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Sarà l’Italia a scatenare la prossima crisi globale?
Brexit, dualismo tra economia reale e finanza, rallentamento della crescita del gigante cinese: sono solo alcune delle criticità che suscitano preoccupazione per il futuro del pianeta. E non è escluso che a innescare la prossima recessione possa essere proprio l’Italia
Sono passati più di dieci anni dal crollo di Lehman Brothers, l’ultimo grande crac bancario negli Usa, ma anche l’inizio della Grande recessione che ha trascinato il mondo nella sua crisi più profonda dagli anni ‘30. Oggi, dopo due lustri, l’economia globale è tornata in salute, con qualche acciacco qua e là (il pil globale è stato tagliato dall’Ocse a fine settembre al 3,7% nel 2018 e nel 2019). Diagnosticare la malattia è però compito arduo: che cosa scatenerà, insomma, la prossima crisi? Quando lo si è capito, in genere è troppo tardi. La vita media dei cicli di espansione dal secondo Dopoguerra è stata di cinque anni e quello in corso, iniziato nel 2009, è uno dei più lunghi. Per dire: tre anni fa l’agenzia Bloomberg chiese a 31 economisti quando sarebbe avvenuto secondo loro il prossimo tracollo. La risposta, quasi unanime, fu nel 2018: gli economisti non ci prendono (quasi) mai e la crisi ancora non si è vista. Tuttavia, non mancano i segnali per temere il peggio.
Partiamo dal fattore esogeno per eccellenza: la politica. In questo caso sono cinque i rischi principali indicati dalla maggioranza degli analisti: l’America First di Trump che ha rilanciato il protezionismo, imponendo nuovi dazi per contrastare la “concorrenza” cinese ed europea; la Brexit e il governo giallo-verde in Italia, che hanno rimesso in discussione rispettivamente l’esistenza della Ue e, di nuovo, la sostenibilità dell’area euro, dopo la crisi del 2010-2011 in Grecia; la Cina, che sta traghettando la sua economia da un modello basato su esportazioni e infrastrutture a un altro più sostenibile e fondato su consumi interni e servizi; la questione nordcoreana, che sembra essere rientrata; e quella mediorientale, con il “triello” Arabia Saudita, Iran e Turchia. È questa un’area da sempre strategica, soprattutto per gli enormi giacimenti di petrolio e gas naturale, materie prime che esporta anche la Russia, non a caso sempre più attiva in Medio Oriente. C’è un filo rosso che lega questi eventi in grado di destabilizzare l’economia e i mercati finanziari: il 2008 rappresenta lo spartiacque tra l’età della globalizzazione e quella del ritorno dei populismi e del protezionismo.
È questo il punto di vista di Ruchir Sharma, un investitore indiano esperto di mercati emergenti e capo degli strategist dei fondi di investimento di Morgan Stanley. Nel suo libro The Rise and Fall of Nations (2016) sostiene una tesi illuminante: l’economia mondiale sta lottando per superare le frizioni create dalle quattro “D”. Eccole: la “deglobalizzazione”, perché il commercio internazionale cresce più lentamente del pil globale; il “depopolamento”, perché la crescita della popolazione in età lavorativa ha subito una brusca frenata (un tema connesso con i flussi migratori verso i Paesi più sviluppati); il “disindebitamento” (deleveraging), nonostante solo una parte del mondo sviluppato abbia cominciato a rimborsare il debito; e la “de-democratizzazione”, perché negli ultimi dieci anni su 110 Paesi, oltre la metà ha ceduto parte delle proprie libertà e sta cercando di super-alimentare la propria economia. Se questo è il trend, ogni Stato deve ridimensionare le ambizioni, persino le economie più povere che, in genere, galoppano: per Sharma il target di crescita della Cina va rivisto dal 7 al 5% annuo, nei Paesi sviluppati dal 3% all’1,5%.
A proposito della Cina. Gli economisti continuano ad arrovellarsi sui dati macro utilizzati: c’è da fidarsi? Erik Lueth, che lavora nel braccio d’investimento delle assicurazioni britanniche Legal & General, è convinto che l’economia del Dragone sia più debole di quanto raccontano le autorità cinesi. I dati ufficiali suggeriscono che il Paese stia dimostrando una buona tenuta, nonostante una travagliata campagna di riduzione della leva. «Durante un nostro recente viaggio, abbiamo visto che la realtà è un po’ diversa», racconta Lueth. «Tutti, o quasi, hanno in famiglia qualcuno che ha dovuto chiudere la propria attività per mancanza di finanziamenti. I business manager», prosegue, «hanno un disperato bisogno di alleggerire le condizioni finanziarie e lo stato d’animo generale è amareggiato». Lueth ha costruito un indice con soli dati esterni: esportazioni verso la Cina, flussi turistici in entrata, indici pmi da parte dei partner commerciali, prezzi dei metalli e valute legate alle materie prime. Questo indicatore di crescita evidenzia un notevole rallentamento nel 2018 e fa pensare che una brusca frenata dell’economia cinese potrebbe innescare la prossima recessione globale.
