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La (vera) leadership non invecchia
Hanno avviato piccole attività nel secondo Dopoguerra e da allora hanno costruito imperi miliardari in settori quali la grande distribuzione, la gastronomia, l’editoria e la moda. Ciascuno con il proprio stile e le sue strategie personali. Ecco alcuni dei principali capitani d’azienda che, a 80 e più anni, continuano a essere protagonisti vivaci e rampanti dei mercati e delle scene pubbliche
Sono nati a cavallo di anni frizzanti e insieme difficili, come i Roaring Twenties e i Crazy Thirties: il primo conflitto mondiale era appena terminato, l’Europa era alle prese con la ricostruzione e negli States la produzione dei beni di massa e lo sviluppo delle tecnologie, dalle radio alle auto, assistevano a un’impennata. Un’epoca di benessere e di ottimismo a ritmo di jazz, non senza qualche ombra: tra tutte, il crollo della Borsa di Wall Street nel 1929 e l’affermazione dei regimi totalitari nel Vecchio Continente. Di una sostanziale frattura e discontinuità tra tradizione e modernità sono figli anche loro, i grandi capitani d’industria che avrebbero fatto fortuna a partire dagli anni ’50 e ‘60, cavalcando il boom economico, mostrandosi coraggiosi innovatori e pionieri, esplorando nuove strade, rivoluzionando interi settori sulla scia di una visione cosmopolita ricca di viaggi ed esperienze oltreconfine. Sono arrivati ad accumulare patrimoni degni di Uncle Scrooge, ma perlopiù sono sempre stati mossi dalla volontà di fare qualcosa di concreto, di migliore, per la propria comunità. Un impegno che, per molti di loro, continua incessantemente ancora oggi, con immutata vitalità e dinamismo, tanto da ispirare l’azione degli stessi “nipoti” nativi digitali.
CORAGGIOSI
INNOVATORI,
HANNO ESPLORATO
NUOVE STRADE,
RIVOLUZIONANDO
INTERI COMPARTI
IL GUERRIERO A ottobre 2015 Bernardo Caprotti ha compiuto 90 anni e i suoi dipendenti (ma lui ama chiamarli “collaboratori”) gli hanno fatto gli auguri con due pagine sul Corriere della Sera e sul Wall Street Journal Europe. «Never give up», «Non mollare mai», hanno scritto, omaggiandolo. Difficile pensare che il vulcanico imprenditore (nato ad Albiate Brianza, nel 1925) l’abbia mai fatto; più facile credere che sia stato lui, con il suo esempio e la sua tenacia da guerriero, a ispirare un simile motto. In poche decadi, il patron di Esselunga ha messo in piedi un colosso che muove un giro d’affari di 7 miliardi di euro e dà occupazione a oltre 22 mila lavoratori in più di 150 punti vendita nella Penisola, che non ha mai lasciato. E dire che lui, proveniente da una famiglia agiata attiva nell’industria dei tessuti, avrebbe potuto campare di rendita. Invece, nel secondo Dopoguerra, si è messo a viaggiare e a studiare. Negli States dell’epoca è rimasto conquistato dalla grande distribuzione, capendo che si trattava di un settore più innovativo di quello tessile e decidendo di investire in quello. Lo ricorda nel libro Falce e carrello, dove racconta anche della storica alleanza con Rockefeller per la creazione della catena Supermarkets Italiani spa, degli anni dell’espansione e delle lotte con i sindacati, finché a vincere è stata proprio la linea dura e intransigente di Caprotti, uomo avvezzo alle battaglie. Come quelle legali con i figli di primo letto, Giuseppe e Violetta, per riprendersi a 86 anni il timone dell’azienda e porre un freno alla politica troppo disinvolta e dissipatrice dei suoi eredi. O, ancora, la guerra contro le Coop Rosse, nel corso della quale ha puntato il dito, pubblicamente e in tribunale, contro il presunto sistema di privilegi, agevolazioni fiscali e appoggi politici delle amministrazioni locali in loro favore. Tenace e battagliero nel business, Caprotti è noto per essere un uomo schivo e pratico, «un calvinista, come mi definiva Indro Montanelli», ha dichiarato, «o semplicemente un normale cattolico ambrosiano. Popolare, laborioso, pratico, positivo».
