Sostenibilità
Sostenibilità in Italia: un Paese diviso tra Nord e Sud
La seconda edizione del rapporto Cerved pone la Penisola in fondo alla classifica europea per performance economiche, ma sale al nono posto per quelle ambientali. Boom della finanza sostenibile
L’Italia non brilla per sostenibilità: su 29 nazioni europee, il nostro Paese occupa la quindicesima posizione ed è al di sotto della media soprattutto a causa delle cattive performance economiche e sociali, mentre vanta un buon livello di sostenibilità ambientale. Tuttavia, se scorporate, le regioni di Nord Ovest e Nord Est si piazzano addirittura al sesto e settimo posto, immediatamente a ridosso dei migliori cinque Paesi monitorati (Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Finlandia). La debolezza italiana è soprattutto economica: hanno risultati peggiori solo Romania, Cipro e Grecia, anche a causa di una produttività che da più di vent’anni non registra alcun miglioramento. Questa stagnazione, dovuta a una scarsa attrattività per gli investimenti esteri e alla limitata capacità di innovazione (investiamo poco in ricerca e sviluppo e siamo ultimi tra i grandi Paesi per digitalizzazione), è all’origine della crescita stentata, dei redditi fermi da dieci anni e del basso tasso di occupazione (57%, 10 punti sotto la media UE).
Non è certo una fotografia lusinghiera quella che esce dalla seconda edizione del Rapporto Italia Sostenibile, presentato oggi da Cerved Group. Lo studio, prendendo in esame centinaia di variabili tratte dall’ampio database di informazioni proprietarie del gruppo e da fonti pubbliche, definisce un indice generale di sostenibilità che integra aspetti economici, sociali e ambientali dei singoli territori. “Con questo strumento – commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved Group – ci proponiamo di aiutare i decisori, le istituzioni e le imprese a ragionare in termini di impatto: occorre misurare il fabbisogno delle comunità per pianificare correttamente gli obiettivi dei progetti pubblici e aziendali”.
La mappa europea della sostenibilità sociale (capitale umano, assistenza sociale, fragilità delle famiglie, sistema sanitario, di sicurezza e giustizia) restituisce un quadro molto simile a quello della sostenibilità economica, collocando l’Italia al di sotto della media europea, al diciottesimo posto tra i paesi analizzati. I forti divari territoriali sono confermati anche a livello sociale, con il Mezzogiorno al terz’ultimo posto, davanti solo a Grecia e Romania. Le debolezze dell’Italia derivano soprattutto da un’elevata fragilità delle famiglie (più di un quarto è a rischio povertà), da una scarsa capacità di formazione del capitale umano e da un sistema di sicurezza e giustizia molto poco efficiente. L’Italia spicca però nell’assistenza sociale e, soprattutto, nella sanità, dove si piazza al settimo posto.
La musica cambia, invece, quando si considera l’indice di sostenibilità ambientale: l’Italia è al nono posto, prima della Francia. Le regioni del Sud restano indietro, ma con un divario molto più ridotto. In particolare, pur con un territorio più fragile dal punto di vista sismico e idrogeologico, l’Italia vanta indici migliori della media europea in tutte le altre dimensioni analizzate: sono più bassi i livelli di inquinamento e le emissioni di gas serra, in netto calo negli ultimi anni. Per quanto riguarda i consumi e la riconversione energetica, l’Italia è sostanzialmente in linea con l’Europa, con un quinto dell’energia consumata che proviene da fonti rinnovabili, mentre i risultati sono decisamente migliori nel caso delle emissioni industriali: 5 tonnellate per abitante, con una riduzione del 25,4% dal 2011 al 2020, superiore di dieci punti alla media UE.
Una delle novità del Rapporto Italia Sostenibile 2022 è l’analisi della distribuzione del rischio fisico (sismico e idrogeologico) e di quello di transizione secondo i criteri della Tassonomia UE, individuando i settori e le aree che avranno maggiori costi per effettuare i necessari interventi, e dunque necessiteranno di più risorse. Incrociando le informazioni sulle sedi di tutte le società italiane con le mappe dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) e dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) è stata valutata l’esposizione di imprese e immobili alle diverse componenti del rischio fisico. Sono più di un milione (il 19,3% di 5,3 milioni, quelle iscritte al Registro delle Imprese) e impiegano 3,3 milioni di addetti le aziende a rischio fisico ‘alto’ o ‘molto alto’, in particolare nelle province appenniniche come L’Aquila, Vibo Valentia e Isernia; cifra che si dimezza (550 mila, oltre 2 milioni di lavoratori) se si valuta solo il rischio di frane e alluvioni, più forte nel Nord-Est, in Liguria e nel Delta del Po (Ferrara, Bologna e Pisa tra le province più esposte).
