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Adam Museum di Bruxelles: Plasticarium in posa
Altro che rifiuti inquinanti: i polimeri diventano arte all’Adam Museum di Bruxelles, dove il collezionista Philippe Decelle ha voluto mettere in mostra i suoi oggetti di design degli anni ’60 e ’70
A volte i grandi tesori si nascondono in mezzo ai rifiuti. Per la plastica l’assioma vale due volte: perché l’ex materiale più inquinante del pianeta è diventato il più riciclato d’Europa, al centro di una filiera virtuosa che rimette in vita gli scarti del packaging. E poi perché trae origine dalla spazzatura, in questo caso tutt’altro che differenziata, anche il più importante museo al mondo di design plasmato nei polimeri: l’Art & Design Atomium Museum (Adam) di Bruxelles. Corre l’anno 1987 quando il collezionista Philippe Decelle trova, gettata nei rifiuti, una sedia di Joe Colombo, il celebre designer italiano dagli anni ‘70 ospite fisso con le sue creazioni al Moma di New York. «Un raggio di sole nell’immondizia», così ha descritto Decelle il suo stravagante incontro con quello che sarebbe diventato il primo pezzo del Plasticarium, la galleria più fornita e prestigiosa del design anni ’60 e ‘70 creato a partire dai polimeri. All’epoca, l’utopia di un mondo di plastica era già tramontata da un bel pezzo, e precisamente dal 1973, quando la crisi petrolifera aveva fatto stringere la cinghia a tutti i produttori di derivati dal greggio. E già stava prendendo piede quell’onda ambientalista che vedeva in questo materiale la minaccia inquinante numero uno. Insomma, la plastica non è più il sogno colorato degli anni ‘60, quelli del boom economico che aveva nei Beatles e in Andy Warhol le espressioni più iconiche della stagione del benessere diffuso.
– INTERVISTA AL DIRETTORE DEL MUSEO
Materiale flessibile e low cost, portava per la prima volta nelle case di tutti i consumatori il concetto di design: gli oggetti quotidiani prendevano altre forme con pennellate vivaci dei progettisti più innovativi. Ecco l’epifania che si manifesta come un lampo delle testa di Philippe Decelle: recuperare tutto quel mondo che sembrava scomparire sotto tonnellate di spazzatura. Nasce così una passione divorante che porta il collezionista belga ad accumulare più di duemila oggetti di design confluiti nella maxi collezione del Plasticarium, che oggi comprende opere di artisti-designer del calibro di Verner Panton, Eero Aarnio, Philippe Starck, Charles Kaisi. Tant’è che il museo privato di Philippe Decelle comincia a diventare sconfinato, una meta di pellegrinaggio per gli appassionati di design di tutto il mondo. Negli anni Duemila, gli enti museali di Londra e New York si fanno avanti: vorrebbero acquisire in toto la collezione. Quelli che un tempo erano rifiuti, oggi sono contesi a livello internazionale. La spunta invece la città natale di Philippe Decelle, Bruxelles, che dallo scorso anno esibisce nel nuovo museo Adam il Plasticarium come collezione permanente, attorno al quale ruotano ogni anno tre-quattro mostre temporanee di design e che nei primi 12 mesi di apertura ha ospitato più di 125 mila visitatori.
