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Non solo Alitalia: il paradosso delle compagnie aeree
Viaggio nel paradosso delle compagnie aeree: operano in un mercato in salute, ma per molte il fallimento è dietro l’angolo. Ecco perché
Chi, in un aeroporto, non è rimasto almeno una volta imbambolato a guardare gli aerei atterrare e decollare? Si tratta di uno spettacolo d’indubbio fascino, anche per uno spettatore capace di spiegare tecnicamente cosa consenta a questi giganti di librarsi in volo e di restare in aria. Sono molte meno le persone che si domandano, invece, cosa permetta a una compagnia aerea di restare sul mercato. Qui il tasso di poesia precipita. La domanda è indubbiamente molto più prosaica ma il mistero non è meno affascinante, soprattutto agli occhi dello spettatore italiano che ha in mente l’anomalo samsara di Alitalia, un ciclo di morte, vita e rimorte da mandare in confusione anche il buddista più avvezzo.
Quello dell’aviazione civile è un mercato dalla cui osservazione si possono capire molte cose sullo stato dell’economia e delle forze economiche che governano la società. Il punto di partenza non può che essere la Iata, l’International Air Transport Association, l’organizzazione che riunisce 290 compagnie aeree di 117 Paesi. Sono i suoi bollettini che dicono se nell’industria splende il sole o se nubi si addensano all’orizzonte. Quello del dicembre 2018, al netto delle incertezze legate al braccio di ferro tariffario tra Washington e Pechino e alla Brexit, è decisamente incoraggiante. I ricavi, per esempio, dopo una flessione tra il 2014 e il 2016, hanno ripreso a salire, toccando i 755 miliardi di dollari nel 2017 (+6,5% anno su anno), gli 821 nella stima di fine 2018 (+8,7%) e gli 885 nella previsione per l’anno in corso (+7,7%).
I numeri forniti si riferiscono al mercato globale del trasporto merci e passeggeri ma è quest’ultimo quello che vale quasi l’intera torta e cioè, nei tre anni citati, rispettivamente 534, 564 e 606 miliardi di dollari. Che il trend sia positivo, lo conferma anche l’aumento costante dei passeggeri, passati dai 3,14 miliardi del 2013 ai 4,34 miliardi del 2018 e previsti a quota a 4,58 miliardi a fine 2019.
Il mercato è in salute e le prospettive sono rosee, eppure non tutte le compagnie aeree se la passano bene. E infatti negli ultimi due anni si sono registrati fallimenti a catena. Nel 2017, per esempio, hanno cessato le operazioni Air Berlin e Monarch. Il Financial Times, in realtà, in quell’anno registrava anche il fallimento di Alitalia, che però continua a operare grazie a una successione di prestiti ponte. Ma non accade lo stesso per gli altri vettori, che hanno dovuto lasciare gli aerei a terra e il personale a casa. L’anno scorso, questa sorte è toccata alla svizzera SkyWork, che ha alzato bandiera bianca ad agosto, per essere imitata a settembre dall’omonima sussidiaria tedesca di Azur Air e poi da Cobalt Air (Cipro) e Primera Air (lettone), fallite a ottobre. A fine novembre salutava il mercato anche la lituana Small Planets Airlines.
Nel 2019, la musica non pare essere cambiata. Nei primi tre mesi dell’anno, altre tre compagnie si sono dovute arrendere al peso dei costi, non sostenuti da entrate sempre più magre. Prima Germania e British Midland Regional Limited, meglio nota come Flybmi e, il 28 marzo, si sono spenti i motori di Wow Air, compagnia ultraeconomica con quartier generale a Reykjavik che copriva Europa e Nordamerica. Il fenomeno non riguarda esclusivamente l’Europa, perché in questi ultimi due anni sono fallite anche OneJet (Usa), Wataniya Airways (Kuwait), Pawa Dominicana (Repubblica Dominicana), Asian Express Airline e Tajik Air (ambedue del Tagikistan) e la California Pacific. È però un fenomeno prevalentemente europeo, visto che – oltre a quelle citate – si sono inabissate anche Dart Airlines (Ucraina), FlyViking (Norvegia), Nextjet (Svezia), la svizzera PrivatAir (partner di Lufthansa) e la belga Vlm Airlines. Se si aggiunge la gravissima crisi di Norwegian Air, il quadro è completo.
Come spiegare quest’apparente discrasia tra un mercato in salute e compagnie che sempre più frequentemente vengono espulse dallo stesso? Nella maggior parte dei casi, la risposta è semplice: si tratta di compagnie piccole ed europee, ed è difficile dire quale delle due condizioni sia più deleteria. L’Europa è l’unica area economica alle prese con una stagnazione che dura da anni e che verosimilmente continuerà ancora a lungo. La crisi di domanda che affligge il continente si ripercuote sulle compagnie locali, penalizzate da un calo dei consumi interni. Inoltre, si tratta di player piccoli che, avendo margini di profitto ridotti, sono anche meno in grado di assorbire shock economici esogeni, come per esempio l’impennata dei costi del carburante legata all’aumento del prezzo del petrolio, passato dai 30 dollari al barile del 2016 agli 86 (picco massimo toccato nell’ottobre 2018). L’indebolimento dell’euro rispetto alla divisa statunitense ha solo complicato le cose, visto che è con quest’ultima che si paga il greggio.