– CHI SONO
– LA CHIAVE PER UN SUCCESSO DURATURO
IL PATRON ILLUMINATO«Ho fondato tutta la vita sui valori veri. La dimostrazione che si può fare impresa in Italia ed essere onesti allo stesso tempo. Certo, a nessuno piace pagare le tasse, ma voglio fare sonni tranquilli». Ne è convinto Leonardo Del Vecchio, il secondo uomo più ricco d’Italia (dopo la vedova Ferrero) e tra i primi 50 Paperoni del mondo con un patrimonio di oltre 20 miliardi di dollari. La sua è la storia di un self-made man che ha ribaltato completamente il proprio destino. Nato a Milano nel 1935, ultimo di quattro fratelli in una famiglia di commercianti di frutta, rimasto senza padre ha vissuto fino a 15 anni in un orfanotrofio. Successivamente ha lavorato come garzone in una fabbrica di incisioni metalliche finché, a 26 anni, è arrivato nella comunità montana di Agordo (Belluno) come terzista, ovvero fornitore di parti alle varie occhialerie. Ma ha alzato in fretta l’asticella. «Ho sempre preferito il poco, magari subito, ma presto, e che dipendesse solo da me: ecco perché ho deciso di vendere montature con un nostro marchio, Luxottica», ha raccontato più volte Del Vecchio. «La decisione chiave è stata poi quando ho deciso di comprare, anche in parte, i distributori che più mi piacevano, fino a sbarcare nel retail e arrivare direttamente ai consumatori». Da piccolo laboratorio meccanico per conto terzi, oggi Luxottica è un colosso da oltre 2 miliardi di euro di fatturato e 200 milioni di utile netto, nonché un eccellente modello di welfare aziendale. E quando, a maggio scorso, Del Vecchio ha spento 80 candeline, ha pensato di festeggiare regalando 140 mila azioni della società ai lavoratori italiani del gruppo: «Sono loro i veri artefici del nostro successo».
L’INDUSTRIALE CHE CI METTE LA FACCIATradizione e innovazione, qualità made in Italy, una profonda simbiosi tra la dimensione familiare e aziendale, la trasformazione dell’imprenditore in testimonial del suo stesso marchio. Sono alcune delle linee guida che hanno portato Giovanni Rana, classe 1937, a far diventare un piccolo negozio di tortellini di San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona, una maxi attività da 500 milioni di euro all’anno. Tra i primi, cruciali, momenti della crescita dell’impresa artigianale figurano l’introduzione della prima macchina per la produzione della sfoglia, nel 1968, ideata e poi perfezionata dallo stesso Rana e la successiva produzione di un formato di tortellino realizzato industrialmente, ma uguale a quello confezionato a mano dalle donne del posto, oltre al modo per far durare la pasta fresca un mese anziché otto-dieci giorni tramite “l’atmosfera modificata”. Non ne ha fatto un brevetto e in seguito ha spiegato perché: non voleva ostacolare una sana e corretta competizione del mercato, in cui ha sempre creduto. Negli anni ’80 ha declinato l’offerta di acquisizione da parte di Barilla: «Tu hai dei cavalli bellissimi», pare gli abbia detto, «io un mussetto (un somarino), ma io e mio figlio (Gianluca, oggi a.d. del Pastificio, ndr) ci divertiamo tanto». Il volo definitivo, però, Rana lo ha spiccato negli anni ‘90, quando è diventato protagonista di spot Tv in cui è apparso a fianco di divi leggendari come Marilyn Monroe, Rita Hayworth o Clarke Gable, mettendoci letteralmente la faccia e inaugurando così la nuova moda del patron-testimonial. Nel libro La mia ricetta per la serenità, commenta: «Sono un tipo casereccio, non un filosofo di quelli che usano parole difficili (…) Sono per le cose semplici e chiare (…), come i tortellini al burro».
