Business
Ripartiamo dalle start up
L’Italia ora punta sull’innovazione, ma rispetto a Germania, Francia, Regno Unito e Spagna resta indietro di almeno dieci anni. Per recuperare il gap servono molte più risorse
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La buona notizia è che il treno è partito. Quella meno buona è che viaggia con almeno dieci anni di ritardo. Si può riassumere così l’attuale ecosistema italiano delle start up, che nell’ultimo anno ha sì visto crescere esponenzialmente il numero di imprese innovative nel nostro Paese, così come i fondi a esse destinati, ma che deve fare ancora tanta strada. Oggi il termine start up è diventato sinomino di ripresa, innovazione. Ma perché seguire il sogno di fondare un’impresa di successo quando si potrebbe, invece, investire su quelle esistenti? Perché studi internazionali, come quello di Kauffman Foundation, preso in considerazione anche dallo stesso ministero dello Sviluppo economico, parlano chiaro: le imprese innovative hanno un maggiore impatto sui livelli di produttività e occupazione rispetto a quelle tradizionali. Un esempio? Il 40% del pil degli Stati Uniti viene realizzato da imprese che non esistevano 20 anni fa; di questo 40% circa la metà è prodotto da aziende digitali come Google, Apple e Facebook. Non solo. Mentre Oltreoceano le aziende mature cancellano un milione di posti di lavoro, le start up ne creano 3 milioni l’anno. In un’economia avanzata come la nostra c’è poco da fare: crescita del pil e occupazione si creano con le nuove imprese. «Ben vengano l’apertura di un bar o di un’azienda manifatturiera», sottolinea Andrea Rangone, responsabile degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, ateneo che ha realizzato il primo osservatorio italiano dedicato alle start up. Il valore aggiunto, però, sono le nuove imprese hi tech. «Sono quelle che reinventano le regole del gioco, quel motore di novità e produttività di cui il nostro Paese ha bisogno». Un punto di vista condiviso anche dalla politica, che già dal 2012, attraverso il decreto Crescita 2.0 (poi rinconvertito nella legge n. 221/2012), ha istituito un regime agevolato per quelle imprese che si occupano di sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico. In altre parole, start up innovative.
ECOSISTEMA TRICOLORE Negli ultimi tre anni attorno a questo termine si è creato terreno fertile per lo sviluppo di tali imprese. Solo nel 2014 l’osservatorio start up della School of management del Politecnico ha registrato un aumento del 120% di start up innovative, che oggi sono più di 3.200, si trovano per il 60% al Nord (il 21% al Centro e il 22% al Sud) e danno lavoro a circa 13 mila persone, tra soci e dipendenti. A crescere sono state anche le start up finanziate (+74%), gli investitori istituzionali (+16%) e gli incubatori (cento in Italia); in aumento di circa il 60% le competizioni dedicate e quasi raddoppiati gli spazi di coworking (62). «Il ciclo è partito», commenta Rangone. «Cresce l’interesse da parte della politica, della stampa e della finanza, che si avvicina a piccoli passi. C’è più attenzione anche da parte delle università, che fino a ieri avevano presentato ai giovani altri modelli di successo: meglio manager o consulenti piuttosto che imprenditori». Di questo è convinto anche Andrea Di Camillo, ex imprenditore e oggi fondatore della società di venture capital P101; nel corso della sua carriera ha investito in più di 40 aziende (tra cui Yoox, Venere, Viamente) e co-fondato Vitaminic e Banzai, quest’ultima appena quotatasi a Piazza Affari. «L’ecosistema sta migliorando e non è solo una questione di numeri. Più se ne parla e sempre più persone valutano l’avvio di una start up come un’opportunità: posso decidere se mandare un cv a un’azienda o fare la mia azienda», spiega Di Camillo. «Così il mercato si migliora a livello qualitativo e culturale, arrivano più soldi e si innesta un circolo virtuoso. Rispetto a tre anni fa, quando c’era il Medioevo, le cose sono cambiate».
UN BUSINESS SOSTENIBILE? Agli aspiranti Zuckerberg va ricordato che non è tutto rose e fiori. «Le start up sono società appena nate il cui percorso di crescita dipende dalle capacità degli imprenditori e dei manager che le gestiscono», ricorda Di Camillo; e durante questo percorso di crescita «alcune diventano belle aziende, altre limitano le loro ambizioni, altre ancora non vedranno mai la luce. È un fatto normale». Tassi di mortalità superiori all’80, se non al 90%, un dato che vale sia per gli Stati Uniti che per l’Italia. Per molti il successo è una chimera, anche se bisogna distinguere due livelli.
