento come Netflix (che oggi ha più di 60 milioni di abbonati in tutto il mondo e fattura quasi 1,6 miliardi di dollari all’anno).

I RITARDI DELL’ITALIA

IL CONFRONTO TRA PAESI

ULTIMI IN EUROPA (O QUASI)Nel confronto con i maggiori Paesi del Vecchio continente, l’Italia si aggiudica purtroppo un triste primato: quello di avere la rete Internet più lenta di tutti. La quota di abitazioni della Penisola dove è possibile navigare a una velocità di oltre 30Mbit per secondo, infatti, è pari ad appena il 21% del totale, contro l’82% della Gran Bretagna, il 75% della Germania e il 61% della media europea. Si tratta di un gap che può trasformarsi in una pesante palla al piede per la nostra economia, visti i benefici che le reti di nuova generazione possono arrecare all’intero Paese. Lo sanno bene gli analisti della Ericsson che, alla fine del 2013, hanno pubblicato uno studio in partnership con la società di consulenza Arthur D. Little e con la Chalmers University of Technology sugli effetti economici della diffusione della banda ultralarga nei maggiori Paesi industrializzati. Un raddoppio della velocità media di connessione a internet, secondo la ricerca, può generare una crescita del pil attorno allo 0,3%, grazie a un mix di fattori come l’incremento di produttività delle imprese e dell’intero sistema economico, la diffusione di modelli di business innovativi, l’utilizzo più intenso del telelavoro, lo sviluppo del commercio elettronico e dell’e-government, cioè dei servizi digitali della pa. Per questo, se non riesce a dotarsi di una rete degna di una nazione industriale avanzata, l’Italia rischia di perdere altro terreno sul fronte della competitività internazionale.

LA STRATEGIA DI RENZINei mesi scorsi, prendendo atto dei forti ritardi accumulati, il governo Renzi ha promesso una svolta. Alle soglie della primavera, l’esecutivo ha presentato finalmente un piano nazionale con due obiettivi ambiziosi: consentire a tutta la popolazione, entro il 2020, di navigare sul Web a 30Mbit al secondo e permettere ad almeno il 50% dei residenti di connettersi a una velocità ancor maggiore, pari a 100Mbit al secondo. La cifra che verrà stanziata per raggiungere questo scopo è di 6 miliardi di euro, provenienti in parte dalle casse dello Stato (dal Fondo per lo sviluppo e la coesione-Fsc) e in parte dalle risorse comunitarie del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale-Fesr. Altri soldi arriveranno infine grazie al Piano Juncker, il programma di investimenti che la Commissione Europea ha varato nell’autunno scorso per riportare la crescita economica nell’Ue. Basteranno queste risorse per consentire all’Italia di colmare il gap accumulato nella banda larga?

LE NORME UE FRENANO I PIANI DI SVILUPPO: IN UN’AREA DOVE INVESTE UN’AZIENDA PRIVATA, LO STATO NON PUÒ PIÙ INTERVENIRE

«Certamente è positivo il fatto che il governo si sia mosso con un piano organico, che può consentirci di recuperare almeno una parte dei ritardi accumulati», dice Michele Polo, professore di Economia politica all’Università Bocconi e collaboratore del sito LaVoce.info. «Va dato atto all’esecutivo di averci messo la faccia ed essersi sforzato molto di più rispetto ai governi che lo hanno preceduto», gli fa eco Carlo Cambini, professore ordinario presso il dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Torino. Secondo Cambini, tuttavia, occorre verificare se le risorse stanziate, pur essendo notevoli, saranno sufficienti a raggiungere gli obiettivi fissati. In realtà, come ricorda il docente del Politecnico, molte stime hanno calcolato in 10-12 miliardi di euro la spesa necessaria.