LA LORO IMMUTATA VITALITÀ
E IL DINAMISMO CHE
LI CONTRADDISTINGUE
SONO SPESSO
D’ISPIRAZIONE PER
I “NIPOTI” NATIVI DIGITALI
LO SQUALO DEI MEDIAFiuto infallibile per gli affari, politiche espansionistiche aggressive, alleanze spregiudicate, vicende controverse tra successi, gossip e scandali. Sono, invece, alcuni dei tratti che delineano la leadership di imprenditori rampanti, sempre lancia in resta, come Rupert Murdoch (1931), lo “Squalo dai lunghi denti”, come lo definì una volta il suo rivale tedesco Leo Kirch. Creatore di un conglomerato mastodontico, la 21st Century Fox (fondata col nome di News Corporation), che spazia dalla stampa popolare (Sun) a quella di qualità (The Wall Street Journal, The Times), dal digitale satellitare (Sky) ai network via cavo (Fox), da studios hollywoodiani (20th Century Fox) fino ai publisher (HarperCollins) – e che raggiunge quasi 5 miliardi di persone, tre quarti della popolazione globale – è il 35esimo uomo più ricco del pianeta, con 12,7 miliardi di dollari. Murdoch incarna l’esempio di editore puro di matrice anglosassone: dall’Australia, che gli ha dato i natali e dove ha iniziato con un paio di quotidiani (ereditati dal padre), magazine e stazioni Tv, ha via via espanso le sue attività di comunicazione ed editoria negli States e nel Regno Unito, fino allo sbarco nel resto dell’ Europa. Oggi, nel suo mirino, ci sono le piattaforme online e le nuove modalità di fruizione dell’entertainment sul Web. Non ha mai mollato il colpo un secondo, nemmeno quando sembravano travolgerlo bufere come le pubblicazioni dei falsi diari di Hitler a ridosso degli anni ’80 e, più di recente, nel 2011, le intercettazioni telefoniche fatte dai giornalisti del News of the World. Con lui, inoltre, si è accentuato fortemente il processo di personalizzazione della leadership, accompagnata dalla sovraesposizione mediatica della sua vita privata, tra lusso e mondanità, tre matrimoni e altrettanti divorzi, fino alla sua nuova fiamma, Jerry Hall. Emblema, egli stesso, di quella società dell’immagine che ha contribuito notevolmente a creare.
I VISIONARI A settembre 2015 Ralph Lauren, classe 1939, ha annunciato le dimissioni come a.d. della casa di moda che porta il suo nome, ma di certo continuerà a rappresentare ancora per molto tempo un modello per tutti coloro che amano l’eleganza e lo stile evergreen, anche nella leadership. Una guida “visionaria”, la sua, come quella di molti altri guru del fashion a livello mondiale, ispirata dalla creatività e da profondi ideali in primis: «Le persone spesso mi chiedono come ha potuto un ebreo del Bronx creare cravatte alla moda per un élite di persone», ha raccontato. «Ci sono riuscito perché avevo imparato a sognare».Si può volare alto anche con pugno duro e determinazione d’acciaio, come insegna Giorgio Armani. Al pari delle sue collezioni senza mezze misure, senza sfumature, netto e fiero è anche il carattere che contraddistingue la sua guida imprenditoriale. Nato a Piacenza nel 1934, ha iniziato a lavorare a Milano come vetrinista a La Rinascente, specializzandosi in consulenza d’immagine. È arrivato a fondare l’azienda che por ta il suo nome a 40 anni, conquistando le passerelle con creazioni rivoluzionarie come i tailleur femminili dal taglio maschile, le giacche destrutturate stile American Gigolò, il “greige”, perfetta sintesi tra grigio e sabbia. Ancora oggi King George controlla in prima persona ogni processo estetico e produttivo, dall’ideazione alle rifiniture a mano con ago e filo. A chi tenta di insinuare che finirà per vendere il suo gruppo replica che, finché vivrà, ciò non accadrà mai: la libertà, per lui, è sempre venuta prima di ogni altro interesse. E che dire di Amancio Ortega Gaona, (nato nel 1936), fondatore di Zara e a oggi l’uomo più ricco d’Europa, con un patrimonio di 75 miliardi di dollari. Un tesoro di cui la catena del fast fashion di qualità rappresenta la punta di diamante, ma che comprende anche molti altri marchi e attività nell’ambito del gruppo Inditex. Un grande businessman, Ortega, ma riservato e schivo nella vita privata. A parlare per lui è, del resto, il suo successo che lo ha consacrato, lo scorso anno, quarto Paperone al mondo. Il caso vuole che, immediatamente prima di lui, nel Gotha di Forbes, ci sia il re degli investitori statunitensi, Warren Edward Buffett. Ha 85 anni, ma negli affari applica i suoi comandamenti di sempre: usare una lente d’ingrandimento per scrutare capitali e aziende, chiedendosi se un prodotto potrà essere venduto anche nei successivi 30 anni. Con solo una piccola aggiunta imposta dal capitalismo digitale: prediligere modelli che possano essere commercializzati su Internet. Perché lui e gli altri saranno anche nababbi attempati, ma pur sempre al passo coi tempi moderni.