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Economia

Italianità sì, ma dove e perché

Dall’esempio Alitalia all’affaire Vivendi-Mediaset… Quando le nostre imprese vanno salvate a tutti i costi dalle scalate straniere? Perché non sempre una proprietà tricolore è sinonimo di successo. Serve una politica industriale chiara, magari imitando francesi e tedeschi, anche se a noi manca qualcosa di non poco conto…

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Sant-Nazaire è una cittadina della Loira, più o meno a metà strada tra Brest e Bordeaux. Qui hanno sede i cantieri della fu Atlantique, oggi Stx France, società appartenente a un conglomerato sudcoreano in liquidazione. Oltre ai forti venti atlantici, spira anche vento di crisi, nonostante la società abbia commesse per oltre 10 miliardi di euro. Quando i sudcoreani, che detenevano il 66,66% del gruppo, hanno deciso di liberarsi delle loro azioni, si è fatta avanti Fincantieri, che a inizio gennaio* è stata riconosciuta preferred bidder. Apriti cielo. Al governo di Parigi, sindaci, deputati e semplici cittadini hanno chiesto di bloccare l’operazione, cioè di attuare la legge sulle società strategiche, oppure muovere il colosso militare a controllo pubblico Dcsn, perché acquisti parte delle azioni e riduca quelle a disposizione di Fincantieri. Tutto ma jamais les italiens in posizione dominante a Sant-Nazaire. Stx France, per il settore in cui opera e per il know how che amministra, è un’impresa strategica. Punto.

UNA LEGGE POCO STRATEGICAE da noi, cosa è strategico? La domanda è apparentemente oziosa ma ha un suo senso, visto che aziende e gruppi francesi non hanno incontrato molti ostacoli nell’assicurarsi pezzi pregiati della nostra industria. Il riferimento non è tanto a noti marchi della moda e del lusso o a Parmalat, nemmeno a Edison, Bnl, Cariparma e Pioneer (che pure un certo valore strategico lo avrebbero) quanto ad asset come Telecom Italia, dove col 24,68% del pacchetto azionario comanda Vivendi (alias Vincent Bolloré). Oppure a Mediobanca e Generali, che l’imprenditore bretone una volta definì «le torri di controllo dell’economia italiana». Bolloré Group possiede il 7,9% di Mediobanca che a sua volta, col 13%, è la principale azionista di Generali. Ma a fare rumore è stata la scalata ostile ai danni di Mediaset da parte di Vivendi, salita quasi al 30% del gruppo di Cologno Monzese, dal 3% da cui partiva.

Il rumore tuttavia, di per sé serve a poco, solo a riaccendere la solita litania sull’Italia in svendita. Le lacrime delle prefiche, infatti, non fanno risorgere il morto e in più ingannano, perché si potrebbe pensare che a far la differenza tra la vita e la morte, in senso economico, sia il Paese di provenienza della proprietà, quando il caso Alitalia è lì a ricordarci che non è così. La domanda, forse, non è “italianità sì o no”, ma “italianità dove”, cioè quali sono quei settori in cui è preferibile che ci sia un player italiano che lavori in sinergia con il governo.E il “dove”, non è un mistero. Anche noi, infatti, ci siamo dotati di uno strumento che consente all’esecutivo di ricorrere a poteri speciali per difendere aziende speciali. Si tratta di un decreto, il numero 21 del 15 marzo 2012 intitolato Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, entrato in vigore il 16 marzo e convertito in legge l’11 maggio.Ma qui cominciano i problemi. Si tratta, infatti, di una normativa molto recente, che ha chiuso la stalla dopo che i buoi erano già scappati (o venduti). Questo pensa Nino Galloni, economista ed ex direttore generale del ministero del Lavoro. «In questi ultimi anni il Paese non ha perso molto di più: gli eventi fondamentali sono accaduti tra gli anni ‘80 e ‘90, quando abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria dello Stato e che fosse il Tesoro a decidere il tasso di interesse sul nostro debito. Gli interessi sono andati su, gli orizzonti temporali delle imprese si sono accorciati e sono state poste le basi per le privatizzazioni delle imprese a partecipazione statale». Quelle che poi sono passate alla storia come svendite. «È stato allora che abbiamo aperto le porte agli operatori stranieri, permettendo loro di assicurarsi, a prezzi di magazzino, le nostre industrie più importanti».Ma la legge sui “golden powers” sembra avere un altro problema: fissa un perimetro molto ristretto, tanto che Mediaset – da quasi tutti definita strategica – non vi ricade dentro. Eppure lo sarebbe, visto che controllando numerosi canali televisivi si hanno gli strumenti per orientare l’opinione pubblica. Neppure le banche vi rientrano, eppure da loro dipende l’erogazione del credito a imprese e famiglie, e quindi la capacità di rilanciare i consumi e l’economia. Inoltre, come le assicurazioni e le società di gestione del risparmio, hanno in pancia miliardi di euro di debito pubblico e al governo, qualunque governo, conviene che continuino a comprarne, per evitare che il Tesoro si trovi ad avere difficoltà nel collocamento e a dover corrispondere interessi più alti.Sono fondamentali, però, anche tutti i settori ad alto o altissimo contenuto tecnologico, perché garantiscono al Paese una proiezione nel futuro, tengono in piedi la ricerca, sia teorica che applicata, e sono quelli che decideranno la distribuzione della ricchezza nei prossimi decenni.