PARTITA A SCACCHI TRA GLI OPERATORIConti alla mano, mancano dunque all’appello altri 6 miliardi di euro che devono aggiungersi a quelli programmati dall’esecutivo. Il governo pensa però che non sarà difficile trovare altri soldi, almeno in parte, grazie agli investimenti privati delle compagnie di telecomunicazioni. E lo testimonia l’accordo Telecom-Fastweb per sperimentare nuove soluzioni su fibra e rame (Fttc) e che coinvolge anche Huawei e Alcatel-Lucent. Sul territorio nazionale ci sono alcune aree molto popolose (circa 1.150 Comuni in tutto, classificati dai tecnici come cluster A e B) dove l’intervento statale non serve, se non in minima parte. A costruire le reti veloci nelle città più popolose saranno gli operatori telefonici che vedranno ripagato il loro investimento con i maggiori ricavi ottenuti. L’impiego dei soldi pubblici, secondo i piani del governo, sarà limitato a 6.950 municipi dei cluster C e D, dove l’investimento è troppo costoso per i privati, a causa della minore densità di popolazione. In queste zone, sarà dunque lo Stato a costruire una rete di sua proprietà. Il modello adottato dal nostro Paese per lo sviluppo dell’Internet di nuova generazione, insomma, si basa sostanzialmente su una partnership pubblico-privato. Funzionerà? Sarebbe bello rispondere di sì ma purtroppo, come sottolinea Edoardo Tedeschi, partner dello studio legale Osborne Clarke, «In Italia si registra al momento una maggiore conflittualità tra gli operatori rispetto all’estero». Le ragioni di questa conflittualità sono legate soprattutto a Metroweb, la società pubblica controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, attraverso il Fondo Strategico Italiano. Dopo aver portato la rete in fibra ottica in tutta Milano alle soglie del 2000, Metroweb è oggi il veicolo ideale per estendere la banda ultralarga all’intero Paese. Proprio per questa ragione, il governo vorrebbe fare entrare nel capitale della società le maggiori compagnie telefoniche nazionali, da Vodafone a Fastweb fino a Telecom Italia. Quest’ultima, però, ha posto come condizione per il suo ingresso nell’azionariato l’acquisizione del pacchetto di maggioranza di Metroweb: un’ipotesi contrastata invece dai vertici della Cassa Depositi e Prestiti che hanno rispedito al mittente la richiesta. Nel frattempo, lo stesso gruppo Telecom ha annunciato di volersi muovere in autonomia, avviando un proprio piano per raggiungere almeno 40 città della Penisola. E in questo quadro si inserisce l’accordo siglato con Fastweb per sperimentare nuove soluzioni su fibra e rame (Fttc), e che coinvolge anche Huawei e Alcatel- Lucent. Un scelta strategica che crea molti problemi al governo a causa delle norme europee sul divieto di aiuti di Stato. Applicando alla lettera le regole comunitarie, in quelle zone del Paese in cui ci sarà un investimento autonomo nella banda larga da parte di un’azienda privata, non potrà esserci sostegno pubblico ad altre società. In mezzo a tali questioni, il piano nazionale per la rete di nuova generazione rischia di impantanarsi. A risolvere i problemi, però, è arrivata una soluzione che (nel momento in cui si scrive) sembra l’uovo di Colombo: l’ingresso in partita di Enel, che potrebbe usare la capillare rete elettrica nazionale per portare la banda larga nelle case di tutte le famiglie, senza grandi costi. I cavi in fibra ottica, che consentono la navigazione ultraveloce su Internet, possono infatti convivere tranquillamente sui tralicci con i fili ad alta tensione che trasmettono invece l’elettricità.

CERCASI UNA KILLER APPLICATIONIn attesa di vedere quale sarà la soluzione infrastrutturale adottata, c’è da sperare che il programma non resti sulla carta ancora per troppi mesi e che inizi a concretizzarsi in tempi brevi. «Il ritardo accumulato è notevole e sarà difficile colmarlo entro il 2020», dice Tedeschi, che ricorda alcune date significative: «Mentre il nostro piano della banda larga risale al marzo scorso, gli altri maggiori Paesi europei si sono mossi con almeno cinque o sei anni di anticipo, cioè tra il 2009 e il 2010», dice l’avvocato di Osborne Clarke. Inoltre, anche ammesso che tutti gli obiettivi di costruzione della rete vengano centrati, il governo dovrà vedersela con un altro problema non trascurabile: la scarsa penetrazione di Internet in Italia, dove solo il 56% della popolazione naviga abitualmente sul Web, contro una media europea del 72%. Secondo Cambini, dunque, «c’è il rischio di costruire un’autostrada moderna ed efficiente ma poco trafficata». In altre parole, se la cultura digitale degli italiani resterà limitata, è difficile che certi servizi legati alla banda larga riescano a decollare, nonostante la disponibilità di una grande infrastruttura. Chi oggi non usa il commercio elettronico, per esempio, continuerà a non utilizzarlo in futuro, anche se i Megabit viaggiano più spediti. Stesso discorso per il telelavoro o per l’e-government. Anche se l’offerta sul mercato di certi servizi aumenterà, si rischia di assistere a una carenza strutturale di domanda. La pensa così anche Polo, che evidenzia la necessità per gli operatori di trovare una killer application, cioè di un’applicazione decisiva e vincente, un insieme di servizi che possano convincere milioni di italiani a dotarsi di una connessione ultraveloce alla rete. «Più che dall’e-government o da altre attività digitali della pubblica amministrazione », dice il professore della Bocconi, «credo che un ruolo importantissimo potrà essere svolto dall’offerta di contenuti d’intrattenimento, cioè di video trasmessi in streaming». Non a caso, i grandi operatori dei media come Telecom Italia, Sky o Mediaset studiano da tempo possibili alleanze e partnership, legate proprio allo sviluppo della banda ultralarga. Intanto, fuori dai confini nazionali, i big statunitensi come Netflix prendono le misure al mercato italiano.