Quello che è accaduto nel settore dell’aviazione civile è un’ottima dimostrazione di come agisca il mercato e di come in esso si riflettano trend sociopolitici di più ampio respiro. Salta all’occhio, per esempio, che all’allargamento della forbice sociale, in termini di reddito, fenomeno in corso da oltre 30 anni, sia corrisposto il decollo delle compagnie cosiddette high-end market, come quelle del Golfo, e il boom delle low cost. In breve, le sofferenze del ceto medio in quasi tutto l’Occidente si sono tradotte nei dolori di quelle compagnie che servivano un’utenza che non cercava il risparmio, ma non puntava nemmeno al lusso. A farne le spese più di tutti, sono state le vecchie compagnie di bandiera, tanto che a marzo il Daily Telegraph ne annunciava “la lenta morte” e si chiedeva se queste non fossero ormai una cosa del passato. Quasi brutale l’agenzia Bloomberg che, nell’agosto scorso, parlando di Air France, sosteneva che il suo futuro dipendesse dal diventare meno francese.
Questa polarizzazione produce due mercati diversi tra i quali c’è una differenza che si tende a dimenticare: mentre nella fascia alta la competizione si gioca sulla qualità del servizio e l’esclusività, in quella bassa è sul costo. Il boom del mercato low cost ha attirato decine di compagnie convinte di poter far soldi facilmente. Guardando alla crescita del numero di città collegate tra di loro, si può comprendere quali proporzioni abbia assunto questo fenomeno negli ultimi 20 anni. Nel 2017, la Iata festeggiava quota 20 mila, con ben 1.351 collegamenti in più rispetto al 2016. Nel 1995, per dire, le città collegate erano 10 mila.
L’ingresso di tanti vettori a contendersi un mercato in cui si puntava al ribasso ha creato una competizione esasperata che ha eroso i margini del profitto, buttando fuori quelle che erano meno capaci di competere. Va detto che le compagnie ci hanno messo del loro per aggravare la propria posizione, visto che nel tentativo di mungere la mucca fino in fondo, hanno moltiplicato il numero di posti su ogni volo. Secondo un’analisi di Barclays, la capienza media delle low cost europee alla fine dell’anno scorso risultava aumentata dell’11%. Riempire gli aerei è diventato sempre più difficile e il costo medio del biglietto ha subito una pressione verso il basso. A un certo punto, Ryanair aveva addirittura ipotizzato di introdurre i posti in piedi. Alla crisi, hanno risposto con una politica di tagli, non proprio la cosa più furba. E infatti, proprio Ryanair, a febbraio, prevedeva di chiudere il primo trimestre 2019 con una perdita di 22 milioni di euro, il primo rosso in cinque anni. Non si ride nemmeno nel quartier generale di Easyjet. Wizzair, da parte sua, deve fare i conti con un calo verticale dei profitti pre-tasse negli ultimi tre mesi dell’anno, passati dai 14,6 milioni di euro (2017) al milione e mezzo (2018).
Le compagnie di fascia alta hanno tutt’altro genere di problemi. Una questione molto urgente riguarda l’esiguo numero di piloti. I loro salari, dopo un periodo di flessione, determinato dalla politica di contenimento dei costi intrapresa da quasi tutte le società, hanno ripreso a salire velocemente. I big dell’industria dell’aviazione civile se li contengono a suon di soldi, pescando da quelle più piccole (la Sri Lankan continua a perdere comandanti, a vantaggio dalle compagnie del Golfo che hanno un potere economico superiore) e facendo investimenti mirati: Qantas si prepara a spendere 20 milioni di dollari in simulatori di volo avanzati per poter intensificare i programmi di addestramento, mentre Emirates ne stanzierà 135 per aprire un’accademia che formi 600 futuri capitani. Tutte sanno che nei prossimi anni dovranno farsi trovare pronte per capitalizzare un altro boom imminente. Secondo un’analisi della Iata, entro il 2037 il numero di passeggeri raddoppierà (saranno 8,2 miliardi) e questo, calcola Boeing, renderà necessari altri 637 mila piloti.
La torta continuerà a crescere ma molti invitati rimarranno a bocca asciutta. Saranno le solite compagnie a fare la parte del leone, e cioè American Airlines, Delta Airlines e Lufthansa, le più grandi e le più ricche. La prima, per esempio, vanta una flotta 956 aerei per un totale di 257.998.663 posti disponibili (calcolando tutti i voli), praticamente il doppio di Ryanair, la più grande delle low cost (439 aerei e 142.540.776 posti), per non parlare di quelle davvero piccole. Germania, per esempio, aveva 37 aerei e nel 2018 aveva trasportato quattro milioni di passeggeri.
La parola d’ordine, allora, è consolidamento, con i player in difficoltà costretti a cercare una partnership con i più forti. Così Air France ha cercato l’abbraccio con Klm, Iberia si è fusa con British Airways, mentre Austrian Airways, Eurowings e Swiss Air hanno trovato rifugio tra le braccia di Lufthansa, colosso per cui fa il tifo il Sole 24 Ore nella partita Alitalia, la cui parabola è ormai materia per scrittori fantasy più che per giornalisti economici, visto che assomiglia a La storia infinita. Solo che è molto più avvincente.