Tornando alle quattro “D”, c’è anche un’altra chiave di lettura per guardare all’economia mondiale: il dualismo economia reale-finanza. L’andamento dei prossimi anni dipenderà, infatti, dal passaggio dalla spinta monetaria – il QE è terminato negli Usa e fra poco anche in Europa – alla spinta fiscale, che invertirà il rapporto tra crescita dell’economia e quella degli asset finanziari. In che modo? «Nei dieci anni passati la prima è cresciuta poco e i secondi molto. Nei prossimi sarà il contrario», scrive Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners, i primi di ottobre in una delle sue newsletter (Il Rosso e il nero), molto lette all’interno della comunità finanziaria milanese. Il problema, per alcuni, è proprio questa fiducia, quasi religiosa, in un’estensione artificiale del ciclo, legata alla continua adozione di politiche di stimolo, o in futuro aumento della produttività e degli investimenti grazie a politiche fiscali alla Trump (taglio delle tasse sulle imprese e rimpatrio dei capitali offshore). «Entrambe sono due facce della stessa tossica medaglia», spiegano in un recente studio gli economisti Pascal Blanqué, capo investimenti di Amundi (gestore di patrimoni di Crédit Agricole con masse per oltre mille miliardi di euro), e il suo vice Vincent Mortier.
Le crisi nascono sempre da crisi del debito e l’alto indebitamento dell’economia è bilanciato oggi solo dai tassi d’interesse, tenuti bassi in modo artificioso: è questo l’effetto voluto dalle banche centrali. Dal 2008 a oggi hanno pompato sul mercato oltre 9 mila miliardi di dollari, comprando titoli sul mercato, e ora stanno gradualmente rimuovendo gli stimoli monetari straordinari, facendo aumentare la vulnerabilità del sistema economico. Peccato che la “cura da cavallo” alla fine dei conti sia servita solo ai mercati finanziari. Ad esempio, Wall Street in nove anni, tra marzo 2009 e maggio 2018, ha quadruplicato il proprio valore (+300%), mentre il pil americano nello stesso periodo ha viaggiato fra l’1,6% e il 2,5%; ritmi non proprio entusiasmanti. I salari, poi, nonostante i dati brillanti sull’occupazione negli Usa, non sono aumentati nelle economie sviluppate, perché l’inflazione si è vista sulle attività finanziarie e non nelle merci. In Europa, inoltre, i tassi di disoccupazione restano molto elevati, specialmente per le generazioni più giovani e i lavoratori meno specializzati nel Sud Europa. Queste dinamiche spiegherebbero, secondo i due economisti, il fallimento dei sistemi politici nell’offrire una «crescita inclusiva», mentre l’allargamento delle ineguaglianze ha preparato il terreno per il recente successo dei partiti populisti.
E l’Italia? A differenza delle altre economie, il nostro Paese ha registrato negli ultimi dieci anni sia la minor crescita del pil, sempre sotto la media europea (fonte Ocse), sia la peggiore performance annua di Borsa (-2%), con Milano all’ultimo posto delle principali 20 piazze finanziarie mondiali (fonte Mediobanca). Non solo. Se guardiamo il mercato M&A, lungo la Penisola nello stesso periodo si sono viste non poche scorrerie da parte di gruppi industriali e fondi esteri. Dal 2008 a oggi oltre 500 importanti pezzi del made in Italy sono finiti in mano agli stranieri: è il caso di Ansaldo Sts, Bulgari, Candy, Indesit, Italcementi, Loro Piana, Magneti Marelli, Pirelli, Ntv, Valentino e Versace. «Stiamo assistendo a un notevole numero di cessioni di aziende da parte di grandi gruppi controllati da importanti famiglie imprenditoriali italiane. Un processo che riguarda non solo i brand più noti, ma anche aziende strutturate e operative in settori che raramente finisco sotto i riflettori», spiega Paolo Barozzi, avvocato ed equity partner dello studio Grande Stevens, esperto in ristrutturazioni di gruppi societari e operazioni straordinarie sul capitale. «I motivi del ridimensionamento del mondo imprenditoriale», prosegue, «sono molteplici, a partire dalla gracilità del nostro sistema industriale che risale a periodi ben antecedenti il 2008. Considerate le doverose, ancorché rare, eccezioni, esiste, poi, una oggettiva difficoltà da parte dei figli nel proseguire e sviluppare le strategie imprenditoriali dei padri e circa un quarto delle imprese italiane è guidato da leader che superano i 70 anni di età».
A frenare la “macchina Italia”, inoltre, non è solo il ricambio generazionale, ma anche il preponderante ricorso al debito bancario, pari al 90% delle risorse finanziarie a disposizione delle imprese, e, come fa notare Deloitte, un panorama imprenditoriale costituito per il 99% da pmi. Di fronte ai colossi stranieri, l’Italia assomiglia a un Paese di lillipuziani legati con il cordone ombelicale a fragili banche, che, tra fusioni e salvataggi, sono uscite con fatica dall’impasse dei crediti deteriorati per poi ritrovarsi in pancia la bomba dei Btp, considerati sempre più a rischio. Già, il debito pubblico di oltre 2.300 miliardi di euro. I titoli di Stato sono tornati a scottare, dopo l’ultima bocciatura del rating da parte di Moody’s: saranno le affannose vicende economiche-finanziarie del nostro Paese a innescare la prossima crisi? Staremo a vedere.
Articolo pubblicato su Business People, dicembre 2018
Credits Images:Al centro, il vice premier italiano, Luigi Di Maio, e il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Il preponderante ricorso al debito bancario rappresenta un freno per le pmi del nostro Paese (Foto © Getty Images)