BATTAGLIA TRA STATI

Il “cosa” si vende è importante, quindi, però lo è anche l’identità del compratore o del socio di maggioranza: a chi si vende? Su questo argomento, un parere molto interessante è quello del professor Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, istituto che realizza studi politici ed economici. Nel dicembre 2013, Fara firmò (con Benedetto Attili, all’epoca Segretario generale della Uilpa, ndr) un dossier dal titolo Outlet Italia. Cronaca di un Paese in (s)vendita, nel quale elencava minuziosamente tutte le operazioni economiche in cui aziende o marchi italiani erano passati in mano straniera tra il 2008 e il 2012: 437 acquisizioni, per un valore di 55 miliardi di euro. «In alcuni casi», spiega Fara a Business People, «si trattava di operazioni che servivano a sviluppare le potenzialità di un marchio, ma la sostanza è che negli anni abbiamo assistito all’acquisto di brand il cui unico obiettivo era quello di eliminare la concorrenza italiana». Le 223 pagine del report raccontavano quello che in molti casi è accaduto dopo l’acquisizione: delocalizzazione, chiusura di stabilimenti, compromissione della filiera produttiva, svuotamento del prodotto.Quest’opera di raccordo e vigilanza, cioè il determinare quali siano i settori strategici e quali operatori stranieri possano entrare, e con quale quota, è fondamentale perché, secondo il presidente dell’Eurispes, qualcosa è cambiato. «In passato, si assisteva a operazioni in cui c’erano gruppi che compravano altri gruppi o società che scalavano società», sintetizza Fara. «Ora ci troviamo di fronte a Stati che scalano Stati, e ho in mente il caso Vivendi o la battaglia che si combatte intorno alle Generali. Oggi l’aggressione non arriva più da singole aziende, ma da Stati sovrani».

UNA POLITICA CHE NON C’È

Si parla di politica industriale, quindi. La questione, allora, è se l’Italia ne abbia una. «Assolutamente no», afferma lapidario il professor Galloni, «l’abbiamo avuta finché ci sono state le partecipazioni statali, cioè fino agli anni ‘80. Poi si è teorizzato che non ci dovessero più essere le strategie industriali e che il mercato facesse la selezione dei bravi e dei non bravi. Chi era bravo sopravviveva, chi non era bravo, soccombeva». Anche Fara è molto critico. «Lo Stato ha rinunciato a esercitare un ruolo di regia, sorveglianza, progettazione, e lo ha fatto molti anni fa, quando ha smembrato il suo patrimonio industriale e ha acconsentito che finisse o in mani straniere o in mani di privati non proprio in grado di assicurare un futuro all’azienda venduta. È stato un errore: eravamo convinti che il mercato ci avrebbe fatto più ricchi e più felici, e invece oggi ci rendiamo conto che, in alcuni campi, il controllo dello Stato sarebbe più redditizio per il Paese. E poi, per quanto riguarda i settori strategici, avremmo dovuto fare quello che hanno fatto francesi e tedeschi, che nel campo dell’energia, delle comunicazioni e dei trasporti non hanno aperto le porte agli stranieri. È tutto in mano allo Stato, e non consentono a nessuno di avvicinarsi».