COLORI E CEMENTOSituato sul plateau dell’Heysel, ai piedi dell’Atomium di Bruxelles, statua icona della modernità e del progresso anni ’50 – proprio quando plastica e nucleare sembravano configurarsi come “mattone” e “benzina” del futuro dell’umanità – il Museo Adam si presenta al visitatore su una superficie di oltre 5 mila metri quadri, occupati per circa la metà dall’esposizione permanente Plasticarium, costruita nel corso degli anni con pazienza certosina da Philippe Decelle. Ad accogliere il visitatore c’è la scala d’ingresso progettata da Jean Nouvel. I gradini di benvenuto richiamano i colori accessi, giallo e rosso, della grande stagione della plastica in design. Da lì in poi si entra in un mondo magico di libertà creativa e di anticonformismo: linee allungate e tonalità quasi fluorescenti accompagnano il visitatore in un percorso che pare uscito da un quadro di Salvador Dalì. L’edificio, costruito da John Portman, è stato rinnovato dallo studio Lhoas & Lhoas Architectes in collaborazione con il museografo Thierry Belenger.Gli architetti hanno deciso di articolare il percorso museale in modo non convenzionale, quindi abbandonando la rigidità dell’esposizione cronologica, per lasciare al visitatore la libertà di avvicinarsi alle isole tematiche e alle stanze dedicate ai designer più innovativi. A far da contraltare ai colori brillanti delle creazioni in plastica, gli architetti Lhoas hanno scelto un allestimento in acciaio e cemento, che si apre con la Sedia Universale di Joe Colombo per poi snodarsi nei mille colori dei pezzi più importanti della collezione, quelli che hanno fatto la storia del design: come il Cactus di Guido Rocco e Franco Mello, la poltrona Blow di De Pas, D’Urbino e Lomazzi, il Dondolo di Cesare Urbino e Franca Stagi, i Bambù di Enzo Mari, il Banco di Favriaux e Prevot, Città Nueva di Artemide, le sedie di Gunter Belzig. E poi ancora radio, giradischi, personal computer e il lavandino in poliuretano rosa confetto di Hella Jongerius e la sedia elefante di Bernard Racillac.
SOGNO MODERNOPercorrere in lungo e in largo gli spazi espositivi del Plasticarium è come addentrarsi in un film degli anni ‘70, sul modello tutto plastica delle scenografie di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. Sembra trascorso un secolo, eppure dall’utopia di un mondo di plastica siamo passati (quasi) al bando totale dei polimeri. Le normative vigenti in Europa stanno mettendo fuori legge la plastica da buona parte delle nostre vite quotidiane, come quella che in Italia ha portato alla graduale sostituzione dei tradizionali sacchetti del supermercato, che oggi infatti sono composti di materiali organici. Eppure la plastica è stata il grande sogno della modernità. Nel 1860 Alexander Parkes, in Gran Bretagna, realizza i primi materiali semisintetici, anche se il brevetto arriverà più tardi, nel 1870, grazie alla scoperta della formula della cellulosa a opera dei fratelli americani Hyatt. La cosa che sorprende ancora oggi, è che la plastica nasce con ambizioni piuttosto modeste: infatti fu intesa ai suoi esordi come un valido sostituto all’avorio con cui si producevano le palle da biliardo. Da allora invece i polimeri hanno ragionato sempre al plurale: plastiche in Pvc, bakelite, cellophane, nylon, Pet andando a porre le basi della produzione industriale di massa (a basso costo) in settori come l’arredo, l’abbigliamento, componentistica automotive, aeronautica, packaging alimentare e beverage. Una vera e propria rivoluzione che ha permesso lo sviluppo industriale e, quindi, il benessere nel secolo scorso fermato solo dalla crisi petrolifera, ma soprattutto dall’allarme ambientale sui prodotti derivati dal greggio. Dice Francesco Trabucco, direttore del corso in materie plastiche del Polidesign di Milano: «Spesso ce ne dimentichiamo, ma ancora oggi la plastica è un materiale fondamentale per la nostra vita quotidiana. Il 90% degli oggetti che ci circondato è composto di plastiche. Nell’immaginario collettivo la plastica è il vecchio moplen delle vaschette per conservare i cibi. Oggi parliamo di tecnopolimeri utilizzati nelle tecnologie più avanzate». L’Italia è stata e continua a essere grande protagonista delle plastiche, dalla scoperte scientifiche del premio Nobel Giulio Natta fino ai grandi produttori di Pet e di biopolimeri, e grazie alla creatività dei nostri designer le cui opere sono tra le principali attrazioni del museo Adam. Basti pensare a oggetti di uso comune come lo Spremilimoni di Gino Colombini, la lampada Re Sole di Gae Aulenti, tutta la produzione artistica di Kartell, fondata da Giulio Castelli nel 1969. «A partire dallo sviluppo delle tecnologie di additive manufacturing e dalla stampa 3D, che infatti utilizzano le plastiche per produrre oggetti su misura», dice Trabucco, «sono convinto che la grande stagione del design in plastica possa trovare una nuova dimensione».
Credits Images:L’Adam Museum è stato inaugurato un anno fa: fa parte del progetto di ristrutturazione dell’area dell’Expo del 1958, che ospita il celebre Atomium (sullo sfondo)