Terreno fertile per le imprese digitali
È raro assistere a società che arrivano a quotarsi con grandi Ipo come Yoox o Volagratis, per queste si parla di percentuali decisamente inferiori all’1%. Ma avviare una nuova impresa non significa per forza realizzare una nuova Paypal o Uber, soprattutto in un Paese che fa della piccola e media impresa il suo cavallo di battaglia. E se il successo viene visto semplicemente come la nascita di un business sostenibile, allora le percentuali cambiano e raggiungono anche il 20%. «È molto importante parlare ai ragazzi anche di questo livello», spiega Rangone. «Start up non significa solo provare a creare “Facebook 2 la vendetta”, start up è poter fare un lavoro che si ama, anche se si arriverà a soli dieci-20 dipendenti, senza quotazione o venture capitalist alle spalle, ma divertendosi e contribuendo all’innovazione del sistema». Ma se almeno il 70% delle imprese che ricevono i finanziamenti non vedrà mai la luce, il business è conveniente per gli investitori? «Ovvio! Se non lo fosse, non farei questo lavoro», sorride Di Camillo, che aggiunge: «Una domanda del genere negli Stati Uniti non verrebbe neanche fatta. In un mercato normale questa è una fase naturale di investimento, che serve a ricambiare il tessuto economico di un Paese».
A.A.A. RISORSE CERCANSI Nel 2013 i finanziamenti complessivi in start up hi tech – provenienti sia da investitori istituzionali che da business angel e venture capitalist – hanno raggiunto i 129 milioni di euro (+15% sul 2012); nel 2014 gli ultimi dati disponibili parlano di un bilancio in calo a 110 milioni di euro, dovuto in buona misura alla chiusura dei fondi con target di investimento sul Sud Italia. Il lato positivo è che si è comunque registrato un netto incremento del ruolo svolto dagli investitori non istituzionali (business angel, acceleratori e incubatori), che a oggi pesa per il 50% delle risorse. Numeri che rimangono ben lontani rispetto a quelli di Germania, Francia, Regno Unito e Spagna: Roma investe in start up un ottavo rispetto a Parigi e Berlino, un quinto rispetto a Londra e meno della metà rispetto a Madrid. Il problema, spiega il ricercatore del Politecnico, è che «per almeno un decennio ci siamo completamente dimenticati delle start up hi tech. Dopo la bolla di Internet negli anni 2000, non le abbiamo più considerate, pensando fosse tutta una fregatura; non abbiamo considerato che un pezzo del nostro futuro potesse essere legato a esse». In altri Paesi questo non è avvenuto e ora possono contare su un ecosistema collaudato, con alle spalle almeno 15 anni di esperienza sul campo.
Il report trimestrale delle Camere di Commerciosulle start up italiane
«È come se fossimo un ragazzino alle elementari, mentre Paesi come Francia, Germania e Svezia sono studenti universitari». C’è quindi un gap temporale enorme da recuperare. Ma il “ragazzino” ha iniziato il suo ciclo di apprendimento e studia, anche se con poche risorse a disposizione. Ovvio, servono imprenditori di qualità e più innovazione – dal 2010 si registra un costante calo nel numero di brevetti e l’European Patent Office ci inserisce all’11esimo posto in Europa per invenzioni depositate – senza si rischia solo uno spreco di risorse; ma se in questo percorso ci fosse un po’ più di finanziamenti per le start up, probabilmente l’ecosistema crescerebbe più velocemente. «L’Italia avrebbe bisogno di un maggior numero di soggetti investitori, oggi sono una trentina, sarebbero meglio 70», spiega Rangone. Un pensiero condiviso anche da Di Camillo: «Per raggiungere i livelli di Francia, Germania e Regno Unito mancano le risorse. Se io sono un bravo imprenditore e per trovare un milione di euro devo vendermi la casa, mentre a Londra fanno la coda per darmeli, la cosa fa una certa differenza». Colpa della crisi economica? Per il venture capitalist è più una questione di mentalità. «Non penso che in Italia non ci siano 300-500 milioni di euro disponibili. Sì, siamo un Paese che è stato in recessione e si sono contratti gli investimenti, ma da lì a dire che i privati non sono in grado di fare almeno dieci volte quello che stiamo facendo, anche in piena crisi economica, direi un’inesattezza. La ricchezza c’è. L’attenzione alla spesa di questi tempi non giustifica questa aridità». Chiudiamo con un dato: se oggi investissimo in Italia 300 milioni nella fase iniziale delle start up, alcuni studi, («da prendere un po’ con le pinze», sottolinea Rangone) sostengono che a distanza di dieci anni i ritorni sul pil sarebbero di circa 3 miliardi, pari a una crescita del 0,2%. Che di questi tempi può fare la differenza tra ripresa e recessione.
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