Lavoro
Sono 3,6 milioni gli uomini inattivi in Italia
Secondo Randstad Research sono il 23% del totale, quasi 5 punti percentuali in più della media Ue
Tre virgola sei milioni: è il numero di uomini inattivi tra i 30 e i 69 anni in Italia, ossia ben il 23% della popolazione maschile in questa fascia d’età, più di uno su cinque. Un dato decisamente più alto rispetto alla media europea (il 5% in più), che dimostra come l’alto tasso di inattività non riguardi solo la popolazione femminile, ma sia un problema strutturale, dovuto a una serie di fattori: la difficoltà di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro e il numero alto di pensionati già a partire dai 50 anni, l’alto ricorso alla CIG e la disoccupazione di lungo termine, insieme al ritardo nella formazione continua e al precariato, ovvero lavoro instabile e non tutelato, che rendono i lavoratori poco occupabili in un contesto di ristagno dell’economia. Emerge dal rapporto “Le isole degli uomini inattivi” di Randstad Research, secondo il quale, 1,2 milioni degl i inattivi, pari al 42% del totale, vorrebbero lavorare, ma sono scoraggiati e hanno di fatto rinunciato alla ricerca di un lavoro, molto più della media europea (26%).
Il problema colpisce soprattutto il Sud e le Isole, dove si trova ben il 43% degli inattivi tra i 30 e i 69 anni. In termini assoluti parliamo di 1 milione e 552 mila persone. Il 28,5% del totale degli uomini che abitano in quelle regioni. Quasi 1 uomo su 3, quindi, è inattivo. Sempre nel Mezzogiorno troviamo il 63% degli inattivi tra i 30 e i 34 anni e quasi il 70% degli inattivi tra i 35 e i 39 anni. Nel resto d’Italia la percentuale di inattivi sulla popolazione si ferma al 19,2% e 19.4% rispettivamente di Nord Ovest e Nord Est e al 20% del Centro.
Volendo fare un confronto con gli altri Paesi, in Italia è inattivo il 25% della popolazione maschile tra i 15 e i 64 anni (il segmento che si seleziona più comunemente per il riferimento alla popolazione lavorativa) a fronte di una media europea del 20,5%. Peggio di noi stanno solo Montenegro, Croazia e Belgio, mentre il Centro-Nord appare allineato alla media europea. Se confrontiamo la percentuale di popolazione inattiva maschile dell’Italia con quella di Germania, Spagna, Francia, Svezia e Paesi Bassi possiamo notare come questa sia sempre più alta fino ai 59 anni. Tra i 60 e i 64 anni veniamo superati dalla Francia, poi raggiunta anche dalla Spagna nella classe 65-69 anni. L’inattività giovanile è un campanello d’allarme. Rispetto alla media Europea abbiamo 4,2 punti percentuali in più di inattività.
Nella ricerca si evidenzia come uno dei problemi italiani, a cui l’inattività è collegato, è quella della bassa produttività del lavoro e della scarsa crescita economica. A questo si lega anche l’alto numero di pensionati, soprattutto in fasce di popolazione ancora relativamente giovani. Il 16% dei pensionati italiani ha tra i 50 e i 59 anni, e un altro 27% ha tra i 60 e i 64 anni. Si tratta molto spesso di persone coinvolte in crisi aziendali, risolte con scivolamenti verso la pensione o verso pensionamenti anticipati. Se si fosse optato per azioni di riconversione professionale, sicuramente molti di questi uomini avrebbero potuto ancora lavorare.
Analizzando gli ultimi 15 anni sembra che nel breve periodo, in Italia, disoccupazione e inattività si muovano in maniera asincrona. Al crescere del primo, il secondo decresce. Le spiegazioni possono essere di due tipi: quando l’economia va bene un buon numero di inattivi scoraggiati decide di presentarsi nel mercato del lavoro e va ad ingrossare il numero dei disoccupati. Una seconda spiegazione può essere che politiche attive del lavoro possano rappresentare shock positivi che spingono i beneficiari a uscire dall’inattività transitando dalla disoccupazione. Nel resto d’Europa, invece, emerge una relazione strutturale per cui disoccupazione e inattività sembrano muoversi insieme. Paesi con bassa disoccupazione hanno solitamente anche basso livello di inattività.
Più in generale, sul fronte della disoccupazione l’Italia presenta dati più elevati della media europea e di gran lunga più elevati di Paesi che hanno una maggiore tradizione di politiche attive rispetto alla nostra. La disoccupazione di lungo periodo è spesso l’anticamera dell’inattività. I disoccupati, aumentati durante la pandemia, perdono dimestichezza con il lavoro e diventano progressivamente meno occupabili. Secondo i ricercatori anche il largo uso fatto in Italia della Cassa Integrazione rischia alla lunga di sovvenzionare rapporti di lavoro tenuti in vita solo dai sussidi, mentre si dovrebbe investire nella formazione dei lavoratori. Senza considerare il lavoro precario. Secondo i dati dell’Istat, tra tempo determinato e part time involontario, oltre il 25% del totale degli occupati risulta in condizioni di insicurezza. Inattività, disoccupazione prolungata, lavoro poco qualificato possono generare la perdita di competenze, perdita tanto maggiore quanto minore è il livello di conoscenze accumulato in precedenza. Sul fronte della formazione continua l’Italia ha tassi più bassi della media europea in tutte le classi d’età, con valori che sono nettamente inferiori agli altri principali Paesi europei. Nella fascia 35-44 anni il tasso di partecipazione maschile alla formazione continua, in Italia, è al 6,4% contro il 12,4% della Francia e il 10% della Spagna. Nella fascia successiva, dai 45 ai 54, l’Italia si ferma al 5,5% contro il 10,1% della Francia e l’8,1% della Spagna.
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