Basandosi sulla Tassonomia UE e su una serie di informazioni aggiuntive, Cerved ha poi definito un sistema che misura il grado di esposizione delle imprese italiane al processo di transizione, distinguendo quattro classi di rischio: i settori – come quelli dei combustibili fossili, o gli energivori – che necessitano di ingenti investimenti per riconvertire la produzione o ristrutturare gli impianti (a rischio transizione alto o molto alto); i settori manifatturieri, come ad esempio il sistema moda, che dovranno fare investimenti meno sostanziosi (a rischio medio); quelli a basso rischio e i settori green, già in linea con i requisiti previsti dalla normativa. In base a questa classificazione operano in Italia 932 mila società (2 milioni di addetti) con un rischio di transizione alto e molto alto, che dovranno sopportare notevoli costi per adeguarsi a un’economia a emissioni zero. La gran parte delle risorse finanziarie che possono essere mobilitate (14,8 miliardi di euro su 20,6 totali) è concentrata al Nord, mentre al Sud, l’area in cui incidono maggiormente le attività a rischio transizione, il potenziale da investire rappresenta solo il 12,8% (2,6 miliardi).
Il 2021 è stato l’anno delle emissioni di debito sostenibile, un mercato che dieci anni fa nemmeno esisteva e che ha superato i 1.500 miliardi di dollari (+90% rispetto al 2020), con la riconferma della leadership delle obbligazioni green (per circa 600 milioni di dollari) legate a progetti specifici in ambito energetico e di carbon neutrality. L’Italia è stata il quarto Paese europeo per prestiti e obbligazioni green, dopo Francia, Germania e Gran Bretagna e seguita da Spagna, Olanda e Svezia. A livello globale, soltanto Stati Uniti e Cina hanno superato l’Italia per emissioni cumulate di finanziamenti sostenibili: circa la metà delle emissioni infatti è riconducibile all’Europa, con un incremento dell’89% rispetto al 2020.
Il mercato ha visto un vero e proprio boom dei Sustainability-linked Loans, quei prestiti che richiedono al soggetto beneficiario il raggiungimento di specifici obiettivi di sostenibilità concordati con gli istituti di credito e monitorati annualmente: +239% sul 2020, per 454 miliardi di dollari. I Green Bonds, strumenti finanziari legati a progetti specifici con impatti positivi sull’ambiente, hanno più che raddoppiato il valore tra 2020 e 2021, superando i 500 miliardi di dollari per un totale di 1739 emissioni. Nel mercato italiano l’emissione di obbligazioni green, sociali e sostenibili da parte di entità italiane ha raggiunto un valore cumulato pari a circa 70 miliardi di euro, in larga parte costituiti da Green Bond e in particolare da Sustainability-linked Bond.
Finora il ruolo delle pmi è stato marginale, ma il potenziale è ampio. In base a un’analisi condotta da Cerved Rating Agency, il mercato prospettico vale 7,5 miliardi di euro per il 2022, con 794 potenziali nuove emittenti green. Un esame delle dichiarazioni non finanziarie di un campione di 150 aziende italiane quotate nei mercati regolamentati evidenzia una crescente integrazione delle pratiche di sostenibilità nelle strategie aziendali: le imprese che forniscono precisi target quantitativi di sostenibilità cresce dal 40% al 54%. Anche l’analisi degli score Esg – valutazione che Cerved Rating Agency offre al mercato per misurare il livello di sostenibilità in termini ambientali, sociali e di governance delle imprese – mostra uno scenario in lieve miglioramento rispetto al 2019. Fino ad oggi, tuttavia, gli investimenti di natura sostenibile hanno coinvolto principalmente le grandi imprese, lasciando alle pmi solo un ruolo limitato, anche perché la finanza sostenibile è ancora poco conosciuta: il 70% dei partecipanti a un’indagine condotta dal Forum per la Finanza Sostenibile ha riportato di non avere ricevuto proposte di prodotti Sri per finanziare le proprie attività.
La mancanza della misurazione delle performance Esg per la maggior parte delle pmi italiane costituisce il principale limite all’interesse della finanza sostenibile verso il nostro Paese: gli obblighi di rendicontazione riguardano una quota molto ridotta di grandi società (quotate) e dunque la creazione di un approccio analogo anche per le pmi diventa un aspetto fondamentale per estendere l’attenzione a tutto il sistema produttivo.
Per crescere l’Italia ha soprattutto bisogno di portare a bordo le pmi anche sui temi della sostenibilità. “Le piccole e medie imprese devono poter misurare i risultati raggiunti in ambito ESG se vogliono attrarre capitali e crediti, italiani e stranieri – conferma l’a.d. Mignanelli –. La continua crescita della finanza sostenibile rappresenta infatti un motivo di ottimismo, il 2021 è stato l’anno del debito sostenibile, le emissioni mondiali di prestiti e obbligazioni legati a progetti e parametri sociali e ambientali sono cresciute in modo esponenziale e il nostro Paese figura ai primi posti per obbligazioni green emesse. I capitali degli investitori e i crediti bancari si dirigono sempre più verso aziende capaci di fornire misure credibili della loro sostenibilità ed estendere queste misure alle PMI è determinante per l’attrattività del Paese”.