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Il racconto secondo Buffa
Lo storytelling come arte di comunicare le storie di uomini, di eventi, di aziende e dei loro prodotti. Un’arte che non si improvvisa, e in cui sono fondamentali – oltre alla preparazione – doti innate come l’intuito e l’istinto. A parlarne è il “narratore di professione” di Sky Sport
Sarà capitato anche a voi di esclamare almeno una volta: «Se oggi sento qualcuno pronunciare ancora la parola storytelling, giuro, imbraccio il fucile…». Ma disarmatevi, stavolta probabilmente ne vale la pena, perché a parlarne è Federico Buffa, giornalista e telecronista sportivo di basket (soprattutto Nba) per Sky Sport e “narratore” di professione: suoi gioiellini della tv come Buffa racconta dove ha ricostruito le vicende di personaggi e avvenimenti a tema sportivo da Muhammad Ali a Cristiano Ronaldo passando dai Mondiali di calcio all’Olimpiadi di Berlino. E in onda, attualmente, con Storie di Champions. Il tutto condito da uno stile di narrazione del tutto personale, che lo ha portato finanche nei teatri: l’ultima tournée, Il rigore che non c’era, si conclude il 10 maggio.
Ed è proprio questa sua modalità affabulatoria di raccontare uomini e fatti non lesinando sulle note creative e suggestive della comunicazione, ad averne fatto il più noto tra gli storyteller del nostro Paese. Non è un caso, quindi, che Performance Strategies di Marcello Mancini abbia voluto di recente coinvolgerlo in un evento milanese per spiegare a 600 tra manager e imprenditori tecniche e segreti di questa arte nuova ma allo stesso millenaria, se non ancestrale, dove ha ricostruito per l’occasione alcuni esempi di strategie di storytelling relative a società come Toyota, Apple, Eni, Mercedes e Juventus.
Buffa, perché – secondo lei – lo storytelling è diventato uno degli imperativi categorici della nostra epoca?Non esiste una spiegazione plausibile, nel senso che equivale a chiedersi quale sia la differenza tra un cantastorie e uno storyteller, tra uno che canta e uno che parla. A cambiare è l’accezione che si ha di quello che viene raccontato. E ciò arriva come sempre dagli Usa, dove quasi tutto è storytelling: la loro cultura, la loro stessa economia sono “descrittive”. Sono loro a dettare il modello di comunicazione contemporanea, almeno in Occidente, e quasi di riflesso è cresciuta – a mio modo di vedere, in maniera vertiginosa – la necessità di ascoltare. Il che è anche una conseguenza del diluvio di immagini da cui siamo sommersi. Le faccio un esempio: di recente stavo registrando per Sky un programma e, a un certo punto, un tecnico ha stoppato tutto chiedendo l’intervento di una truccatrice perché si vedeva un pelo che col 4K sarebbe stato troppo in evidenza. Siamo alla dittatura dell’immagine… E ogni qualvolta che ciò accade, per contrappeso, la parola acquista rilevanza. Per esempio, penso che una delle ragioni del successo di Alberto Angela stia nella lentezza del suo eloquio, tra una parola e l’altra intercorrono spesso anche dei secondi. Sembra suggerire «possiamo riprenderci un po’ di tempo per la parola?», e 7-10 milioni di italiani gli danno ragione, visto che ne apprezzano i programmi. Appena la velocità di trasmissione di contenuti audio-video ha assunto ritmi vertiginosi, intere generazioni – soprattutto in Europa – si sono chiamate fuori: così, improvvisamente, la parola ha trovato una ricollocazione. Mentre le storie ci sono sempre state, fin da quando l’homo sapiens si è accorto di essere dotato di immaginazione, ma è indubbio che in questo periodo l’attenzione sia cresciuta.
Lei com’è diventato un “racconta storie” di professione? Che è qualcosa di diverso del puro giornalista…Molto diverso. È successo per caso…
L’intervista continua sul numero di Business People maggio
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Credits Images:© US International Music and Arts