Per fare “quello che fanno francesi e tedeschi”, però, ci vogliono soldi. La disciplina di bilancio europea mal si concilia con questa esigenza. Per governi che da anni sono impegnati nel disperato tentativo di avere avanzi primari, è difficile reperire risorse da investire nel Sistema Italia. E così, da oltre 20 anni, le privatizzazioni sono la stella polare di ogni esecutivo, con l’ovvio obiettivo di fare cassa e abbattere il debito pubblico. E, infatti, quasi tutto è stato privatizzato. Lo sono state Eni ed Enel, che con Leonardo (ex Finmeccanica) sono gli ultimissimi pezzi pregiati della nostra argenteria, anche se la quota di controllo rimasta in mano allo Stato è ridotta all’osso. La gestione delle autostrade è stata affidata ai privati, mentre a breve sarà completata la privatizzazione delle Poste. Per quanto riguarda le Ferrovie dello Stato, i tempi sono più incerti, né si sa se sarà venduto solo un comparto (l’Alta Velocità) o tutto, binari inclusi.

PRIVATIZZARE, SEMPRE

Anche Telecom fu privatizzata e fu data a un imprenditore italiano, Roberto Colaninno. In base al mantra “difendiamo l’italianità” sarebbe stata una bella notizia. Peccato che furono due istituti italiani, Mediobanca e Generali (sempre loro) a decidere, anni dopo, la vendita di un gigante da 30 miliardi di fatturato a Telefonica, per soli 324 milioni di euro.Questa privatizzazione pone un altro problema, perché lo Stato si è di fatto privato del potere di esercitare un controllo esclusivo su Telecom Italia Sparkle, la società che gestisce una rete di telecomunicazioni internazionali: 500 mila km di fibra ottica, per i quali passano comunicazioni e dati sensibili, riservati e criptati: cioè informazioni di carattere strategico scambiate da diplomatici, ministri, politici e agenti degli apparati di sicurezza.

Piani sono stati predisposti nel 2012 per dismettere anche il patrimonio immobiliare dello Stato. Non sorprende che nessun governo abbia trovato il tempo e le risorse per giocare un ruolo nella decisione della Fiat di fondersi con Chrysler e di migrare all’estero, o nella vendita di Pirelli a ChemChina. «L’Italia perde ancora un’altra azienda anche per una mancata politica di governo, che deve puntare a mantenere nel nostro Paese le imprese. La Cina è il più grosso investitore alla Borsa di Milano, e questo va bene. Però portare via interi settori industriali è pericoloso per il nostro Paese», disse ad AdnKronos Cesare Romiti, a proposito di quest’ultima operazione. Anche Ansaldo Breda e Ansaldo Sts, fiore all’occhiello dell’industria italiana nel campo della costruzione di veicoli ferroviari e della tecnologia di segnalamento per i trasporti ferroviari e metropolitani, sono migrate in Asia, vendute da Finmeccanica ai giapponesi di Hitachi. Stava per migrare anche Versalis, azienda dell’Eni che opera nel campo della chimica verde, cioè a basso impatto ambientale. È un settore che nel futuro potrebbe esplodere, eppure, l’anno scorso, il cane a sei zampe stava per cederla al fondo statunitense Sk Capital per 294 milioni, un prezzo che si sarebbe poi rivelato incongruo.In Alitalia formalmente comandano ancora gli italiani, i soci del Cai, che detengono il 51% della compagnia. Peccato che i soldi gli abbiano gli arabi di Etihad, che col 49% fanno il bello e cattivo tempo. La storia di Alitalia è istruttiva anche perché rivela che se l’Italia non ha da anni una politica industriale degna di questo nome, questo non vuol dire che la politica si sia disinteressata dell’industria. Se n’è interessata seguendo altre logiche, di politica interna, cioè di bottega, e con un occhio al breve periodo. Il dramma Alitalia, una volta orgoglio e ambasciatrice del made in Italy, può esser fatto risalire alla fine degli anni ‘80, quando fu portato alle dimissioni il presidente che l’aveva resa grande, Carlo Nordio, entrato in rotta di collisione con Romano Prodi, all’epoca presidente dell’Iri (l’istituto per la ricostruzione industriale). O forse si può ricondurre all’operazione Malpensa, dispendiosa e suicida, fatta per compiacere la Lega Nord. Insomma, manca da anni una prospettiva ampia e di lungo periodo in tema d’industria, e così si rinuncia ad asset importanti per far quadrare i conti in un anno. Ma così si rinuncia alla primogenitura per il classico piatto di lenticchie: si baratta il futuro del Paese per qualche spicciolo nel presente.


Articolo pubblicato su Business People di marzo 2017

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Al centro, l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi alla presentazione del nuovo marchio Alitalia. La vicenda della compagnia di bandiera è un esempio di come la provenienza della proprietà non faccia la differenza tra la vita e la morte di un’azienda (foto © Getty Images)